La miseria del simbolico tra arte, estetica, politica e consumo – Bernard Stiegler

Il lavoro artistico è originariamente impegnato nella questione della sensibilità dell’altro e la questione politica è essenzialmente la questione della relazione all’altro in vista di un sentire insieme

di: Bernard Stiegler

Pubblichiamo un estratto dal libro La miseria simbolica 1. L’epoca iperindustriale, di Bernard Stiegler, edito nella collana Culture radicali di Meltemi. Ringraziamo l’editore per la possibilità concessa.

 

 

La questione politica è una questione estetica, così come, inversamente, la questione estetica è una questione politica.
Uso qui il termine estetica nel suo significato più vasto, per cui l’aisthésis è la sensazione, e la questione estetica è quindi quella del sentire e della sensibilità in generale.
Sostengo che la questione estetica vada posta nuovamente e in rapporto alla questione politica, per invitare il mondo dell’arte a riprendere una comprensione politica del proprio ruolo. L’abbandono del pensiero politico, da parte del mondo dell’arte, è una catastrofe.
Così come, l’abbandono della questione estetica, da parte della sfera politica, alle industrie culturali e alla sfera del mercato in generale, è anch’esso catastrofico.
Con questo non voglio dire che gli artisti debbano “impegnarsi”. Voglio dire piuttosto che il loro lavoro è originariamente impegnato nella questione della sensibilità dell’altro. Ora, la questione politica è essenzialmente la questione della relazione all’altro in vista di un sentire insieme, una sim-patia in questo senso. Il problema del politico è di sapere come stare insieme, vivere insieme, accettarsi come un insieme attraverso e a partire dalle nostre singolarità (ben più profondamente ancora che a partire dalle nostre differenze) e oltre i nostri conflitti d’interesse. La politica è l’arte di garantire una unità della città nel suo desiderio di avvenire comune, la sua in-dividuazione, la sua singolarità come divenire-uno. Ora, un tale desiderio presuppone un fondo estetico comune. L’essere insieme è quello di un insieme sensibile. Una comunità politica è dunque la comunità di un sentire. Se non si è capaci di amare insieme le cose (paesaggi, città, oggetti, opere, lingue, ecc.), non ci si può amare. Questo è il senso della philia in Aristotele. Amarsi è amare insieme cose diverse da sé.

La questione “culturale”, per come è posta in modo essenziale dall’arte, è più che mai al cuore tanto dell’economia e dell’industria quanto della politica: la comunità sensibile è oggi interamente attraversata dalle tecnologie di ciò che Deleuze chiamava le “società di controllo”. E l’essenziale della lotta economica internazionale si combatte su questo fronte.
Jaques Rancière ha giustamente ricordato che la “politicità” è sensibile, vale a dire che la questione politica è immediatamente estetica. Ma egli ha stranamente ignorato che, nell’epoca iperindustriale, la sensibilità martellata dal marketing è diventata la posta in gioco di una vera guerra, le cui armi sono le tecnologie e le cui vittime sono le singolarità, individuali o collettive (“culturali”), al punto che si produce una immensa miseria del simbolico.

Oggi, nelle società di modulazione che sono le società di controllo, le armi estetiche sono divenute essenziali (ciò che Jeremy Rifkin chiama “capitalismo culturale”): si tratta di controllare queste tecnologie dell’aisthésis che sono per esempio l’audiovisivo o il digitale, e, attraverso questo controllo delle tecnologie, controllare i tempi di coscienza e di inconscio dei corpi e delle anime che li abitano, modulando, con il controllo dei flussi, questi tempi di vita. È anche così che si sviluppa il concetto di life time value (come valore economicamente calcolabile del tempo di vita di un individuo, ossia come de-singolarizzazione e de-individualizzazione del suo valore intrinseco) recentemente introdotto dal marketing.

Manet, che rompe con la tradizione, è l’avanguardia di un sentire che non è condiviso da tutti – da cui i conflitti estetici che si moltiplicano a partire dal XIX secolo. Ma questi conflitti, che si producono sul fondo di una colossale trasformazione industriale della società, intessono un processo di costruzione della simpatia che caratterizza l’estetica umana, una creatività che trasforma il mondo per realizzare una nuova sensibilità comune, formando il noi interrogativo di una comunità estetica a venire.
Ed è quanto possiamo chiamare esperienza estetica per come l’arte la produce, così come si parla di esperienza scientifica: per scoprire l’alterità del sentire, il suo divenire portatore di avvenire.
Ora, io credo che, attualmente, l’ambizione estetica sia da questo punto di vista ampiamente crollata. Perché una immensa parte della popolazione è oggi priva di ogni esperienza estetica, interamente sottomessa, com’è, al condizionamento estetico in cui consiste il marketing, che è diventato egemonico per l’immensa maggioranza della popolazione mondiale; mentre gli altri, quelli che ancora sperimentano, hanno elaborato il lutto della perdita di coloro che si sono persi in questo condizionamento.

