Sull’instabilità della (nozione di) natura – Bruno Latour

Il nostro imperativo è dunque scoprire un percorso di cure – ma senza la pretesa di guarire in fretta. Si deve infatti ripensare l’idea di progresso, scoprire un altro modo di sentire lo scorrere del tempo.

di: Bruno Latour

Pubblichiamo un estratto dal libro La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, di Bruno Latour, edito da Meltemi. Ringraziamo l’editore per la possibilità concessa.

 

Non c’è mai tregua, ogni mattina ricomincia tutto da capo. Un giorno, l’innalzamento delle acque; un altro, la sterilità del terreno; la sera, la scomparsa accelerata dei ghiacciai; dal telegiornale delle venti apprendiamo che, tra un crimine di guerra e l’altro, migliaia di specie sono destinate a scomparire prima ancora di essere state adeguatamente classificate; ogni mese, il tasso di CO2nell’atmosfera è sempre più elevato, ancor più di quello della disoccupazione; ogni anno che passa, ci dicono, è l’anno più caldo mai registrato dalle stazioni meteorologiche; il livello dei mari non fa che innalzarsi; i litorali sono sempre più minacciati dalle tempeste di primavera; quanto all’oceano, a ogni campagna di misurazione risulta sempre più acido. È quel che i giornali definiscono vivere nell’epoca della “crisi ecologica”.

Purtroppo, parlare di “crisi” sarebbe ancora un modo per darsi facili rassicurazioni, per dirsi che “passerà”, che “presto ci lasceremo alle spalle” questa crisi. Se fosse soltanto una crisi! Se solo fosse stata semplicemente una crisi! Secondo gli specialisti, si dovrebbe parlare piuttosto di “mutazione”: eravamo abituati a un mondo; passiamo, mutiamo in un altro. Quanto all’aggettivo “ecologico”, lo utilizziamo troppo spesso, anch’esso, per rinfrancarci, per porci a una certa distanza dai problemi che ci minacciano: “Ah, state parlando di questioni ecologiche, be’, non sono cose che ci riguardano!”. Come è già accaduto, d’altronde, nel secolo scorso, quando si parlava di “ambiente” e si designavano con questo termine gli esseri della natura considerati da lontano, al riparo di una teca di vetro. Ma oggi, siamo tutti noi – dall’interno, nell’intimità delle nostre preziose, piccole esistenze – a essere toccati, coinvolti in prima persona, dicono gli esperti, dai bollettini che ci mettono in guardia su quel che dovremmo mangiare e bere, sul nostro modo di sfruttare i terreni, di spostarci da un luogo all’altro, di vestirci. Di solito, di fronte a notizie sempre più sconfortanti, dovremmo sentire intimamente di essere scivolati da una semplice crisi ecologica a quel che bisognerebbe piuttosto chiamare una profonda mutazione nel nostro rapporto con il mondo.

E, tuttavia, non credo sia questo il caso. Prova ne è che accogliamo tutte queste notizie con straordinaria tranquillità e persino una buona dose di stoicismo… Se si trattasse davvero di una mutazione radicale, saremmo già tutti impegnati a modificare le basi della nostra esistenza da cima a fondo. Avremmo cominciato a cambiare la nostra alimentazione, il nostro habitat, i nostri mezzi di trasporto, le nostre tecniche di coltivazione, in sintesi il nostro modo di produzione. Al suono delle sirene, ci saremmo precipitati fuori dai nostri rifugi a inventare sempre nuove tecnologie all’altezza della minaccia. Gli abitanti dei paesi ricchi sarebbero stati altrettanto ingegnosi come all’epoca delle precedenti guerre e, al pari del XX secolo, avrebbero risolto la questione, in quattro o cinque anni, con una trasformazione massiccia del proprio stile di vita. Grazie alle loro azioni vigorose, la quantità di CO2 rilevata all’osservatorio di Mauna Loa, nelle Hawaii1, avrebbe già iniziato a stabilizzarsi; i terreni ben umidificati brulicherebbero di lombrichi e il mare ricco di plancton sarebbe ridivenuto pescoso; persino i ghiacciai artici avrebbero rallentato forse il loro declino (a meno che, presa una china irreversibile, non siano già transitati da millenni verso un nuovo stato2).

