Relazioni ambientali come relazioni culturali – Mauro Van Aken

La nozione di natura è profondamente in crisi proprio perché essa stessa ci disorienta, in quanto non ci permette di capire le dinamiche e le relazioni in cui siamo immersi con così numerosi attori ambientali

di: Mauro Van Aken

Pubblichiamo un estratto dal libro Campati per aria, di Mauro Van Aken, edito dalla casa editrice Eleuthera che ringraziamo per la possibilità concessa.

 

Conoscere l’umano non significa separarlo dall’universo, ma situarvelo.
Edgar Morin, La testa ben fatta (Cortina, 2018)

 

 

 

Cerchiamo cibo sempre più «naturale», ma non sappiamo più che processi culturali e ambientali sono nascosti nella produzione dell’agro-business globale, e tanto meno conosciamo l’impronta idrica o l’impronta del carbonio che quelle merci nascondono. E ciò vale per qualsiasi risorsa con la quale siamo interdipendenti: tutte le nostre protesi multimediali si basano su oggetti molto materici e ambientali, come i minerali rari, di cui non conosciamo le filiere, che però stravolgono numerosi contesti del sud del mondo e della Cina (maggior possessore al mondo). Anche qui c’è una natura nascosta nella merce i cui impatti ambientali si rivelano come una «naturaccia», una natura cattiva segnata da contaminazioni, inquinamento, scarsità e competizione. E ciò vale per qualsiasi risorsa cataloghiamo come natura: aria, energia, animali, insetti, bosco, ghiacciaio, montagna, savana, terremoto, rifiuti o virus. Ma proprio perché «esterna», abbiamo difficoltà a pensarla in relazione a noi, al campo della società e della politica, se non quando si fa emergenza, nel suo doppio significato: come allarme politico (la mancanza di acqua o gli allagamenti), ma anche come «emergere» e rivelare almeno alla vista l’interdipendenza che ci lega nelle nostre dimensioni locali. Di riflesso, prendendo un qualsiasi evento di cronaca del quotidiano, tutto ciò che rivolgiamo come questione di società e di politica è sempre, al contempo, una dinamica ambientale: dal cibo, ai dibattiti su una grande opera, alla ricostruzione post-terremoto, alle specie invasive del Po, ai rifiuti per strada, al clima che cambia, tutti raccontano quanto il dibattito politico sia sempre ambientale e quanto l’ambiente sia la dimensione onnipresente, ma allo stesso tempo rimossa.

La nozione di natura al centro della costruzione dell’umano nella storia occidentale è profondamente in crisi proprio perché essa stessa ci disorienta, in quanto non ci permette di capire le dinamiche e le relazioni in cui siamo immersi con tanti attori ambientali. Sono in crisi proprio le nostre relazioni con e nell’ambiente, soprattutto perché è «morta la natura», di cui sembra collassata l’idea edenica e pura. In realtà non è mai esistita, se non nella costruzione di immaginario della modernità: una natura pensata come un opposto, un grande Altro – magazzino, discarica, o sublime immutato. È morta la natura non perché è scomparsa la complessità delle forme di vita su questo pianeta, ma perché non è mai esistita quella «roba» distante ed esterna come natura. La nozione di natura è perciò parte della rimozione culturale delle relazioni ambientali, su cui insistiamo faticosamente e disorientati, dove tanti soggetti fuori controllo sembrano caderci «sulla testa», rendendoci irriconoscibile o minaccioso il tempo che viviamo.

Questa decostruzione però non basta, come anni di didattica su ambiente e culture mi hanno insegnato: è talmente alla base tanto della nostra ontologia naturalistica (Descola, 2013), quanto del nostro assetto epistemologico (i saperi dell’uomo, i saperi della natura) e del nostro senso comune, che ci mancano le parole e metafore del mondo per comprendere le relazioni ambientali con cui siamo sempre più interdipendenti, come tutte le culture hanno fatto nei modi più creativi. I cc esaltano proprio questa dissonanza e incapacità di comprensione sociale di ciò che accade alla natura quando si ripresenta come molteplicità di soggetti: qualcosa di familiare e prossimo, reso però muto, passivo e a disposizione, diventa un perturbante perenne, minaccioso e straniero. E questo proprio perché la natura è divenuta il centro roccioso del nostro ordinamento sociale e simbolico, «fossilizzata» con l’economia del carbonio, e di conseguenza abbiamo rimosso altre metafore per capire limiti e interdipendenze con altre forme di vita. Inoltre, il dispositivo di natura è soprattutto un lavoro faticoso e continuo di «purificazione» (Latour, 1986), di classificazione dicotomica, di oggettivazione che rimuove, tanto da rendere invisibili le intuitive e attive relazioni con altri soggetti, tra cui oggi i cambiamenti atmosferici e le nostre emissioni quotidiane di co2.

