Immagine e realtà – Gilbert Simondon

L’immagine non è una realtà senza forze, è bensì un campione di vita, una realtà intermediaria tra l’astratto e il concreto, tra l’io e il mondo

di: Gilbert Simondon

Grazie a Mimesis Edizioni e a Roberto Revello che ne ha curato l’edizione italiana, per la prima volta viene tradotto, con il titolo Immaginazione e invenzione, il corso tenuto da Simondon alla Sorbona nel 1965-1966,  Un corso per un pubblico misto di studenti di filosofia e psicologia. In questa occasione il filosofo francese sviluppò in maniera approfondita la sua teoria dell’immagine, ripercorrendone la genesi. Con il termine “immagine” si intende generalmente ciò che designa un contenuto mentale di cui si può avere coscienza ma nulla prova che la presa di coscienza esaurisca l’intera realtà di questa attività. Inizia così una riflessione filosofica sul modo in cui l’individuo prende forma nella sua relazione con l’ambiente, proprio mentre contribuisce a modificarlo attraverso processi immaginativi tra il collettivo e l’individuale.

 

 

Il termine “immaginazione” rinvia alla “psicologia delle facoltà”, ciononostante è utile perché presuppone che le immagini mentali procedano da un certo potere, esprimano un’attività che le formi e richiedano forse l’esistenza di una funzione che le impieghi. Però il termine “immaginazione” può indurre in errore, poiché attribuisce le immagini a un soggetto che le produce e tende a escludere l’ipotesi di una esteriorità primitiva delle immagini rispetto al soggetto. È una posizione che ricorre nei pensatori contemporanei, per i quali l’immagine rinvia a una “coscienza immaginante”, secondo l’espressione di Sartre. Ma perché escludere quali illusori i caratteri per i quali un’immagine resiste al libero-arbitrio, rifiuta di lasciarsi dirigere dalla volontà del soggetto e si presenta per se stessa secondo forme proprie, che abitano la coscienza come un intruso che viene a turbare l’ordine di una casa dove non è stato invitato?

L’aspetto di indipendenza e di oggettività dell’immagine ha colpito gli Antichi: Omero, nel libro VI dell’Odissea, rappresenta il sogno che se ne sta al capezzale di Nausica, nel momento in cui Atena appare alla giovane principessa per indurla ad andare a lavare i vestiti alla riva dove Ulisse è giunto naufrago. Il sogno, con le figure oniriche che lo animano, non è solamente ciò che noi chiamiamo “un evento soggettivo”; manifesta un potere, un’intenzione, una realtà che non ha la sua fonte nel soggetto ma che, al contrario, giunge a lui e lo ricerca. L’immagine che invade il soggetto è un’apparizione, può essere più forte di lui e cambiarne il destino per mezzo di un avvertimento o di un’interdizione. Non appartiene più a un reale ordinario e quotidiano, ma possiede una carica di presagio. Rivela, manifesta, dichiara, al di sopra dell’ordine delle realtà quotidiane.

Appartiene al “numinoso”, a metà strada tra l’oggettivo e il soggettivo. La credenza nei fantasmi e negli spettri è probabilmente la vestigia degradata della relazione al “numinoso”, ma traduce bene e concretizza questo aspetto della relativa esteriorità dell’immagine. Ogni immagine forte è in qualche misura dotata di un potere fantomatico, dal momento che essa può imporsi al mondo della rappresentazione oggettiva e della situazione presente, così come si dice che il fantasma passi attraverso i muri. […]

In realtà le immagini non sono così limpide come i concetti e non obbediscono con altrettanta affabilità all’attività del pensiero. Le si può governare solo in maniera indiretta e conservano una certa opacità, come una popolazione straniera in seno a uno Stato ben organizzato. Contenendo in qualche misura volontà, appetito e movimento, appaiono quasi come organismi secondari all’interno dell’essere pensante: parassiti o adiuvanti, sono come monadi secondarie che abitano in certi momenti il soggetto e lo abbandonano in altri. Contro l’unità personale, possono essere un gene di sdoppiamento, ma possono anche apportare la riserva del loro potere e del loro sapere implicito nel momento in cui dei problemi devono essere risolti. Per mezzo delle immagini, la vita mentale contiene qualcosa di sociale, poiché esistono gruppi, stabili o in movimento, di immagini in divenire. Si potrebbe supporre che questo carattere al contempo oggettivo e soggettivo delle immagini traduca, infatti, lo statuto di quasi-organismo posseduto da esse, abitando il soggetto e sviluppandosi in lui con una relativa indipendenza rispetto all’attività unificata e cosciente.

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L’immagine non è una realtà senza forze, senza efficacia né conseguenze. Nella meditazione e nel raccoglimento, le immagini che la coscienza ammette possono non essere virulente e possedere solo un debole “potere ideomotorio”. Ma, nell’azione, nelle situazioni gravose, intense, piene di pericoli, di bisogni, di desideri o di paura, le immagini intervengono con forza. Montaigne e Pascal avevano notato quanto una pomposità grandiosa apporti prestigio a coloro che si circondano di gente d’armi e bellicose. L’intensità delle stimolazioni sensoriali e delle reazioni spontanee conferisce un potere mobilitante all’immagine della giustizia, dell’esercito, ecc., anche quando questi aspetti concreti sono solamente evocati e non percepiti. Malebranche diffidava del potere delle immaginazioni forti, poiché sapeva quanto l’immagine intervenga nella condotta della vita. Spinoza ha descritto la schiavitù umana e ha trovato nella conoscenza inadeguata data dalle immagini uno dei suoi principi (si veda l’analisi della gelosia, in particolare). Il percorso verso la libertà comincia con la conoscenza secondo l’ordine delle cause.

Nelle situazioni di urgenza e di inquietudine, o più generalmente di emozione, le immagini acquisiscono tutto il loro rilievo vitale e conducono alla decisione. Queste immagini non sono percezioni, non corrispondono al concreto puro, perché, per scegliere, bisogna essere a una certa distanza dal reale, non trovarsi già coinvolti. Il semi-concreto dell’immagine comporta degli aspetti di anticipazione (progetti, visione del futuro), dei contenuti cognitivi (rappresentazione del reale, di certi dettagli visti o sentiti), quindi dei contenuti affettivi ed emotivi. L’immagine è un campione di vita, ma resta parzialmente astratta a causa dell’aspetto lacunoso e parziale di questo campione. Nella scelta di una professione, il campione di vita che fornisce l’immagine di ciascuna professione presa in considerazione possiede degli elementi di anticipazione (propensione a viaggiare, ricerca del potere…) che sono dei detonatori di attività in sospensione, dei dati cognitivi (esempi di coloro che esercitano tale professione, modelli), quindi una risonanza affettiva (sensazione di sicurezza, di purezza). In tal senso, l’immagine, in quanto intermedia tra l’astratto e il concreto, sintetizza in alcuni tratti delle cariche motorie, cognitive, affettive e perciò essa permette la scelta, perché ciascuna immagine ha un peso, una certa forza, e perché si può pesare e comparare delle immagini, ma non dei concetti o delle percezioni. Grazie alla sintesi operata dalle immagini, i mezzi divengono omogenei ai fini, mentre il pensiero concettuale li separa. Si può scegliere un’attività pensando all’immagine del treno o di un autotreno che ci permetterà di andare nella città dove si deve esercitare tale attività.

Il pensiero astratto è soprattutto un freno, un mezzo di rifiuto. Calcola e mostra gli inconvenienti, le conseguenze lontane. Le percezioni ci fanno trascinare dalla situazione. Soltanto l’immagine è realmente regolatrice, poiché è abbastanza astratta per liberare il soggetto dalle situazioni pregnanti e abbastanza concreta per fornire un campione che ha possibilità di essere fedele. La migliore situazione per la scelta è quella che permette la formazione e l’uso di immagini realmente miste, egualmente astratte e concrete, ciò che implica, rispetto all’oggetto, una distanza media. Nel bambino si costituiscono tali rappresentazioni semi-concrete di persone che vivono a media distanza (gli educatori, i compagni), ed esse svolgono un ruolo determinante nell’organizzazione del comportamento, divenendo modelli. Le realtà troppo puramente quotidiane e concrete non possono divenire altrettanto fortemente normative: nessuno è profeta in patria.

Nei rapporti tra nazioni ed etnie intervengono i cliché, o immagini stereotipate chiamate in inglese “stereotypes” (si veda il rapporto dell’UNESCO). In tempi di pace, queste rappresentazioni semi-concrete esprimono in maniera statica delle parvenze percettive abbastanza caricaturali: il francese in Germania è un “Signore decorato che non conosce la geografia”[1]; l’inglese è per un francese un viaggiatore con abito a quadri e grandi denti; il francese, per l’inglese, è un mangia rane e lumache. In realtà tali immagini esprimono differenti gradi della distanza sociale. Il grado immaginario di sporcizia corrisponde alla distanza: i popoli vicini (ad esempio gli inglesi visti dagli americani) sono considerati come puliti. Esprimono anche degli atteggiamenti, delle paure: i francesi, in alcune regioni degli Stati Uniti, sono percepiti come dei dongiovanni. In caso di guerra o di conflitto, la carica affettivo-emotiva di queste immagini diviene preponderante: l’immagine del nemico si attacca a qualunque individuo il cui tratto fisionomico o dettaglio di abbigliamento attiri l’attenzione: è lo spione, l’agente segreto. Fauconnet, nella sua opera su La Responsabilité, ha mostrato come si effettui (soprattutto nelle società primitive) l’attribuzione della responsabilità. L’autore cita anche dei testi del Medio Evo che enunciano, come presupposti supplementari di colpevolezza, “il brutto aspetto” di un accusato, la sua aria taciturna, o “il nome volgare che porta”. In alcuni casi, si produce un fenomeno di causalità cumulativa che finisce per far esistere come attitudine reale, e stato sociale oggettivo, il contenuto di un’immagine stereotipata, puramente mentale e soggettiva all’origine: è quanto dimostra Gunnar Myrdal nell’importante ricerca sulla condizione dei neri negli Stati Uniti[2]. I pregiudizi che hanno i datori di lavoro o i padroni di casa bianchi sulle qualità e i difetti dei neri predeterminano la possibilità o l’impossibilità di queste o quelle condotte (ad esempio le professioni). A loro volta, e in questo caso in maniera oggettiva, le scelte professionali predeterminano un certo modo di educazione dei bambini, un certo livello di istruzione e degli ideali definiti. Al termine di alcuni cicli di scambi ricorrenti che vanno dall’immagine al reale e dal reale all’immagine attraverso la percezione, l’immagine primitiva si è realizzata e trova nella condizione sociale abbastanza giustificazioni per stabilizzarsi. Questo fenomeno di causalità cumulativa ha svolto un ruolo importante nel consolidamento degli stereotipi sulle diverse minoranze, come gli ebrei nei paesi cristiani d’Occidente, le donne nelle civiltà patriarcali, attualmente gli adolescenti nelle nostre società: la paura e l’astio degli adulti li immobilizza in un ruolo ristretto e materializza “l’immagine del giovane” che si fanno gli adulti. Sempre un fenomeno di causalità cumulativa ha stabilizzato nei secoli l’immagine dello schiavo antico, fino alla forte presa di coscienza di Seneca.

Se consideriamo come azione l’insieme degli scambi economici, il ruolo giocato dall’immagine nella decisione emerge facilmente: un prodotto o un oggetto sono completamente rivestiti di immagini (livello sociale, provenienza straniera) che si aggiungono ai loro caratteri specifici. Volontariamente, il commercio crea dei condizionamenti che forniscono un’esistenza immaginaria a dei prodotti che non recano in sé caratteri abbastanza netti per determinare la scelta. Quando il prodotto è venduto imballato, è l’imballaggio che è portatore di immagini (come nel caso dei detersivi in polvere). Se il prodotto è venduto nel distributore, come la benzina, è possibile colorarlo (Azur) o caricare di immagini il distributore stesso (la tigre Esso, con un nastro tigrato avvolto attorno alla pompa e delle code di tigre da attaccare alle vetture). Ciascuna di queste immagini si sviluppa in elementi motivanti e affettivi: l’azzurro è il colore del cielo, la tigre che si mette simbolicamente nel motore, per bonacciona e pacifica che sia, è capace di balzare, quando lo vuole.

Fenomeni collettivi quali la moda implicano l’esistenza del carattere semi-astratto dell’immagine. Adottando una moda definita, una persona sceglie un gruppo di atteggiamenti, di limiti, di possibilità, un certo stile di vita. Il look della moda femminile secondo Courrèges non implica gli stessi valori di quelli di Chanel. A seconda del taglio dei vestiti, l’individuo è percepito come moderno o tradizionale. Con i suoi tratti particolari, ciascuna persona fornisce i dati concreti che la rendono riconoscibile, ma con l’uso che fa della moda, in quanto fascio di atteggiamenti manifesti e resi percepibili, la stessa persona afferma la sua appartenenza a un gruppo e la sua adesione a un insieme di norme particolarmente concettualizzabili e astratte. L’abito interviene come selettore, perché adegua ad alcuni gesti, ne interdice altri, preserva dalla pioggia o dal freddo o, al contrario, rende vulnerabili. Questo ruolo protesico restringe il numero delle possibilità, ma sviluppa e amplifica le possibilità selezionate, come la maschera del teatro che immobilizza l’espressione della fisionomia, ma dà alla voce grande portata. L’abito, la maschera, il personaggio collocano l’organismo a media distanza dalle cose e stabilizzano il rapporto col mondo fisico e sociale mediatizzandolo.

In questo senso, tutto ciò che interviene come mediatore tra soggetto e oggetto può assumere il valore di immagine e giocare un ruolo di protesi sia adattiva sia restrittiva. Al giorno d’oggi, le particolarità del linguaggio, le “deformazioni professionali” attirano meno l’attenzione rispetto al XVII secolo (commedie di Molière); i costumi delle corporazioni di mestiere tendono anch’esse a scomparire. Ma il valore immaginale dell’intermediario tra soggetto e oggetto rimanda a indizi sul livello di vita, sull’automobile e su dettagli come il taglio di capelli. Infatti l’immagine, realtà intermediaria tra l’astratto e il concreto, tra l’io e il mondo, non è solamente mentale: si materializza, diviene istituzione, produce ricchezza, è diffusa tanto dalle reti commerciali quanto dai mass media che diffondono l’informazione. Il suo carattere di mediazione, fatto di coscienza ma anche oggetto, le dona un’intensa capacità di propagazione: le immagini impregnano le civiltà e le caricano della loro forza. In un certo senso, le immagini esprimono fatti sociali ed economici (ad esempio, l’impiego di materie plastiche nei vestiti), ma allorché sono materializzate e oggettivate, costituiscono anche una carica e introducono una tensione che determina parzialmente il divenire sociale. Per tale ragione, fenomeni quali l’evoluzione della moda non sono per nulla superficiali. Non possono essere trattati come una mera risultante, un’espressione, un epifenomeno, un aspetto transitorio di sovrastruttura: l’immagine è una risultante, ma è anche un germe, può generare concetti e dottrine. La causalità circolare, che dal mentale procede verso il reale oggettivo per mezzo dei processi sociali di causalità cumulativa, procede anche dal reale oggettivo al mentale. Ogni immagine è suscettibile di incorporarsi in un processo di ricorrenza materializzante o idealizzante: inserita nella moda, nell’arte, nei monumenti, negli oggetti tecnici, l’immagine diviene fonte di percezioni complesse che suscitano movimento, rappresentazione cognitiva, affezioni ed emozioni. Quasi tutti gli oggetti prodotti dall’uomo sono in qualche misura degli oggetti-immagini: sono portatori di significati latenti, non solo cognitivi, ma anche conativi e affettivo-emotivi. Gli oggetti-immagine sono quasi organismi, o quanto meno germi capaci di rivivere e di svilupparsi nel soggetto. Anche al di fuori del soggetto, attraverso gli scambi e l’attività dei gruppi, si moltiplicano, si propagano e si riproducono allo stato neotenico, finché trovano l’occasione di essere riassunti e dispiegati fino allo stadio immaginale, trovandosi reincorporati in una nuova invenzione.

Lo studio dell’immaginazione deve operare una ricerca di senso degli oggetti-immagine, poiché l’immaginazione non è solamente l’attività di produzione o di evocazione delle immagini, ma anche il modo di ricevere le immagini concretizzate in oggetti, la scoperta del loro significato, vale a dire della prospettiva per esse di una nuova esistenza. Gli oggetti-immagine – opere d’arte, vestiti, macchine – entrano in obsolescenza e divengono ricordi larvali, fantasmi del passato che si affievoliscono con le vestigia delle civiltà scomparse. L’analisi estetica e l’analisi tecnica procedono nel senso dell’invenzione, perché operano una riscoperta del senso di questi oggetti-immagine percependoli come organismi, suscitando nuovamente la loro pienezza immaginale di realtà inventata e prodotta. Ogni vera e completa scoperta di senso è al contempo reinstallazione e recupero, reincorporazione efficace nel mondo. La presa di coscienza non basta, dal momento che gli organismi non hanno solo una struttura conoscibile, essi tendono e si sviluppano. È un compito filosofico, psicologico, sociale, salvare i fenomeni reinstallandoli nel divenire, rimettendoli in invenzione, attraverso l’approfondimento dell’immagine che essi racchiudono.

Il concreto della realtà inventata non è, infatti, arbitrario e soggettivo come un movimento di fantasia individuale; tende verso l’universale perché è plurifunzionale. L’oggetto-immagine, estetico, protesico, o tecnico, è un nodo di attualità legato alla rete delle realtà contemporanee. Il meno stabile in apparenza, la moda dei vestiti, ad esempio, è invenzione reale nella misura in cui l’abito integra in unità disponibilità economiche e norme operative o percettive: gli stivali bianchi d’inverno e i cappotti impermeabili di uguale colore corrispondono alla disponibilità di materie plastiche sintetiche tinte in massa, ciò che assicura la stabilità cromatica, ma anche alla ricerca di un elevato grado di percettività in cattive condizioni di luminosità; esiste una parentela tra questi abiti e quelli degli operai che lavorano sulle strade, un’analogia tra i vestiti bordati di bianco e le segnaletiche, o indicazioni, che sono impiegate in aviazione, in astronautica. Gli abiti sono “opticalizzati” più o meno timidamente, ossia si professano oggetti protesici per l’esterno, per tutti i terreni e tutti i cieli, non come abiti di città o da interni.

Una tale carica di invenzione può rivivere quando l’oggetto-immagine è riscoperto e analizzato, eventualmente mediante una trasposizione: ciò che nell’ornamento, o nel vestito, è servito alla percezione dei ranghi sociali e dei gradi, per l’abito di città e d’interno, potrebbe essere ripensato secondo norme di percettività che hanno un senso funzionale per la circolazione sulle strade, il lavoro in fabbrica o nei cantieri. L’oggetto-immagine è un vero intermediario tra concreto e astratto quando condensa più funzioni in unità (se corrisponde a una sola funzione, resta astratto) e impiega soluzioni che lo collegano alla rete di realtà contemporanee. La sua realtà di immagine è allora paradigmatica: permette di comprendere altre realtà connesse, con le quali si articola ed è solidale.

L’esistenza delle differenti categorie di oggetti-immagine, terza realtà tra l’oggettivo e il soggettivo, richiama un modo particolare di analisi che si potrebbe definire, nel senso proprio del termine, fenomenologico, dal momento che questo genere di realtà ha per senso il manifestarsi e l’imporre la sua natura di immagine.

 

 

1. Definizione attribuita a Bismarck [N.d.C.].

2. G. Myrdal, An American Dilemma The Negro Problem and Modern Democracy, 2 vv., Harper, New York 1944 [N.d.C.].