A ogni modo, da una trentina d’anni avremmo già agito. La crisi sarebbe già passata. Guarderemmo indietro all’epoca della “grande guerra ecologica” con la fierezza di chi ha rischiato di soccombere, ma ha saputo ribaltare la situazione a proprio vantaggio, grazie alla prontezza di reazione e alla mobilitazione totale della forza dell’ingegno. Forse staremmo persino già portando i nostri bambini a visitare musei dedicati a questa guerra, nella speranza che rimangano sbalorditi dai nostri progressi, allo stesso modo in cui oggi apprendono con stupore come la guerra del 1940 abbia reso possibile il progetto Manhattan, la messa a punto della penicillina o il drammatico progresso dei radar o del trasporto aereo.

Ma, ecco, ciò che avrebbe potuto essere nient’altro che una crisi passeggera si è trasformato in una profonda alterazione del nostro rapporto con il mondo. L’impressione è che siamo divenuti coloro che avrebbero potuto agire trenta o quarant’anni fa – e che non hanno fatto nulla, o quasi3. Strana situazione, la nostra: abbiamo oltrepassato una serie di limiti, abbiamo superato una guerra totale e non ci siamo accorti pressoché di nulla! Tanto da ritrovarci curvi sotto il peso di un evento gigantesco che si è arrampicato sulle nostre spalle, senza che ce ne rendessimo conto, senza che combattessimo. Immaginate: nascosta dal dilagare di guerre mondiali, rivendicazioni coloniali, minacce nucleari, ci sarebbe stata, nel XX secolo – il “secolo classico della guerra” –, un’altra guerra, anch’essa mondiale, anch’essa totale, anch’essa coloniale, che avremmo vissuto senza viverla, in realtà. Mentre cominciamo ora a interessarci, con disinvolta noncuranza beninteso, alla sorte delle “generazioni future” (come si diceva un tempo), pensate se le generazioni passate si fossero già giocate tutto! Immaginate che sia avvenuto qualcosa che non si staglierebbe davanti a noi come una minaccia a venire, ma piuttosto dietro coloro che sono già nati. Come non sentire su di noi la vergogna di aver reso irreversibile una situazione perché abbiamo semplicemente tirato dritto come sonnambuli mentre l’allarme suonava?

Eppure, gli avvertimenti non sono mancati. Le sirene hanno ululato per tutto questo tempo. La consapevolezza dei disastri ecologici è antica, viva, argomentata, documentata, provata, sin dagli albori di quella che chiamiamo l’“era industriale” o la “civiltà meccanica”. Non possiamo dire che non lo sapevamo4. È soltanto che esistono molti modi di sapere e ignorare allo stesso tempo. Di solito, quando si tratta di prenderci cura di noi stessi, della nostra sopravvivenza, del benessere dei nostri cari, tendiamo piuttosto a intraprendere la strada della sicurezza: al primo accenno di raffreddore dei nostri bambini corriamo a consultare il pediatra; alla minima minaccia alle nostre piante interveniamo con trattamenti insetticidi; al minimo dubbio sulla nostra proprietà stipuliamo un’assicurazione e installiamo telecamere di sorveglianza; per prevenire un’invasione dispieghiamo l’esercito alle frontiere. Il sin troppo celebre principio di precauzione lo applichiamo in abbondanza quando si tratta di proteggere quel che ci circonda o i nostri beni, anche se non siamo certi della diagnosi e gli esperti continuano a cavillare sulla reale portata dei pericoli5. Eppure, per questa crisi globale nessuno invoca il suddetto principio per metterlo coraggiosamente in atto. Stavolta, la vecchissima umanità, prudente, pedante, che di solito avanza solo a tastoni – picchiettando ogni ostacolo come un cieco col suo bastone bianco, calibrando il passo a ogni parvenza di rischio, ritraendosi non appena avverta una resistenza e avanzando spedita allo schiudersi dell’orizzonte, prima di esitare ancora una volta dinanzi alla comparsa di un nuovo ostacolo –, questa umanità è rimasta impassibile. Nessuna delle sue antiche virtù rurali, borghesi, artigiane, proletarie, politiche sembra essere entrata qui in gioco. Le sirene hanno suonato, ma sono state disattivate a una a una. Abbiamo aperto gli occhi, abbiamo visto, abbiamo saputo, abbiamo tirato dritto tenendo gli occhi ben serrati6! Se ci stupiamo, leggendo I sonnambuli7 di Christopher Clark, di vedere l’Europa precipitare, nell’agosto 1914, nella Grande guerra con cognizione di causa, come non sbalordirci nell’apprendere retrospettivamente con quale conoscenza esatta delle cause e degli effetti l’Europa (e tutti coloro che da allora l’hanno seguita) è precipitata in quest’altra Grande guerra che, apprendiamo ora meravigliati, avrebbe già avuto luogo – e che abbiamo probabilmente perso?