La questione mi è balzata agli occhi all’indomani del 21 aprile 2002. Quel giorno mi è stato evidente, in una paurosa chiarezza, come le persone che allora avevano votato per Jean-Marie Le Pen siano persone con cui io non senta affatto, come se noi non condividessimo alcuna esperienza estetica comune. Mi è stato evidente come questi uomini, queste donne, questi giovani non sentano ciò che accade, e in questo non si sentano più appartenere alla società; come siano rinchiusi in zone (commerciali, industriali, “sistemative” o rurali, ecc.) che non sono più un mondo, essendosi dis-tratte esteticamente. Il 21 aprile è stato una catastrofe politico-estetica. Queste persone, che sono in una situazione di grande miseria del simbolico, detestano il divenire della società moderna e prima di tutto la sua estetica, quando essa non è industriale. Poiché il condizionamento estetico, che costituisce l’essenziale della chiusura in queste zone, viene a sostituirsi all’esperienza estetica per renderla impossibile.

Occorre dire che l’arte contemporanea, la musica contemporanea, lo spettacolo e le “intermittenti” dello spettacolo contemporaneo, la letteratura contemporanea, la filosofia contemporanea e la scienza contemporanea provocano sofferenza al ghetto costituito da queste zone.
Questa miseria non colpisce semplicemente le classi sociali povere: la rete televisiva, in particolare, infesta dappertutto come una lebbra, concretizzando il motto di Nietzsche: “Il deserto cresce”. Eppure non sono tutti esposti ugualmente a questa malattia: immensi lembi della popolazione vivono in spazi urbani privi di ogni urbanizzazione, tanto che solo una minuscola parte può godere di un ambiente di vita degno di questo nome.
Non bisogna pensare che i nuovi miserabili siano barbari abominevoli. Essi sono il cuore stesso della società dei consumatori. Essi sono la “civiltà”. Ma in modo che, paradossalmente, il suo cuore è divenuto un ghetto. Ora, questo ghetto è umiliato, offeso da questo divenire. E noi, reputati colti, sapienti, artisti, filosofi, lucidi e informati, dovremmo renderci conto che la maggior parte della società vive in questa miseria del simbolico fatta di umiliazione e di offesa. Tali sono le devastazioni prodotte dalla guerra estetica, divenuta il regno egemonico del mercato. L’immensa maggioranza della società vive in zone esteticamente disastrate, dove non è possibile vivere e amarsi perché vi si è esteticamente alienati.

Io conosco bene questo mondo: ne provengo. E so che è portatore di insospettabili energie. Ma se esse sono lasciate all’abbandono, diventeranno essenzialmente distruttive.

Nel XX secolo, si è fatta largo un’estetica nuova, capace di funzionalizzare la dimensione affettiva ed estetica dell’individuo trasformandolo in un consumatore. Ci furono altre funzionalizzazioni: certe ebbero come scopo quello di fare dell’individuo un credente; altre un ammiratore del potere; altre ancora un libero-pensatore, che esplora l’illimitato risuonante nel proprio corpo all’incontro sensibile del mondo e del divenire.

Non si tratta, però, di condannare il destino industriale e tecnologico dell’umanità. Si tratta, piuttosto, di reinventare questo destino e, perciò, di comprendere come si sia arrivati a tale condizionamento estetico, sapendo che, se questo non sarà superato, condurrà alla rovina della stessa società del consumo e a un disgusto generalizzato.

Si possono distinguere almeno due tipi di estetica, quella degli psico-fisiologi, che studiano gli organi di senso, e quella della storia dell’arte, degli artefatti, dei simboli e delle opere. Mentre l’estetica psico-fisiologica sembra stabile, l’estetica degli artefatti non smette di cambiare nel tempo. Ora, la stabilità degli organi di senso è una illusione per il fatto che essi sono sottomessi a un processo incessante di defunzionalizzazioni e rifunzionalizzazioni, precisamente legato all’evoluzione degli artefatti.

