Se tutto è umano allora tutto è pericoloso – Eduardo Viveiros de Castro

Non si comunica perché si ha qualcosa in comune, ma perché, essendo differenti, ci interessa avere una relazione con qualcosa di diverso da noi stessi

di: Eduardo Viveiros de Castro

Pubblichiamo un estratto dal libro Lo sguardo del giaguaro. Introduzione al prospettivismo amerindo di Viveiros de Castro, pubblicato da Meltemi. Antropologo brasiliano ed etnologo americanista di rilievo internazionale,i suoi lavori propongono una riflessione sulla costituzione delle collettività amerindie, con un approccio che dall’antropologia si estende alla filosofia. La sua ricerca si inserisce nel contesto della cosiddetta “Svolta ontologica” per la quale, attraverso il contatto e il confronto serrato con il pensiero indigeno, la decostruzione del soggetto moderno e della realtà oggettiva si configura come ridefinizione epistemologica, politica e ontologia allo stesso tempo, dovuto a un rinnovato modo di intendere il rapporto tra umani e non umani.

Una delle particolarità del pensiero indigeno è che esiste un solo punto di vista: quello di ogni essere cosciente. Ogni attore in posizione cosmologica di soggetto vede il mondo allo stesso modo: è stata quest’intuizione a guidarmi. Al contrario, la vulgata antropologica civilizzata invita a pensare che la natura si apprende, si percepisce, si concepisce in modo diverso a seconda dei diversi punti di vista: sia che questi siano quelli degli individui come centri di soggettività, sia che siano quelli delle culture come collettivi di significazione, oppure che siano quelli dell’umanità come un punto di vista zoologico specifico sul mondo, diverso dal punto di vista dei coccodrilli, dei microbi, ecc.

Si ha sempre l’idea di trovarsi di fronte a qualcosa di più grande dello sguardo. Si tratta dell’immagine della città vista da diverse angolazioni: ogni punto di vista ci permette di contemplare alcune strade, alcune prospettive. Questo Oggetto viene chiamato “natura” e il Soggetto viene chiamato “cultura”. L’universale sta all’esterno: è obbiettivo. Il reale, nella sua universalità, è indifferente alla rappresentazione: è neutro. Al contrario, il punto di vista è soggettivo, rappresentativo, frammentario, parziale, limitato. Data questa dicotomia costituzionale, tutto ciò che l’Antropologia deve fare è confrontare i punti di vista per riconciliarli, per trovare il denominatore comune. La scienza umana sarebbe quindi: la ricerca del massimo comune denominatore – le strutture elementari di questo e di quello, la grammatica universale, il simbolico. Ma, per continuare con l’allegoria aritmetica, a questo pensiero contrappongo la determinazione del minimo comune multiplo, che permette di moltiplicare le cose invece di dividerle, per arrivare a una quantità che è necessariamente più povera di quella che si manifesta specificamente in ognuna. Quando si comparano le culture per scoprire “cosa hanno in comune”, si osserva necessariamente che ciò che hanno in comune è meno ricco di ciò che costituisce la loro specificità, le zone di sovrapposizione sono infatti necessariamente più ristrette. Ciò corrisponde all’idea che la natura umana debba essere minore, in termini di estensione o di ricchezza, della cultura, poiché la natura è solo ciò che abbiamo “in comune”. Ciò presuppone una concezione della relazione (in generale) come qualcosa che è condiviso da termini correlati. Una relazione sociale sarebbe allora costituita solo dai nostri punti comuni: siamo tutti uomini, siamo tutti democratici, ecc. Comunicheremmo attraverso questa comunità.