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“Un’alterazione del rapporto col mondo” è semplicemente un’espressione scientifica per indicare la follia. Non riusciremo a comprendere nulla dei mutamenti ecologici se non misuriamo fino a che punto atterriscano davvero ognuno di noi. Anche se hanno molti modi per farci uscire di senno!

Una parte della gente, degli intellettuali, dei giornalisti, coadiuvati talvolta da esperti, ha scelto di immergersi a poco a poco in un mondo parallelo, in cui non c’è più alcuna natura agitata o minaccia reale. Se costoro mantengono la calma è perché sono sicuri che i dati degli scienziati siano stati manipolati da forze oscure, in ogni caso sarebbero stati gonfiati a tal punto che urge resistere coraggiosamente ai pareri di coloro che definiscono “catastrofisti” e imparare, come sono soliti dire, a “non perdere la testa” e continuare a vivere come si è fatto finora, senza farsi troppi problemi. Questa follia della negazione assume talvolta la forma del fanatismo: è il caso dei cosiddetti “clima-scettici” e talvolta addirittura “clima-negazionisti”: adepti, in misura diversa, di una teoria del complotto, vedono nella questione ecologica – al pari di molti funzionari eletti americani – un modo indiretto di imporre il socialismo negli Stati Uniti8! Questo punto di vista è, tuttavia, molto più diffuso nel mondo intero nella forma di una dolce follia che potremmo qualificare comequietista, in riferimento alla tradizione religiosa in cui i fedeli si rimettevano a Dio per la loro salvezza. I clima-quietisti, analogamente ai clima-scettici, vivono in un mondo parallelo, ma, poiché hanno disinnescato tutti gli allarmi, nessuna sirena stridula li costringe a sollevarsi dal morbido cuscino del dubbio: “Staremo a vedere. Il clima è sempre variato. L’umanità ce l’ha sempre fatta. Abbiamo ben altre cose di cui preoccuparci. L’importante è attendere e soprattutto non perdere la testa”. Diagnosi bizzarra: questi sono pazzi a furia di restar calmi! C’è persino chi, negli interventi alle assemblee politiche, non esita ad appellarsi al patto, citato nella Genesi, con cui Dio s’impegna davanti a Noè a non mandare più altri diluvi: “Io non maledirò più la terra a cagione dell’uomo, poiché i disegni del cuor dell’uomo sono malvagi fin dalla sua fanciullezza; e non colpirò più ogni cosa vivente, come ho fatto” (Gn 8,219). Con una garanzia così solida, in effetti, sarebbe un errore preoccuparsi!

Altri, fortunatamente meno numerosi, hanno sì sentito squillare le sirene, ma si sono fatti prendere dal panico e hanno reagito piombando in un’altra frenesia. “Poiché le minacce sono così gravi e le trasformazioni che abbiamo causato al pianeta così radicali, allora”, propongono, “prendiamo di petto l’intero sistema terrestre, considerato come una vasta macchina che ha smesso di funzionare correttamente solo perché non l’abbiamo controllata a sufficienza”. Ed eccoli qua, colti da una nuova brama di dominio totale su una natura sempre concepita come recalcitrante e selvaggia. In questo grande delirio che chiamano umilmente geoingegneria, è la Terra intera che intendono abbracciare10. Per guarire dagli incubi del passato, propongono di aumentare ulteriormente la dose di megalomania necessaria alla sopravvivenza in questa clinica per pazienti dai nervi fragili che è divenuto il mondo. La modernizzazione ci ha condotti a un punto morto? E allora continuiamo a essere ancora più risolutamente moderni! Se è necessario scuotere i primi, i clima-scettici, per risvegliarli dal sonno in cui sono piombati, per questi altri ci vorrebbe una camicia di forza per impedire che facciano troppe sciocchezze.