La natura è un elemento così fondante della nostra modernità, del nostro immaginario, delle stesse scienze umane e del senso che diamo alle cose, è una nozione così naturalizzata e ontologicamente fondativa, che non può essere semplicemente smontata e decostruita, perché lascia un vuoto vertiginoso, toglie quella stabilità delle divisioni categoriali con cui orientiamo le nostre pratiche sociali basate sull’ideale di padronanza della natura e di illimitatezza dell’uomo. Sono proprio le dimensioni di soggettività dei contesti ambientali, le dimensioni relazionali del nostro abitare assieme ad altre forme viventi, a tornare al centro nella crisi climatica, a ridare senso al nostro coinvolgimento ambientale, come mostra bene la stessa etimologia inglese environment: ciò che ci circonda, dove environing è appunto attorniare, circondare, essere avvolti da altri agenti e flussi.

Grazie ai fossili, abbiamo costruito un’idea di umano come se fosse fuori, distante dall’ambiente, e oggi ci risvegliamo da questo sogno che si è tramutato in incubo; come se fossimo in un «dentro» separato, ben confinato, climatizzato, indoor, rispetto a un «fuori» senza relazioni se non gestite e padroneggiate. La nostra storia culturale ha alterizzato, espulso, le relazioni ambientali dalle proprie relazioni sociali, in una prossimità indifferente nel produrre cibo, nell’abitare, nel costruire, nel cooperare e nel prendersi cura, proprio attraverso il naturalismo, la nostra cosmologia poco raccontata ma molto culturale.

 

Ecologie culturali

Ingold definisce le molteplici costruzioni culturali nei processi ambientali come ecologie culturali (2000): gli uomini e le loro culture sono sempre imbricati in ambienti complessi e interattivi, la cultura stessa è frutto di questa interazione complessa dentro, e non, fuori a un ambiente. La stessa nozione di natura, così monolitica e contraddittoria, è segno del «fallimento delle relazioni tra noi e l’ambiente che è tipico della moderna condizione di alienazione» (2000, p. 161). Nella crisi climatica la natura, che sembrava finalmente resa oggetto a disposizione, «ci cade sulla testa» (Serres, 2010): nei termini di dinamiche atmosferiche e di surriscaldamento globale, ma anche nei termini di soggettività che riemerge, che mette sotto scacco tanto l’antropocentrismo quanto la solitudine dell’uomo nell’economia del carbonio. Un uomo che ha finito per vedere se stesso come unico, solitario, soggetto e negare quindi le proprie relazioni con il groviglio di soggetti non-umani.

Viveiros de Castro (1996) ha mostrato come in Amazzonia varie forme di produzione e socializzazione dell’ambiente espresse dalle diverse culture degli indios, caratterizzati da religioni animiste, si possano sintetizzare come «prospettivismo». Nelle molteplici cosmologie locali, tutti gli esseri viventi, compreso l’uomo, sono pensati come umani che, formandosi, si costruiscono e diventano animali, un processo inverso alla nostra cosmologia. Questo perché a ogni soggetto vivente viene non solo attribuita ma richiesta la soggettività, la sua «prospettiva» sul mondo e sulle relazioni con gli umani, con quei caratteri con cui noi delineiamo l’idea di soggetto unicamente umano: intenzionalità conscia, agentività o azione sociale, punti di vista che esprimono una volontà nella relazione (di caccia, di venerazione, di predazione o di addomesticamento). Conoscere il mondo è perciò soggettivarlo il più possibile, scoprirne le intenzionalità e i punti di vista, anche morali, degli esseri umani e non-umani. Mentre per noi la natura è un campo distinto e oggettivo, qui la natura è di partenza un «campo intersoggettivo»; mentre per noi la conoscenza della natura porta a liberarsi dai limiti soggettivi, qui conoscere è personificare, entrare il più possibile in relazione soggettiva, con risorse e limiti di questa relazione. Più che un rapporto di produzione tipico del naturalismo, che rende indifferenti altri attori, essi esprimono e celebrano le relazioni ambientali come rapporti di scambio morale, rapporti di differenza e somiglianza.