Penso però che ci siano altri modi di concepire le relazioni. Gli indigeni d’America hanno, per esempio, una metafisica della relazione completamente diversa dalla nostra. Non si comunica perché si ha qualcosa in comune, ma perché, essendo differenti, ci interessa avere una relazione con qualcosa di diverso da noi stessi. Tuttavia, mi sto anticipando. La vulgata metafisica occidentale consiste nell’idea che esista appena una sola natura esterna e varie culture, varie soggettività, che ruotano attorno a questa natura. Questa funziona così: come sovra-natura è un correlativo di Dio. Dio si è assentato ma, al suo posto, ci ha lasciato una Natura come principio di unità e di universalità, qualcosa che “c’è” affinché le cose possano mantenersi unite. Altrimenti vivremmo un multiverso diabolico, un mondo di apparenze e simulacri. È necessario qualcuno che garantisca un senso, è necessaria un’unica Natura, il Dio moderno. Il Dio dei filosofi. Il Dio dei fisici. Quello che non lancia – o forse sì – i “dadi”1.

Ora, quando s’interroga la mitologia amerindia, proprio quella che Lévi-Strauss usava per illustrare l’opposizione natura/cultura, si percepisce, in primo luogo, che quello che tutti i miti dicono è che in passato tutti gli animali erano esseri umani, tutte le cose erano esseri umani o, più esattamente, persone: gli animali, le piante, i manufatti, i fenomeni meteorologici, gli incidenti geografici… I miti narrano il processo attraverso cui gli esseri che erano umani hanno smesso di esserlo e hanno perso la loro condizione originaria.

Se la questione è posta in questo modo, si comprende che siamo agli antipodi della nostra mitologia moderna. Per noi, il terreno comune tra l’uomo e gli altri animali è (precisamente) l’animalità, non l’umanità. Gli umani sono una specie animale, non esattamente “tra le altre”, poiché siamo dotati di qualcosa in più: l’anima, la cultura, lo spirito, la lingua, la Regola, il Simbolico, il Dasein, ecc. I miti amerindi dicono il contrario. Invece della teoria evolutiva (lato sensu) che afferma che “gli esseri umani sono degli animali che hanno guadagnato qualcosa”, per gli amerindi gli animali sono esseri umani che hanno perso qualcosa. L’essere umano è la forma generale dell’essere vivente o, addirittura, la forma generale dell’essere. Presupposto radicale dell’umano. L’umanità è lo sfondo universale del cosmo. Tutto è umano.

Quando gli indigeni cercano di esprimere quest’idea con un linguaggio semplice, che anche noi possiamo capire, dicono: tutti gli animali e tutte le cose hanno un’anima, sono persone. Un giaguaro, per esempio, è più di un semplice giaguaro; quando si trova da solo nella giungla, toglie le “vesti” da animale e si mostra umano. Tutti gli animali hanno un’anima antropomorfa: il loro corpo, in realtà, è una specie di abbigliamento che nasconde una forma fondamentalmente umana. Noi occidentali invece pensiamo di indossare vesti che nascondono una forma essenzialmente animale. Sappiamo che, quando siamo nudi, siamo tutti animali. Gli istinti, dietro gli strati di questa vernice che chiamiamo cultura, costituiscono il nostro sfondo animale, primate, mammifero, ecc. Gli indigeni vedono le cose in modo opposto: dietro i corpi-vesti degli animali, si trova un personaggio umano. Ciò che la mitologia dice è che l’umanità non è l’eccezione, ma la regola. Non siamo una specie scelta da Dio nei momenti finali della creazione ma, al contrario, la condizione di partenza.

La seconda concezione molto interessante, che si trova un po’ ovunque nell’America indigena, è l’idea che ogni specie vede sé stessa come umana. Ogni specie si vede come l’incarnazione dell’umanità autentica, nella sua forma corporea e nelle sue abitudini. Ciò che i giaguari mangiano è da loro visto come alimento umano. Per esempio, quando passa la lingua sul sangue di una preda abbattuta nella foresta, il giaguaro non vede quel liquido come sangue crudo, ma come birra fatta con manioca fermentata. Dato che gli esseri umani non bevono sangue ma birra di manioca, i giaguari – che sono umani nei loro ambienti e dal loro punto di vista – sperimentano quel liquido che emana dal corpo lacerato della preda come una buona birra di manioca, servita in una zucca attentamente pulita e ornata. In altre parole: ogni specie si vede sotto le specie della cultura.