Come stilare poi l’elenco di tutte le sfumature di depressione che colpiscono quelli, assai più numerosi, che osservano con estrema attenzione le repentine trasformazioni della Terra e hanno convenuto di non potere né ignorarle, purtroppo, né porvi rimedio con alcuna misura radicale? Sofferenza, tristezza, malinconia, nevrastenia? Sì, manca loro il coraggio, hanno un groppo alla gola, a malapena riescono ancora a leggere un giornale; non escono dal loro torpore se non con un accesso di rabbia nel vedere gli altri avanzare in modo ancor più folle. Ma, una volta passati questi attacchi d’ira, finiscono prostrati sotto dosi massicce di antidepressivi.

I più folli sono ancora quelli che hanno l’aria di credere che possono comunque fare qualcosa, che non è ancora troppo tardi, che le regole dell’azione collettiva, anche in questo caso, funzioneranno sicuramente, che bisogna essere capaci di agire razionalmente, con cognizione di causa, persino dinanzi a minacce così gravi, nel rispetto del quadro delle istituzioni esistenti11. Ma questi sono probabilmente bipolari, pieni di energia nella fase maniacale prima del crollo che risveglierà in loro il terribile impulso a gettarsi dalla finestra – o a lanciarvi i loro avversari.

C’è ancora qualcuno in grado di sfuggire a questi sintomi? Sì, ma non crediate nemmeno per un istante che siano sani di mente! Si tratta con ogni probabilità di artisti, eremiti, giardinieri, esploratori, attivisti o naturalisti, che cercano in un isolamento pressoché totale altri mezzi per resistere all’angoscia: esperados, per utilizzare la spiritosa etichetta di Romain Gary12 (a meno che non siano come me e riescano a sbarazzarsi della loro angoscia solo perché hanno trovato mezzi astuti per inocularla negli altri!).

Non c’è dubbio, l’ecologia fa dare di matto: è da qui che bisogna ripartire. Non con l’idea di trovare una cura, giusto per imparare a sopravvivere senza lasciarsi trascinare dalla negazione, dalla hybris, dalla depressione, dall’auspicio di una soluzione ragionevole o dalla fuga nel deserto. Non si guarisce dalla condizione di appartenenza al mondo. Ma, a forza di cure, si può guarire dalla convinzione che noi non gli apparteniamo, che l’essenziale risiede altrove, che quel che accade al mondo non ci riguardi. Sono finiti i tempi in cui potevamo sperare di “cavarcela”. Siamo davvero, come si suol dire, “in un tunnel”, salvo che “non ne vedremo la luce in fondo”. Su questi temi la speranza è cattiva consigliera, poiché non siamo in una crisi. Non possiamo dire: “Anche stavolta passerà”. Dovremo farci l’abitudine. È definitivo.

Il nostro imperativo è dunque scoprire un percorso di cure – ma senza la pretesa, peraltro, di guarire in fretta. In questo senso, non sarebbe impossibile progredire, ma si tratterebbe di un progresso alla rovescia. Si deve infatti ripensare l’idea di progresso, retrogredire, scoprire un altro modo di sentire lo scorrere del tempo. Invece di parlare di speranza, bisognerebbe esplorare un modo sufficientemente sottile di di-sperare; il che non significa “disperarsi”, ma piuttosto non confidare nella sola speranza come modo di interagire col tempo che passa13. La speranza di non fare più affidamento sulla speranza? Ammettiamolo, non sembra molto incoraggiante.

Se non possiamo sperare di guarire definitivamente, potremmo almeno scommettere sul minore dei mali. Dopo tutto, è pur sempre una forma di cura il “convivere con i propri mali” o, più semplicemente, il “vivere meglio”. Se l’ecologia ci fa ammattire è perché in effetti è un’alterazione dell’alterazione dei rapporti con il mondo. In questo senso, è al contempo una nuova follia e un nuovo modo di lottare contro le follie precedenti! Non c’è altra soluzione per curarsi senza sperare di guarire: bisogna andare a fondo nella situazione di derelizione in cui ci troviamo tutti, quali che siano le sfumature che assumono le nostre angosce14.

1 È a tale osservatorio che dobbiamo la misurazione di più lunga durata della quantità di CO2 nell’atmosfera. Sulla storia di queste misurazioni cfr. C.D. Keeling, Rewards and Penalties of Recording the Earth, in “Annual Review of Energy and Environment”, n. 23, 1998, pp. 25-82. Tornerò più volte su questo esempio.

