di: Giusi Palomba
«Come facciamo a rendere una persona responsabile di un torto commesso, e allo stesso tempo a restare in contatto con la sua umanità quanto basta per credere nella sua capacità di trasformarsi?»
Nel 1998 bell hooks pone questa domanda a Maya Angelou nel corso di un denso dialogo che tocca temi come la necessità dell’arte, della scrittura e della poesia, e poi della responsabilità collettiva e della compassione. Tutto è fedelmente riportato tra le pagine della rivista di ispirazione buddista Lion’s Roar [1] e il dialogo è moderato dal caporedattore Melvin McLeod. Le due autrici si ritrovano a parlare del caso giudiziario che ha coinvolto il pugile Mike Tyson, accusato di stupro da Desiree Washington nel 1991, condannato a sei anni di prigione e scarcerato dopo tre. bell hooks racconta che negli anni in cui il caso dominava i media tutti volevano sapere per chi parteggiasse, senza nessuna ulteriore richiesta di riflessione, e ricorda di aver avuto la necessità di tenere insieme due tensioni: che Tyson rispondesse della violenza, ma che si aprisse anche un dibattito pubblico sulla cultura in cui Tyson era cresciuto e che l’aveva reso uno strumento di violenza. Sfortunatamente, era un dibattito a cui nessuno sembrava interessato.
Angelou allora le risponde chiamando in causa la polarizzazione della società: la scelta di schierarsi e basta, sebbene possa essere complicata, è di sicuro il modo più semplice di affrontare la complessità del reale. È un po’ come strappare la realtà in due esatte metà e scegliere di vederne soltanto una. Eppure, l’altra parte, il resto della realtà, continua a esistere, anche se appare sfocata e fumosa, anche quando ignorata.
Venticinque anni dopo siamo sempre lì: la realtà è ancora polarizzata come notava Angelou, e il dibattito a cui aspirava hooks è ancora inesistente. La violenza di genere, intanto, continua a invadere le relazioni intime e quelle pubbliche, e come la ruggine che corrode piano piano un meccanismo, rende molto complicato – quando non impossibile, o insopportabile – far funzionare la vita in comune.
Nel 2020 ho raccontato una versione molto ridotta della storia che è la prima parte di questo libro in un articolo pubblicato sulla rivista Menelique. L’impatto è stato più che inaspettato: il pezzo è stato letto da molte persone e, nel tempo, ho ricevuto molti messaggi e richieste di approfondimento, che ho cercato di soddisfare quando era possibile. Accanto ai messaggi di chi, per le più varie ragioni, considerava quella lettura un passaggio utile nella propria esperienza di elaborazione, ho ricevuto anche degli attacchi da persone, soprattutto donne, che vedevano nel mio articolo un’imperdonabile giustificazione per gli uomini che commettono violenza.
È qualcosa che mi turba ma che riesco a comprendere. In genere, l’idea di punire con l’esclusione e l’isolamento chi ha inferto un danno sembra l’unico modo possibile di garantire sicurezza, non c’è altro nella nostra immaginazione, nessuno ci racconta un’alternativa.
È stato importante iniziare a chiedermi in che modo si riconquista quello spazio di immaginazione, strappato alle certezze e ai percorsi obbligati, e in che modo si accresce la fiducia necessaria per innescare un confronto e si diminuisce il senso di minaccia che ne deriva. Che tipo di società può tenere insieme il superamento del punitivismo con la difesa di chi subisce la violenza?
I movimenti come il #MeToo hanno scosso dal torpore una società allenata a coprire gli uomini violenti, ma il femminismo che si è imposto negli ultimi anni ha spesso oscurato i margini e gli orizzonti del discorso, compresa la pratica di alternative alla punizione. Le critiche che hanno prodotto i femminismi più politici, e soprattutto i femminismi comunitari, decoloniali e anticarcerari, sono state completamente silenziate. Quello che è stato accolto a braccia aperte dai media è stato soprattutto un femminismo allineato con i valori neoliberali, in cui regna l’idea che le donne siano tutte uguali e per emanciparsi debbano sfondare il cosiddetto tetto di cristallo, conquistare il potere, aspirare al successo e occupare le stesse posizioni abitualmente occupate dagli uomini. Non importa quali idee incarnino, quali cambiamenti metteranno in atto, non importa se saranno portatrici delle stesse dinamiche oppressive: la sola rappresentazione delle donne di potere nello spazio pubblico è considerata emancipazione.