La natura, tanto più nell’intensificarsi dei cambiamenti, è diventata un ospite inquieto proprio nel processo sociale di «liberazione» dai suoi vincoli attraverso la scienza e la tecnica. Le idee di umano si sono sempre costruite in tutte le culture in stretta correlazione e interdipendenza con la costruzione dei significati di soggetti non-umani. Anzi, ogni cultura pensa sé stessa nei propri riferimenti simbolici proprio «acchiappando» metafore e significati dagli agenti non-umani con cui entra in relazione, che sono da sempre «buoni da pensare» in molteplici forme. Ridefinendo i significati degli attori ambientali si ridefinisce sempre il significato dell’umano. Il nostro naturalismo, come cosmologia fondata sull’idea di natura, ha buttato fuori dalla famiglia e dalle relazioni, ha estraniato, demarcando in modo dicotomico ciò che ci rimane più intimo e familiare, la nostra interdipendenza multisensoriale con gli organismi e le reti di vita con cui interagiamo, e questo soprattutto nelle dimensioni metropolitane, dove in realtà siamo ancor più interdipendenti con l’ambiente.

Nonostante le crisi ambientali siano all’ordine del giorno, con difficoltà si riesce a pensare e progettare pubblicamente fuori dall’economia lineare, basata su metafore di una natura staccata da noi. Ma la natura, dissociata dalla vita sociale, emerge continuamente come questione politica, di ineguaglianza, di privilegio e di vivibilità.

L’antropologia culturale, dai suoi albori, ha messo al centro lo studio delle relazioni espresse dalle diverse interpretazioni dell’ambiente nelle diverse culture: come altre scienze umane e sociali, ha avuto difficoltà a uscire da prospettive deterministiche («l’ambiente determina la cultura» o, negli ultimi decenni, «la cultura determina, scrive, l’ambiente»), ma ha tuttavia offerto un vocabolario, proprio grazie all’incontro con altre prospettive dell’abitare molteplici ambienti, oggi centrali, per leggere le dinamiche di co-produzione ambiente/uomo. E questo a partire dalla metodologia etnografica, di «immersione» all’interno di un sistema culturale e ambientale di lunga durata, che è sempre anche un’immersione multisensoriale in nuovi ambienti ecologici e climatici.

Lo studio delle culture non-occidentali ha portato spesso gli studi antropologici a mettere in risalto le urgenze, a fronte dell’incorporazione capitalistica, dell’economia del petrolio, dell’immaginario occidentale dello sviluppo e delle forme di consumo, connesse al rischio di scomparsa delle popolazioni indigene, della loro deculturazione, inclusa la perdita delle dimensioni simboliche connesse ai conflitti e alle crisi ambientali. Accanto allo studio delle popolazioni native, lo studio del cambiamento dei sistemi rurali a fronte dei processi di modernizzazione ha mostrato come altre modalità di produzione del cibo, di utilizzo dell’acqua e di relazione con l’ambiente rappresentassero importanti risorse simboliche per le forme di gestione comune e per le relazioni di interdipendenza: idee altre di ambiente, di limite dell’azione umana (del sacro, del sensato, del buono o del bello, della produttività), idee altre di «sostenibilità», linguaggi altri per esprimere la relazionalità uomo/ambiente, idee culturali altre sulla tecnologia nella relazione ambientale. Come scrive Peterson:

Le culture costruiscono modelli (frames) con cui la gente percepisce, comprende, capisce, fa esperienza e risponde agli elementi cardine del mondo in cui vive. Queste cornici sono fondate su sistemi di significato e di relazioni che mediano il coinvolgimento umano con i fenomeni e i processi naturali. Queste cornici sono particolarmente rilevanti nello studio dei cambiamenti climatici, che comportano una disgiunzione da un passato conosciuto, attraverso un presente alterato e verso un futuro incerto, dal momento che ciò che è ricordato, riconosciuto e reso visibile si basa su modelli e valori culturali (Peterson, 2009, p. 87, mia trad.).

L’antropologia ha mostrato come le culture siano caratterizzate da diversi modelli di ambiente intimamente connessi all’appartenenza culturale e all’idea di società. Ciò che noi distanziamo come natura è denominato altrove attraverso termini parentali, politici o religiosi, dove si soggettivano, anche in modo selettivo e contestuale, gli elementi della nostra natura. E questo non solo nelle cosmologie o nei costrutti simbolici, ma ancor più nei sistemi di gestione delle risorse, nelle relazioni e pratiche irrigue e nelle costruzioni del paesaggio, quindi nelle pratiche quotidiane del fare cibo o riprodurre comunità (Van Aken, 2012). Questa comparazione di modelli ha permesso, in quel «viaggio più lungo» dell’antropologia, di riscoprire con nuovo sguardo ciò che c’è vicino, di mostrare quanto la nostra idea di natura fosse particolare, storica, quindi culturale e ben poco naturale. La nostra idea di natura, che oggi così tanto stride con la realtà che viviamo, si è ridotta a un mononaturalismo, un pensiero piuttosto unico, una dicotomia netta – che non è diversità – tra cultura/natura, un’idea per cui la diversità sta tra le culture – il multiculturalismo – sulla base fondante di una sola natura. Il naturalismo è quindi una nostra cosmologia poco raccontata, se non mito implicito. In questo nostro modello, la cultura non è pensata in un ambiente ma se ne libera, in una connotazione anche morale di autoidentificazione fondante:

[il naturalismo è] la credenza che la natura esista, o detto in altri termini, che certe entità devono la loro esistenza e il loro sviluppo a un principio esterno al caso come agli effetti di una volontà umana. Il naturalismo produce un campo ontologico specifico, un luogo d’ordine e di necessità dove niente avviene casualmente (Descola, 2013, pp. 69-70).

La natura, posta come Alterità nei nostri sistemi produttivi o di pensiero, si caratterizza quindi come un oggetto in gran parte passivo all’azione umana, e non come un soggetto di relazione o di azione e retro-azione. Inoltre, la natura è pensata come «a disposizione dell’uomo» per l’esplorazione scientifica, per lo sfruttamento intensivo o per la conservazione ambientale in recinti verdi ben delimitati (il confine della natura ecologica o del verde pubblico, ad esempio), dove alla base vige un’idea di padronanza tecnologica su ciò che non è umano: una nozione prometeica dell’uomo come creatore, che fa dell’elusione dei limiti, perché unico soggetto tra tanti oggetti del mondo, un valore identificante, legittimo e messianico allo stesso tempo. Ciò porta però a rimuovere la finitezza e i limiti dell’ambiente, elemento cruciale in molti saperi locali ed economici, senza che questi siano connessi a idee di armonia o «fusione con la natura», concetti invece connessi proprio al nostro naturalismo.

A sua volta, la natura è pensata come un sistema coincidente con la sua fissità, equilibrio, coerenza, continuità, aspetti più credenziali che poco coincidono sia con tanti saperi ambientali che le culture hanno sviluppato, sia con i nostri stessi saperi scientifici che ben hanno mostrato la dinamicità, eterogeneità e agentività dell’ambiente. Lo stesso Descola ha fatto notare come «il modo in cui l’Occidente moderno rappresenta la natura è la cosa meno condivisa al mondo. In molte regioni del pianeta, gli umani e i non umani non si sviluppano in mondi incommensurabili secondo principi distinti» (in Sahlins, 2010, p. 103). L’idea stessa di natura riflette perciò i valori dominanti della nostra società, e da qui discende la difficoltà che abbiamo di fronte a un ambiente che non riconosciamo più, che si presenta come minaccia, come potenza o come cambiamento della stessa atmosfera che davamo per scontata, come le stagioni e le forme cicliche con cui abbiamo appreso i ritmi della «natura» a scuola. Proprio il suo aspetto dominante racconta anche come non sia l’unico modello con cui significhiamo le nostre relazioni ambientali, ma come sia diventato un modello egemonico che convive con altri saperi marginalizzati.

La natura come nozione storica si sviluppa proprio all’interno della storia del capitalismo, come economia del carbonio che scopre una natura ed energia a basso costo, la possibilità di immaginare il mondo attraverso questo dualismo molto recente e il potere liberatorio ed emancipatorio della tecnica e dei combustibili fossili. Come ben sintetizza Byung-Chul, «il mondo è diventato un grande magazzino, provvisto di cose che vengono consumate rapidamente – cose che riempiono tanto il cielo quanto la terra» (2016, p. 43): e la co2 è proprio questo accumulo volatile, l’altra faccia della materialità consumata. La nozione di derivazione illuministica di natura porta con sé altri impliciti culturali: è distante, «fuori» – perché facciamo finta di averne preso distanza – e quindi non ci pensiamo interdipendenti o coinvolti seppur ci siamo immersi. Inoltre, dove è sempre stato necessario pensare a relazioni di reciprocità, progettiamo disconnessioni di relazioni, non avendo più un alfabeto per leggere interconnessioni tra molteplici soggetti anche non-umani; è un oggetto, e non siamo più capaci di leggere gli attori con cui interagiamo.