Quindi l’uomo, per la sua forma e per quello che fa, è umano al 100%…

Questo è un problema. Se ogni specie si vede come umana, ciò non significa che veda le altre specie come umane. Vediamo i giaguari come animali selvatici; i giaguari, da parte loro, non ci vedono come umani, ci vedono come maiali selvatici, come pecari2, perché ci mangiano. A loro volta i pecari, che si vedono come esseri umani, ci vedono come giaguari, o come spiriti cannibali, visto che li mangiamo… Quindi ogni specie vede sé stessa come umana e vede le altre specie come non-umane: sia come prede che come predatori. Tutto accade come se esistesse un’unica grande rete trofica che va dagli spiriti cannibali agli animali più insignificanti. Ogni specie si trova da qualche parte in questo continuum, perché si mangia sempre qualcosa di diverso da sé stessi e si è mangiati da un’altra specie; si sta sempre in due posizioni – quella di predatore e quella di preda.

Quando applichiamo questa idea a noi stessi, sorgono due problemi. Il primo, “ovviamente”, è che ci vediamo come umani – come fanno tutte le specie. Non vi è, quindi, alcuna garanzia che il modo in cui vediamo noi stessi sia il vero modo di vedere, poiché questo è il modo in cui tutti gli esseri viventi vedono sé stessi. D’altra parte, abbiamo buone ragioni per credere che le altre specie non ci vedono come noi ci vediamo: noi, infatti, non le vediamo come loro ci vedono. In effetti, vediamo i pecari come maiali e non come persone. Crediamo che i pecari pensino di essere persone, quando sappiamo che non lo sono. Sappiamo che sono pecari. Ma gli stessi pecari devono pensare lo stesso di noi, loro pensano di essere davvero persone e che noi non lo siamo. Ciò produce quindi una preoccupazione identitaria molto intensa; non basta “vedersi” umani, perché letteralmente tutti lo fanno: l’umanità di contenuto rende molto problematica l’umanità di forma.

Al contrario, immaginare il mondo sotto l’ottica della teoria freudiana, per esempio, in cui l’uomo primitivo proietta la sua umanità sulle forze naturali e umanizza il cosmo rendendolo meno minaccioso, contro-produce una teoria molto sicura di sé (il teorico) rispetto agli altri (i primitivi o le cose) e, in fondo, molto confortante. Narciso ferito si lecca le ferite: ma per lui si tratta di nettare. Il principio di realtà: c’è un certo piacere nel lasciarsi guidare da esso, perché no? Gli indigeni, quindi, non professano una teoria edenica della riconciliazione di tutti gli esseri viventi, in cui tutto sarebbe buono, bello e vero perché umano. Penso che sia vero il contrario: quando si umanizza tutto, diventa tutto molto pericoloso. Il mondo “incantato” è un mondo rischioso e imprevisto, metafisicamente parlando. Non ci sono solo fate buone nelle fiabe, anzi. Dopo tutto, può darsi che l’unica cosa non-umana siamo proprio noi.

Come sappiamo, l’unica cosa veramente pericolosa al mondo sono gli uomini: gli oggetti non fanno male, certamente non per cattiveria. Gli indigeni pensano anche che se una cosa o un animale sono solo questo, allora non creano problemi. Un vero giaguaro non attacca gli uomini. Se attacca un uomo, allora non è un giaguaro comune, ma un uomo travestito da giaguaro, cioè il giaguaro nel suo “momento” da uomo. Perché solo gli uomini uccidono gli uomini. Non si può nemmeno dire che gli indigeni siano semplicemente relativisti perché dicono che ogni specie vede le cose in un certo modo. Gli avvoltoi, per esempio, vedono i vermi che brulicano su una carogna nella foresta come pesce arrosto, “visto che” mangiano questi animaletti. Si potrebbe immaginare che la morale di questa storia sia che tutti i modi di vedere il mondo siano equivalenti, che tutto sia relativo: gli avvoltoi vedono le cose in un certo modo, noi, i veri umani, in un altro… non ci sarebbe motivo di scegliere una buona descrizione della “realtà”.