L’ambizione di questo femminismo è l’empowerment, nella sua accezione più individualista, legata a doppio filo al successo economico: la realizzazione sta nella carriera che permette l’accesso agli spazi del privilegio che prima erano negati. Ma questo accesso non è garantito a chiunque. È di sicuro più facile per chi si fa portavoce di un femminismo addomesticato, per sempre giovane, sensibile alle ricompense del mercato, avvezzo a smussare gli spigoli e a non avanzare mai critiche troppo scomode. Quello che si esprime principalmente tramite i media, i social, che frastorna e che produce incessantemente contenuti, sempre più lontano dalle storie reali, senza più genealogie.
L’enorme quantità di contenuti social di questi ultimi tempi ha cambiato in modo cruciale i modi in cui tradizionalmente si è fatta la politica orientata al cambiamento e alla giustizia sociale. Fino a qualche tempo fa, fare attivismo voleva dire avvicinarsi a qualche gruppo nel territorio in cui si vive, e piano piano partecipare alle iniziative, campagne, assemblee, proteste. E voleva dire anche adattarsi ad azioni, regole e dinamiche complesse, linguaggi non sempre facili da comprendere, a volte criptici e respingenti. Negli spazi virtuali invece, trionfa una lingua semplice, e l’accesso è garantito più o meno a chiunque abbia uno smartphone e un account sui social più diffusi. Fuori dai social ci sono figure e situazioni che intimidiscono chi è più introverso, chi viene da contesti marginali, chi per una ragione o un’altra non ha possibilità di partecipare nelle forme più tradizionali di protesta, mentre gli spazi dell’attivismo online più massificato rispondono meno a dinamiche di gruppo, a volte oscure, e più alle tecnologie su cui si fondano (altrettanto oscure). Ma c’è un prezzo invisibile che si paga e non si vede. Gli spazi delle piattaforme digitali di massa non sono neutri e indipendenti, non sono spazi liberati, ed è un po’ come se a un certo punto il fine si confondesse con il mezzo. Le forme del coinvolgimento si adattano alla struttura stessa della piattaforma: il protagonismo individuale, innanzitutto, i follower che ruotano intorno a un account che è il centro di potere, l’interazione ridotta al minimo e la facilità con cui si silenziano le voci contrarie.
Nel 2020, anno in cui inizia la pandemia, i social commerciali diventano canale di comunicazione e divulgazione privilegiato, superando i periodici scandali che li investono: le questioni legali sul trattamento dei dati, i problemi sulla salute mentale giovanile, i finanziamenti di gruppi sovranisti e organizzazioni di destra, senza tralasciare la questione della proprietà delle piattaforme, in mano a un ristretto gruppo di miliardari che si ritrovano a dover navigare in questioni importantissime come la libertà di espressione e l’integrità dell’informazione. Ogni tanto torno a fare visita al mio account Mastodon, una sorta di social alternativo, gestito senza poteri centrali, che esiste da tempo ma sta prendendo piede solo ora. È lì che ho letto un commento un po’ caustico di un’utente storica che mi è rimasto impresso: «Ora che siete arrivati in massa, evitate di portare da queste parti le logiche dei social commerciali!» Chissà fino a che punto queste logiche ci hanno in effetti già corrotto, tanto da non essere più in grado di riconoscerne gli effetti. Perché non bastano gli scandali e le crisi ad arginare il bisogno di comunicare, perché in fondo si fa quel che si può, con i mezzi a disposizione e quelli che troviamo più sostenibili in un dato momento per rimanere in connessione. Forse, tra gli effetti più evidenti di que sta esposizione massiva ai nuovi mezzi di divulgazione e comunicazione, c’è la perdita progressiva delle sfumature di senso. Ci permettiamo molto più facilmente di liquidare la realtà – e le situazioni complesse della realtà – in modo molto sbrigativo, non badiamo più ai contesti, facciamo più asserzioni che domande.