Descola (2013) individua in categorie molto schematiche altre tre forme principali di socializzazione dell’ambiente tra le culture presenti nell’archivio etnografico, accanto al nostro naturalismo: il totemismo, l’animismo, l’analogismo. Ciò che è rilevante è come ognuna di queste grandi famiglie, che contengono culture anche molto diverse, sia sempre un modello di definizione dell’umano e delle sue relazioni in connessione ad altre presenze ecologiche, quindi sono forme di «identificazione», di appartenenza culturale, di un «noi» tutto sociale fatto di differenze e somiglianze in relazione ad «altri». E quindi anche noi naturalisti ci identifichiamo proprio perché immaginiamo un campo opposto di natura, ma perdendo la cura e i saperi delle relazioni. Inoltre, esse esprimono, anche all’interno del medesimo modello, diverse modalità di relazione ambientale, come la predazione che rifiuta uno scambio con i soggetti della natura (ad esempio nella caccia o nella raccolta), o come la reciprocità, che invece impone un obbligo morale di ricompensa, di scambio e di dipendenza con l’ambiente (ad esempio nella caccia). Queste costruzioni culturali sono anche forme di ethos, cioè sistemi morali, valoriali, giuridici dell’uomo, in relazione sempre ad altri esseri viventi, anche quando, come nel caso del naturalismo, rimuoviamo la agency di altri attori ambientali. Ci definiamo umani proprio perché non «naturali», in contrapposizione ad esempio ai più vicini «animali» non-umani, negli elementi costitutivi della nostra appartenenza e significazione del mondo. Un modello di natura come quello animista può contenere idee e pratiche tanto predatorie quanto di reciprocità e protezione. Allo stesso modo, nel naturalismo idee di «consumo» dell’ambiente come oggetto a disposizione dell’uomo nel capitalismo predatorio convivono con idee di protezione o con la compresenza in famiglia di 60 milioni di animali domestici in Italia, che rivelerebbero nelle nostre pratiche quotidiane un’attitudine animista, seppur molto selettiva. Ma la prevalenza del paradigma di natura oppositiva e a-relazionale comporta che tra umani e non-umani siano negati l’interfaccia, l’intreccio comune, la relazionalità: da qui lo spaventarci o il difenderci quando riscopriamo che ciò che abbiamo immaginato come oggetto a disposizione nelle più svariate forme si ripresenta come un gran pullulare di soggetti emergenti.

Se l’ambiente è da sempre mutamento, le forme di cambiamento ambientale intensivo degli ultimi decenni e i conflitti attorno alle risorse, in primis l’acqua, hanno accentuato le dinamiche di crisi che sono intimamente connesse alla storica presa di distanza o alla desocializzazione dagli attori ambientali nella nostra cultura. Nella storia della modernità, la natura è stata tradotta in un giardino altro rispetto al campo della cultura. La dicotomia tra natura e cultura è stata un progressivo diniego – faticoso perché lavoro di classificazione continuo – della soggettività degli attori dell’ambiente, tradotta in roba o relazioni tra cose, neutralizzando quindi la dimensione di responsabilità e di moralità, in sintesi di relazionalità: un processo di alterizzazione dei rapporti e significati sociali che le culture hanno sempre attribuito, in diverse modalità, ai soggetti non-umani. Abbiamo sottratto relazioni sociali dalla natura, sottoposta a un’idea di dominio onnipotente che ci spaventa però nel momento in cui ci accorgiamo di esserne intimamente interdipendenti. Naturalizzare è l’atto di rendere straniero ciò che è familiare e costitutivo delle nostre relazioni nel mondo, è tradurre molteplici forme di vita in oggetti muti e silenti quali non sono: anzi, si ripresentano oggi come agenti – i lupi, gli insetti, l’aria e l’acqua impura o il cambiamento atmosferico – minacciosi proprio perché interagiscono, e ci ritroviamo socialmente analfabeti rispetto a questi intrecci e legami. Questa particolare, e poco universale, dicotomia ha posto l’ambiente, sia nel senso comune quanto nelle pratiche economiche, «al bando» dalle relazioni sociali e culturali. Un aspetto della nostra modernità che si differenzia dalla necessità, in tanti sistemi agricoli o sistemi locali d’acqua, di socializzare, di sacralizzazione, di definire consapevolmente e creativamente l’umano in relazione esplicita– sociale, culturale, religiosa, economica, mondana – con agenti non-umani.