La storia estetica dell’umanità consiste in una serie di disallineamenti successivi entro tre grandi organizzazioni che formano la potenza estetica dell’uomo: il suo corpo con la sua organizzazione fisiologica, i suoi organi artificiali (tecniche, oggetti, utensili, strumenti, opere d’arte) e le sue organizzazioni sociali che risultano dalla articolazione degli artefatti e dei corpi.
Bisogna immaginare una organologia generale che studi la storia congiunta di queste tre dimensioni dell’estetica umana e delle tensioni, invenzioni e potenziali che ne risultano. E sono proprio le considerazioni preliminari di un tale progetto, quelle che io tento di abbozzare qui.
Solo un tale approccio genealogico permette di comprendere l’evoluzione estetica che conduce alla contemporanea miseria del simbolico, dove, è da sperare e affermare, una forza nuova deve nascondersi: nell’immensa apertura di possibili, dischiusi dalla scienza e dalla tecnologia, e nell’affetto della sofferenza stessa.

Cosa è successo nel XX secolo all’affettività? Negli anni ’40, per assorbire una superproduzione di beni di cui nessuno aveva bisogno, l’industria americana mette in opera delle tecniche di marketing (immaginate già dagli anni ’30 da Edward Barnay, un allievo di Freud) che non cesseranno di intensificarsi durante tutto il secolo, mentre il plusvalore dell’investimento si produce sulle economie di scala che necessitano di mercati di massa sempre più vasti. Per guadagnare questi mercati di massa, l’industria sviluppa una estetica che fa appello in particolare ai media audiovisivi, i quali, rifunzionalizzando la dimensione estetica dell’individuo secondo gli interessi dello sviluppo industriale, fanno sì che egli adotti dei comportamenti di consumo.

Ne consegue una miseria del simbolico che è anche una miseria libidinale e affettiva, e che conduce alla perdita di ciò che io chiamo il narcisismo primario: gli individui sono privati della loro capacità di attaccamento estetico a delle singolarità, a degli oggetti singolari.
Locke intuì, nel XVII secolo, che si è singolari attraverso la singolarità degli oggetti con cui si è in relazione. Io sono il rapporto ai miei oggetti in quanto esso è singolare. Ora, il rapporto agli oggetti industriali, che peraltro si standardizzano, è ormai “profilato” e categorizzato in particolarismi che costituiscono per il marketing dei segmenti di mercato, trasformando il singolare in particolare, generando l’alveo di comunitarismi di ogni genere. Poiché la particolarizzazione del singolare è il suo annullamento: la sua liquidazione, propriamente parlando, nel flusso delle merci-feticcio.

Le tecniche audiovisive del marketing conducono d’altra parte al fatto che, progressivamente, il mio passato vissuto, attraverso tutte queste immagini e questi suoni, che io vedo e sento, tende a divenire uguale a quello dei miei vicini. E la diversificazione dei canali è anch’essa una particolarizzazione dei target, ragione per cui essi tendono tutti a proporre la stessa cosa. Essendo il mio passato sempre meno diverso da quello degli altri, perché il mio passato si costituisce sempre più nelle immagini e nei suoni che i media riversano nella mia coscienza, ma anche negli oggetti e nei rapporti agli oggetti che queste immagini mi conducono a consumare, esso perde la sua singolarità, vale a dire che io mi perdo come singolarità.
Dal momento in cui io non ho più singolarità, io non posso più amarmi: non ci si può amare che a partire dalla consapevolezza intima di avere la propria singolarità, ed è per questo che “la comunità consiste originariamente nell’intimità del legame di sé a sé”. Quanto all’arte, essa è l’esperienza e il sostegno di questa singolarità sensibile come invito all’attività simbolica, alla produzione e all’incontro di tracce nel tempo collettivo.
Ecco perché la questione estetica, la questione politica e la questione industriale non sono che la stessa questione.

L’ominazione, come prosecuzione della vita con altri mezzi che la vita stessa, è l’apparizione di una forma di vita in comune dove la distribuzione dei ruoli non dipende più dalla genetica ma dai destini (dalle esistenze e dalle loro genealogie, vale a dire da ciò che, del passato, agisce in esse) che si costituiscono nella storia di ciò che, come genere, non è più una semplice specie: l’ominazione è l’esteriorizzazione funzionale delle esperienze individuali e singolari, che si trasmettono a coloro che diventano per ciò stesso degli eredi: i discendenti.
Mi riferisco, qui, tanto alla singolarità dei gesti dei tagliatori di selce che a quella dei gesti, molto tempo dopo, delle pitture rupestri: è questa singolarità di esistenze (ex-sistere è rimanere fuori di sé) a essere conservata e trasmessa da questi artefatti tecnici che sono tanto le pitture quanto gli utensili appuntiti, che sono dunque gli uni e gli altri, e immediatamente, benché differentemente, dei supporti di memoria, o delle memo-tecniche propriamente dette (ma tornerò su questo tema, che fu anche quello di Nietzsche).