Anche l’attivismo femminista, nella sua versione online, ha subito un processo di semplificazione accelerato. Nei casi peggiori, lo sforzo per il cambiamento si riduce a un riassunto in grafiche Canva e liste nere e prescrizioni: cosa fare, chi odiare e chi idolatrare, un pacchetto completo di azioni da seguire, aggiornato quotidianamente. È il cosiddetto influencer feminism che irrompe sulla scena e raggiunge migliaia di follower e l’attenzione di molti brand. E sì, esattamente perché si sviluppa su social commerciali, la fiducia incondizionata riposta in personaggi di culto si tramuta in una vera e propria nicchia di mercato. Non si tratta di sostenere piccoli marchi indipendenti, o progetti per finanziare associazioni o gruppi no profit: questo successo attira l’attenzione di multinazionali e grandi marchi. Il mercato rincorre le giovani donne e lo fa sui loro canali, che non sono più i media tradizionali, ancora stretti in troppe maglie: i social, terra di nessuno in quanto a regolamentazioni del mercato pubblicitario, diventano una ghiotta opportunità di business, e la loro flessibile infrastruttura è in grado di accompagnare e condizionare le modalità di interazione per meglio rispondere alle proprie esigenze. Tocca capire a questo punto come misurare i passi avanti nella conquista di maggiore giustizia tra questi conflitti di interessi. L’aumento esponenziale di follower di pochi account dell’influencer feminism corrisponde a un progresso della società?
Qualche tempo fa una nota influencer britannica, Florence Given, pubblica nelle storie di Instagram un box in cui chiede alle sue follower di inviarle delle domande. A questa azione segue una valanga di richieste di consigli su relazioni sentimentali e a ogni singola domanda l’influencer risponde: «Dump him!», «mollalo!», ispirandosi a un’iconica t-shirt sfoggiata da Britney
Spears vent’anni prima. Non importa quale sia il problema, chi ponga la domanda, in che situazione si trovino le persone coinvolte, l’unico consiglio per risolvere i problemi relazionali è: mollalo! La risposta diventa così popolare che finisce per diventare etichetta di un particolare femminismo che fa delle proprie esigenze e priorità l’unica legge.
Di sicuro sono tantissime le circostanze in cui dump him! è un consiglio utile e valido, considerata l’enorme mole di relazioni in cui si consumano abusi di ogni tipo, ma non credo che l’esortazione sia capace di contemplare tutte le possibilità, tutte le differenze, tutte le esigenze. Non è importante badare a chi l’ha lanciato, ma comprendere perché questo slogan ha avuto la capacità di diffondersi come un mantra tra le giovani donne. La risposta, credo, è che lì il messaggio «femminista» e quello neoliberale coincidono: entrambi professano individualismo estremo, competizione e conquista del prestigio.
«Spietato». Così Ash Sarkar definisce su Novara Media [2], sito di informazione indipendente britannico, quello che ha subito preso il nome di dump him feminism. Sarkar esamina tutti i messaggi motivazionali che partono dalle icone del femminismo social che invitano a pensare soltanto a se stesse: «You Are Enough, You Don’t Owe Anyone Anything», il concetto di «self care» che perde tutto il suo valore politico e sfocia troppo facilmente in egoismo (siamo lontane dalla self care proposta da teoriche come Audre Lorde, un’idea e pratica di lotta contro una società che non si cura della salute delle donne razzializzate). È vero che il lavoro delle donne, specie quello domestico e quello emotivo, è stato sempre invisibilizzato, ma, come dice Sarkar, c’è il rischio di arrivare a un altro estremo, ovvero all’idea che le donne siano esenti da ogni responsabilità di mantenere una relazione sana. Siamo passate dall’idea che le donne non devono né sesso, né lavoro domestico e né bellezza a nessuno, all’idea che le donne non devono niente a nessuno. Dal riconoscimento del peso del lavoro emotivo non equamente distribuito, all’idea che qualsiasi forma di impegno verso gli altri sia il male assoluto.
Come se vivessimo davvero in una bolla, in cui le azioni non hanno conseguenze sul reale, ed è ok mollare tutto senza pensarci troppo, i partner, tutto quello che non ci piace e con cui non sappiamo fare i conti. Finché non rimane soltanto una faccia della realtà, quella che ci piace considerare giusta. E il resto scompare. Scompaiono l’empatia, la compassione, la complessità del reale, banalmente i problemi altrui, che possono essere insopportabili quando tutto ciò che importa è la propria persona. Scompare l’idea di essere individui interdipendenti, e scompaiono tutte le possibilità di riparazione e trasformazione.
© Giuseppina Palomba, 2023 © minimum fax, 2023 Tutti i diritti riservati
1. Melvin McLeod, «“There’s No Place to Go But Up” – bell hooks and Maya Angelou in conversation», Lion’s Roar (online), 1° gennaio 1998.
2. Ash Sarkar, «“Dump Him” Feminism Isn’t Revolutionary. It’s Callous», Novara Media (sito), 3 settembre 2022.
Pubblicato il: 27.06.2023
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita