Un rinnovato bisogno di pubblico. Pubblico (è) innovazione

Ogni istituzione è un organismo vivente e come tale mutevole, instabile e capace di cambiare nonostante rigide procedure e organizzazioni del lavoro. Le istituzioni possono apprendere.

di: Elena Ostanel

La sensazione è quella che ci sia un rinnovato bisogno di pubblico. Dopo quasi dieci anni di intenso dibattito- accademico e non- su potenzialità e storture dell’innovazione sociale, sembra ormai consolidata l’idea che in assenza di un supporto pubblico le azioni dal basso possano perdere di intensità e durata e soprattutto di capacità trasformativa. O meglio, l’impatto trasformativo difficilmente avrebbe carattere pubblico, rimanendo invece in comunità tendenzialmente chiuse e omogenee. Allo stesso tempo l’innovazione sociale sarebbe più presente proprio in quei territori che meno ne hanno bisogno, perché già densi di capitale sociale e territoriale o di tessuto istituzionale capace di sostenere l’attivazione locale. 

Cosa trasforma le istituzioni?

Dopo anni di ricerca su ciò che trasforma la città dal basso, sembra quindi tornare al centro l’analisi di ciò che invece può trasformare le istituzioni. Non solo rispetto alla propria organizzazione, ma soprattutto rispetto alla loro capacità di produrre valore pubblico. 

In un recente articolo, Vigar e altri offrono alcune prospettive interessanti verso questa direzione, focalizzando l’attenzione sul concetto di innovazione pubblica e identificando un possibile ruolo della pianificazione urbana in questo processo. L’articolo mette al centro cinque principali ingredienti che possono favorire innovazione pubblica: in primo luogo la capacità di creare forme di collaborazione intersettoriali all’interno dell’ architettura istituzionale; la capacità di rendere operativo un approccio di lavoro istituzionale per prove ed errori, utilizzando fase testing e progetti pilota; di inserire il processo di innovazione in un’ottica di lungo periodo, e quindi in una prospettiva di policy con adeguati investimenti e competenze; di coinvolgere il personale interno alla pubblica amministrazione, senza i quali nessuna azione trasformativa sembrerebbe possibile; e infine, di considerare la pianificazione come all’attività che può disegnare e far funzionare legami stabili di collaborazione tra il corpo istituzionale e i corpi sociali. Seguendo questo ragionamento- nel campo della pianificazione strategica- Balducci, Mäntysalo e altri hanno usato il termine trading zones proprio per descrivere quella infrastruttura locale di condivisione di concetti e strumenti e che facilita lo scambio tra sistemi e attori che possono rimanere in conflitto. 

E se queste zone di scambio tra istituzioni pubbliche e attori sociali impegnati a generare innovazione – così come all’interno dell’architettura istituzionale – fossero proprio come quegli spazi capaci di sperimentazione e accompagnare innovazione nel pubblico? E se potessero diventare luoghi permanenti capaci di far progettare l’istituzione pubblica in maniera più prossima ai bisogni territoriali e alle persone? E se la trading zone fosse quella caratteristica immanente della pianificazione strategica capace di aumentare notevolmente le risorse (non puramente economiche) delle istituzioni, estendere la funzione pubblica e trasformare radicalmente il loro modo di operare?

Il ruolo degli spazi intermedi

Nell’ esperienza di campo, dentro e fuori le istituzioni, ho potuto vedere all’opera diverse spazi di intermediazione, ancore sociali e spaziali che coprono il vuoto dei corpi intermedi in cerca di senso. Ho visto diverse forme organizzative (fondazioni per l’innovazione urbana, unità di progetto locali, laboratori urbani, gruppi di attivisti esperti a fianco delle strutture tecniche, e molto altro) diverse scale di intervento (spazi che possono funzionare a rete) e diverse professionalità (in cui la figura dell’urbanista prende tutto il suo senso) coinvolte. Le ho viste funzionare meglio dove anche la politica, per dirla alla Donolo, diventa attiva: un’euristica pratica per attori e istituzioni, dove l’interazione con l’ambiente come evoluzione è decisiva, dove i presupposti normativi e istituzionali sono componenti integrali della politica stessa. La politica attiva apprende facendo e diventa “politica di politiche”. 

Sull’innovazione, ma nel pubblico

C’è un grande bisogno di potersi tornare a fidare delle istituzioni. Come ricorda Ota De Leonardis ogni istituzione è fatta di persone. Ogni istituzione è un organismo vivente e come tale mutevole, instabile e capace di cambiare nonostante rigide procedure e organizzazioni del lavoro. Le istituzioni possono apprendere. Ma come accade per le pratiche di innovazione sociale anche l’innovazione pubblica ha bisogno di essere accompagnata. Esistono agenzie intermedie che hanno insegnato che non tutto si perde in rigide burocrazie o giochi di ruolo. Che hanno dimostrato che tanto fanno le professionalità (fatte di hard ma soprattutto soft skills) che si mettono in gioco dentro e accanto alle istituzioni. Che una pubblica amministrazione può apprendere da altre, anche su diversa scala, se non si limita a replicare in maniera sterile. Ma non bastano ricette tecniche. Il bisogno di pubblico si sostanzia sicuramente nella necessità di nuova presenza, nella forma e nella sostanza. Sostanza che deve essere fatta anche di capacità di indicare un interesse generale, di creare valore pubblico piuttosto che tutelare interessi parziali. Un atteggiamento che sia capace di sostenere la politicità delle pratiche, come dichiarare la politicità dei processi di pianificazione. 


Dopo i dialoghi tra Derrick de Kerckhove e Francesco Monico, tra Michele Cerruti But e Filippo Barbera e tra Paolo Naldini e Ezio Manzini che hanno introdotto il Convegno di ricerca Public!  a cura di Francesco Monico, Paolo Naldini, Michele Cerruti But presso Accademia Unidee (il racconto del convegno nel reportage di Marco Liberatore) ora apriamo una serie di approfondimenti sul concetto e sulle declinazioni di “pubblico”. Dopo un’analisi e un’interpretazione dell’intellettuale pubblico del filosofo Federico Campagna,  dopo “il sogno” narrativo proposto dall’architetto Maurizio Cilli sul concetto di pubblico come infrastruttura, e dopo il concetto di pubblico come innovazione della pratica a cura dell’urbanista e attivista Elena Ostanel, un saggio sul rapporto con il pubblico visto dal punto di vista di un perfomer