2 D. Archer, The Long Thaw, Princeton University Press, Princeton (N. J.) 2008.

3 Questa amara supposizione è al centro dello spaventoso, piccolo esercizio di fantascienza a cui si è dedicata una storica delle scienze, N. Oreskes, insieme al collega Conway: cfr. N. Oreskes, E.M. Conway, The Collapse of Western Civilization, Columbia University Press, New York 2014; tr. it. di E. Capriolo, Il crollo della civiltà occidentale, Piano B, Prato 2015.

4 È il tema dell’importante opera di J.-B. Fressoz, L’apocalypse joyeuse, Éditions du Seuil, Paris 2012, ripreso anche in C. Bonneuil, J.-B. Fressoz, L’événement Anthropocène, Éditions du Seuil, Paris 2013; tr. it. di A. Accattoli, A. Grechi, La terra, la storia e noi, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2019.

5 Il principio di precauzione è spesso frainteso: non si tratta di astenersi dall’azione quando si è incerti, ma, al contrario, di agire anche quando non si ha la completa certezza. È un principio di azione e di ricerca, di “messa in tensione” e non, come vorrebbero i suoi detrattori, di oscurantismo.

6 Ne L’apocalypse joyeuse Jean-Baptiste Fressoz utilizza a tal proposito il terminedisinibizione che esaminerò più approfonditamente nella conferenza VI, alla ricerca della sua origine religiosa. “La parola ‘disinibizione’ condensa i due tempi del passaggio all’atto: quello della riflessività e quello dell’andare-oltre; quello del tenere conto del pericolo e quello della sua normalizzazione. La modernità è stata un processo di disinibizione riflessiva […]” (J.-B. Fressoz, L’apocalypse joyeuse, cit., p. 16).

7 C. Clark, The Sleepwalkers, Penguin, London 2013; tr. it. di D. Scarfei, I sonnambuli, Laterza, Roma-Bari 2013.

8 Abbiamo a disposizione una vasta letteratura sulle origini del clima-scetticismo, a partire dal libro classico di N. Oreskes, E.M. Conway, Merchants of Doubt, Bloomsbury, New York 2010. Il fenomeno occupa un posto rilevante nella mia opera e vi farò riferimento in ogni conferenza.

9 Passo citato da John Shimkus, membro del Congresso per lo Stato dell’Illinois, il 25 marzo 2009, nel corso di una riunione della Sottocommissione Energia e Ambiente del Congresso americano.

10 Nell’eccellente libro di C. Hamilton, Earthmasters, troveremo una presentazione delle soluzioni proposte che fa drizzare i capelli in testa. Cfr. C. Hamilton, Earthmasters, Yale University Press, New Haven 2013.

11 È quel che Stefan Aykut e Amy Dahan chiamano la “negazione della realtà” da parte delle organizzazioni internazionali. I due autori analizzano la procedura di negoziazione, che si è rivelata fruttuosa nel limitare certe istanze di inquinamento, applicandola però a un problema molto più spinoso. Cfr. S. Aykut, A. Dahan, Gouverner le climat?, cit.

12 R. Gary, Les racines du ciel, Gallimard, Paris 1956, p. 215; tr. it. di E. Capriolo,Le radici del cielo, Neri Pozza, Milano-Vicenza 2009. Il mio modello è George Monbiot, giornalista del “Guardian”, e il suo blog (monbiot.com) tanto deprimente quanto corroborante, ma anche Gilles Clément, il “giardiniere planetario”.

13 Questo rapporto con la speranza è il cuore del libro di C. Hamilton, Requiem for a Species, Earthscan, London-Washington 2010. Lo ritroveremo nelle conferenze V e VI, affrontando la questione del “tempo della fine”. Il legame fra temporalità paradossale ed ecologia è esplorato da J.-P. Dupuy, Pour un catastrophisme éclairé, Éditions du Seuil, Paris 2002; tr. it. di P. Heritier, Per un catastrofismo illuminato, Medusa Edizioni, Milano 2011. Cfr. anche l’intervista On peut ruser avec le destin catastrophique, in “Critique”, vol. VIII, nn. 783-784, 2012, pp. 729-737. Ma questo rapporto risale a H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Insel, Frankfurt am Main 1979; tr. it. Il principio responsabilità, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 1990. Ed è presente naturalmente nella teologia che fa da sfondo all’enciclica di papa Francesco, Laudato si’, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2015.

14 Al momento nessuno si è spinto tanto lontano in questa esplorazione del rapporto col tempo come Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro inL’arrêt de monde, in É. Hache (éd.), De l’univers clos au monde infini, Éditions Dehors, Paris 2014.