Ma non è affatto così. Gli indigeni non dicono che ogni specie vede le cose in modo diverso. Al contrario dicono che se gli avvoltoi vedono solo pesce alla griglia, è proprio perché sono come noi, che mangiamo solo pesce alla griglia. Pertanto, se gli avvoltoi mangiano qualcosa, per loro questo sarà necessariamente pesce alla griglia. Ogni specie vede le cose allo stesso modo. Sono le cose che cambiano.

Gli spiriti animali possiedono tutto ciò che caratterizza qualsiasi cultura indigena. Gli avvoltoi-gente, i giaguari-gente, tutti gli animali-gente hanno le stesse intuizioni degli indigeni-gente. Vivono nello stesso tipo di case, mangiano lo stesso tipo di cose, hanno lo stesso tipo di malattie e così via. Non ci sono quindi diversi modi di “vedere”, ce n’è solo uno. Ciò che varia è il mondo stesso, non il modo di vederlo. Per noi, sono le “visioni del mondo” che differiscono, ma il mondo rimane lo stesso. Per gli indigeni il modo di vedere è sempre lo stesso, per quanto passi da una specie all’altra: ciò che cambia è il mondo stesso. Si ha quindi questa doppia inversione. Da una parte tutto è umano, anche se ogni specie non lo è allo stesso modo (esattamente come noi “occidentali” sappiamo che non siamo animali identici ai coccodrilli). L’umanità è universale, lo spirito è universale, non il corpo. Per noi è il corpo a essere universale, nel senso che siamo tutti fatti della stessa sostanza: atomi, carbonio, DNA, ecc. Lo spirito, al contrario, è sempre il luogo della differenza, della singolarità, della particolarità della cultura – lo spirito collettivo – o lo spirito individuale – il soggetto. Ci distinguiamo sempre in relazione allo spirito. Dal punto di vista fisico, tutti comunichiamo; tuttavia, dal punto di vista metafisico, siamo tutti separati. Il grande problema della scienza sociale spontanea dell’Occidente moderno è come comunicare: infatti non comunichiamo a livello di spirito, ma di corpo. Lo spirito è sempre solipsistico. Questa serie di interventi sono il contratto sociale, il simbolico, il linguaggio. È necessario dedurre un gigantesco edificio concettuale che spiega come possiamo comunicare, esistere collettivamente. Dopo Cartesio, l’unica cosa la cui esistenza può essere certa è l’Io. Per quanto riguarda l’esistenza degli altri, è necessario dimostrarla. L’idea dell’evidenza dell’io e della non evidenza degli altri, che sta all’inizio della nostra metafisica moderna, è esattamente l’opposto di quella degli indigeni, secondo cui è l’Io a essere in dubbio. Non si è mai sicuri di chi si è, perché gli altri possono averne un’idea molto diversa e possono riuscire a imporcela: il giaguaro che ho trovato nella giungla aveva ragione, era lui l’umano, io ero soltanto la sua preda animale. Io ero un tapiro o un cervo, o forse un maiale…

Gli altri, invece, sono un dato evidente. Il problema per gli indigeni non è l’assenza o la mancanza di comunicazione. Al contrario, c’è un eccesso di comunicazione. Se gli animali sono umani, se le cose possono ospitare forme umanoidi interne, se il tuono è una persona, allora tutto comunica. Il che non significa che siamo capaci di comprendere tutto ciò che ci viene detto; l’eccesso di comunicazione può degenerare in “rumore bianco”, un opposto del silenzio che corrode ancora più insidiosamente la rete che ci collega al resto degli esseri esistenti. Tutto parla, ma è necessario ascoltare con molta attenzione per capire.

Allora, quando si mangia qualcosa, cosa si sta mangiando esattamente? È necessario fare tutti i tipi di acrobazie sciamaniche per de-soggettivare la carne che viene mangiata, per farci dimenticare che l’umano è ovunque.

1 In portoghese si crea un gioco di parole, perché “dati” e “dadi” sono omonimi. [N.d.T.]

2 Pecari, mammifero della famiglia dei Taiassuidi, originario delle Americhe e diffuso in Brasile anche con il nome porco-de-mato, maiale della foresta. [N.d.T.]