Ora, sembra proprio che, dall’alba dell’ominazione, l’individuazione collettiva, in cui consiste una società, presupponga una partecipazione di tutti alla produzione dell’uno, vale a dire del tutto, come fantasma e finzione necessari, in grado di installare il teatro di una presunta unità che si chiamerà “la società”; sempre attraverso una dimensione sociale che, come la lingua, la religione, la struttura familiare, i modi di produzione, ecc., sono ciò che si è chiamato strutture, o sistemi, o dispositivi, ecc., i quali sempre presuppongono l’esteriorizzazione originaria che sostiene dei destini.
Questi espedienti, attraverso cui si costituisce l’uno come fantasma del tutto, queste dimensioni significano che la società, in proprio, non esiste, né dunque la comunità, e che essa non è che un assemblaggio di tali dispositivi o sistemi, sebbene, tuttavia, questo concatenamento, per fare uno, debba esso stesso portare una singolarità che sia idiomatica, detto altrimenti: allo stesso tempo singolare e comune.

Questi assemblaggi sono supportati da ciò che ho chiamato strati epifilogenetici, o ritenzioni terziarie, vale a dire concrezioni di saperi e di poteri, negli oggetti e dispositivi tramandati come cose del mondo umano. In questo, essi comportano una dimensione mnemotecnica anche quando non sono mnemotecniche in senso stretto. Una pala da muratore o un forcone da letame, i quali mi è capitato di maneggiare, non hanno funzione mnemotecnica; e, tuttavia, esse supportano una memoria di gesti e di funzioni che li proiettano automaticamente nello strato mnemotecnico di tutte le cose in quanto cose del mondo.
Quanto alle mnemotecniche in senso stretto, esse appaiono dopo il neolitico e diventano immediatamente dispositivi di strutturazione dei poteri. Ma, a partire dalla costituzione della città greca e poi della Chiesa cristiana, questi dispositivi, che ho chiamato ritenzionali e che sono allora nelle mani dei chierici (giuristi e religiosi, politici e spirituali), i quali ne definiscono i criteri di selezione (diritto canonico, selezione dei buoni enunciati, dei buoni gesti, delle buone azioni, dei costumi e delle procedure corrette, ecc.), sono pensati come processo di individuazione che presuppone la partecipazione del molteplice alla produzione dell’uno, benché sotto l’autorità dei chierici.

Ora, nel XIX secolo, le mnemotecnologie fanno per la prima volta apparizione: tecnologie e non più semplicemente tecniche, sono prodotti industriali e macchine che inaugurano l’era dell’audiovisivo (fotografia e fonografia, cinema e radio, televisione), e poi, nel XX secolo, tecnologie del calcolo (eredi della meccanografia di Hollerith), di modo che il mnemo-tecnologico diventi il supporto stesso della vita industriale e sia integralmente sottomesso agli imperativi della divisione mondiale e macchinica del lavoro, della ricchezza e dei ruoli; a fortiori quando, attraverso la digitalizzazione generalizzata, tecnologie dell’informazione e tecnologie della comunicazione si integrano, quadro oggi denominato “capitalismo culturale” o “capitalismo cognitivo”.
Senonché, un imperativo, fino ad allora totalmente sconosciuto, è apparso tra i ruoli sociali ridistribuiti dalla rivoluzione industriale: quello della necessità di smaltire, consumandoli, i prodotti industriali provenienti dal macchinismo termodinamico, elettrico ed elettronico, in numero sempre più importante, in una diversità sempre crescente, benché al contempo sempre più standardizzati, modificando la natura stessa della diversità.

Questo ruolo di smaltimento è affidato al marketing, che si impadronisce, dal XIX secolo, delle mnemotecnologie (anche se esso non è veramente definibile come tale che nel XX secolo) per assicurare il funzionamento del sistema, vale a dire la circolazione sempre più accelerata (ed entropica: qui è la questione) delle energie che lo costituiscono.

Ma qui le energie non sono più la circolazione simbolica, in cui consisteva la partecipazione e che instaurava il sim-bolo, in greco sym-bolon, come condivisione sensibile, cognitiva e spirituale (spirituale nel senso di ciò che, come gli spiriti, riviene e differisce, perdura ripetendosi): la circolazione funzionale delle energie, nella società di controllo degli affetti e dei corpi che essi abitano e consumano, a cui giunge l’organizzazione dello smercio dei prodotti come organizzazione dell’adozione delle incessanti novità che risultano dall’innovazione che si chiamerà modernità, è ciò che genera una perdita di partecipazione simbolica, che è anche una sorta di congestione simbolica e affettiva, vale a dire, ci tornerò nel terzo capitolo, Allegoria del formicaio, una perdita strutturale di individuazione, tema di cui avevo avviato il discorso in Amare, amarsi, amarci. Ciò che così viene distrutto è un circuito del desiderio su cui tornerò in La miseria simbolica. La catastrofe del sensibile. In altri termini, è il desiderio stesso a essere distrutto, in quanto esso non può che essere un circuito: il circuito di un dono. Da qui il sentimento di sbandamento generalizzato che domina ovunque, liberando i frutti della pulsione di morte, e lo strano piacere che essi donano, che sono l’odio di sé e degli altri, e il passaggio all’atto omicida, così ben messo in scena nel film di Gus Van Sant, Elephant (2003).
Con il marketing, la cui apparizione è contemporanea al fordismo, la questione non è più la sola riproduzione del produttore (della sua forza lavoro, delle energie di cui ha bisogno, delle sue materie prime, ecc.; tutto ciò che già Marx aveva pensato) ma anche la fabbricazione, la riproduzione, la diversificazione e la segmentazione dei bisogni del consumatore.

Le energie esistenziali (le energie dei produttori e dei consumatori), che assicurano il funzionamento del sistema, sono i frutti del desiderio – della libido – dei produttori da un lato, e dei consumatori dall’altro. Il lavoro e il consumo sono libido captata e canalizzata. Il lavoro in generale è sublimazione e principio di realtà; ivi compreso, certamente, il lavoro artistico. Ma il lavoro proletario o più generalmente industriale non ha niente di artistico né di artigianale: è tutto il contrario. E il consumatore, la cui la libido è captata, trova sempre meno piacere a consumare: è confuso, pietrificato dalla coazione a ripetere, rispetto a cui bulimia e anoressia sono come casi particolari (sono anche, su di un altro piano, in epoca hitleriana, età paradossale e arcaizzante dell’industria, le anguille vomitate del Tamburo di latta di Günter Grass): non è un caso, infatti, che si apra in questo momento un dibattito sull’obesità, risultato micidiale dello sfruttamento del corpo e delle sue passioni, frustrazioni e pulsioni.
Ciò accade anche perché l’industrializzazione della mnemotecnologia audiovisiva e informatica, che rende possibile la guerra estetico-industriale e che costituisce l’arsenale del marketing, conduce inevitabilmente alla divisione industriale del lavoro e dei ruoli extra-lavorativi in modo per cui il rapporto al “prodotto”, nel nostro caso al simbolo, cognitivo o estetico, finisce all’opposizione dei “produttori” e dei “consumatori” di questi simboli; e questa opposizione uccide i loro desideri.

È così che il capitalismo culturale, informatico o cognitivo, rappresenta il problema di ecologia industriale più inquietante che possa esserci: le capacità mentali, intellettuali, affettive ed estetiche dell’umanità vi sono massivamente minacciate, il momento stesso in cui la potenza di azione dei gruppi umani dispone di mezzi di distruzione senza precedenti. La crisi ecologica che risulta dalla produzione industriale dei simboli è l’epoca della grande miseria mondiale del simbolico, che colpisce (benché molto differentemente) tanto il Nord quanto il Sud e ciò che, ormai, bisogna distinguere come l’Estremo Oriente.
Per miseria del simbolico intendo, dunque, la perdita di individuazione derivante a sua volta dalla perdita di partecipazione alla produzione dei simboli, designanti, questi, tanto i frutti della vita intellettiva (concetti, idee, teoremi, saperi) che quelli della vita sensibile (arti, saper-fare, costumi).
E ritengo che lo stato presente di perdita di individuazione generalizzato non possa che condurre a un crollo del simbolico, vale a dire a un affondamento del desiderio, ovvero, alla distruzione del sociale propriamente detto: alla guerra totale.