Prendere gli altri sul serio – Tim Ingold

Come dovremmo vivere ora, in modo che ci possa essere vita per le generazioni future? Cosa potrebbe rendere la vita sostenibile per tutti? Per rispondere abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile

di: Tim Ingold

Pubblichiamo un estratto dal libro Antropologia. Ripensare il mondo, di Tim Ingold, edito da Meltemi Editore che ringraziamo per la possibilità concessa.

 

 

Come dovremmo vivere? Senza dubbio gli esseri umani si sono sempre fatti questa domanda. Forse, è proprio questa continua necessità di ponderare che ci rende umani. Per gli altri animali sembra che la questione si ponga a malapena. Ciascuno è più o meno assorto nel proprio modo di fare le cose. Ma gli stili di vita umani, i modi di fare e di dire, di pensare e di conoscere, non sono serviti su un piatto d’argento; non sono prestabiliti, né sono mai fissati definitivamente.
Vivere è questione di decidere come si vive, e racchiude in ogni momento il potenziale diramarsi in molteplici direzioni, nessuna delle quali è più normale o naturale delle altre.

Così come il sentiero nasce camminando, allo stesso modo dobbiamo continuamente improvvisare modi di vita per andare avanti, cambiando rotta anche quando seguiamo le orme dei predecessori. Agiamo in questo modo, comunque, non in isolamento, ma in compagnia degli altri. Come i fili di una corda, le vite si intrecciano e si sovrappongono. Vanno avanti assieme e si corrispondono in cicli alternati di tensione e risoluzione. Nessun filo regge per sempre; e così come alcuni vengono a mancare, altri si uniscono.

Ecco perché la vita degli esseri umani è sociale: perché incarna il processo continuo e collettivo di comprendere come vivere. Ogni stile di vita, quindi, rappresenta una sperimentazione comune dell’esistenza. Non si tratta tanto di trovare la soluzione al problema di come vivere, quanto di trovare il percorso da scegliere per raggiungere una destinazione ancora sconosciuta. Ma questo è un approccio al problema.

Facciamo appello a un campo di ricerca che si faccia carico di apprendere come può da una vasta gamma di approcci; qualcosa in grado di tener conto, a proposito del problema di come vivere, della saggezza e dell’esperienza di tutti gli abitanti del mondo, qualunque siano le loro origini, i mezzi di sussistenza, le circostanze e i luoghi di residenza.

Questo è il campo che voglio sostenere in queste pagine. Potrei chiamarlo antropologia. Potrebbe non essere l’antropologia così come l’avete immaginata, o così come viene praticata da molti di coloro che si professano antropologi […].

L’antropologia, dal mio punto di vista, è una filosofia che include le persone. Mai come ora, nella storia umana, questa filosofia è tanto necessaria. La prova che il mondo attraversa un momento critico è ovunque, ed è ineludibile. Con una popolazione stimata di 7,6 miliardi di persone, cifra oltretutto destinata a raggiungere gli 11 miliardi entro la fine del secolo, non siamo mai stati così tanti e così longevi. Più della metà della popolazione mondiale vive in città, e la maggior parte non trae più sostentamento diretto dalla terra, come hanno fatto i suoi predecessori.

Le catene di prodotti alimentari e di altre merci reticolano il globo. Le foreste vengono distrutte, le aree coltivabili sono state destinate alla produzione di soia e di olio di palma, l’attività estrattiva ha eroso la terra. L’industria umana, soprattutto il consumo massiccio di combustibili fossili, sta influenzando il clima mondiale, aumentando la probabilità di eventi potenzialmente catastrofici, e in molte regioni la carenza di acqua e di altri beni primari ha scatenato genocidi.

Il mondo resta stretto nella morsa di un sistema di produzione, distribuzione e consumo che, arricchendo grottescamente i pochi, non solo ha lasciato innumerevoli milioni di persone in esubero, condannate all’insicurezza cronica, alla povertà e alle malattie, ma ha anche perpetrato distruzioni ambientali di una portata senza precedenti, rendendo molte regioni inabitabili e intasando territori e oceani con rifiuti indistruttibili e pericolosi.

Questi impatti antropici sono irreversibili e probabilmente sopravviveranno alla permanenza della nostra specie su questo pianeta. Non senza ragione infatti alcuni hanno dichiarato l’inizio di una nuova era nella storia della terra: l’Antropocene.

Questo mondo sul filo del rasoio è però l’unico che abbiamo. Per quanto possiamo sognare la vita su altri pianeti, non ce n’è nessun altro su cui potremmo fuggire. E non c’è nessun ritorno al passato, da cui ricavare una rotta alternativa per il presente. Siamo dove siamo, e da qui possiamo solo andare avanti. Come osservò Karl Marx tempo fa, gli esseri umani sono gli autori della propria storia, ma in condizioni che non hanno scelto.

Non possiamo scegliere di nascere in un altro periodo storico. Le nostre condizioni attuali sono state plasmate dall’agire delle generazioni passate in un modo che non può essere annullato, così come le nostre azioni, a loro volta, determineranno irrevocabilmente le condizioni del futuro. Come, allora, dovremmo vivere ora, in modo che ci possa essere vita per le generazioni future? Cosa potrebbe rendere la vita sostenibile, non solo per alcuni e a esclusione di altri, ma per tutti? Per rispondere a domande così importanti abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile […].

Il problema non è che siamo privi di informazione o conoscenza. Al contrario, il mondo ne è inondato e col progresso digitale la pioggia è diventata diluvio. Secondo un recente studio, ogni anno vengono pubblicati circa 2,5 milioni di documenti scientifici e dal 1665 a oggi abbiamo superato la soglia dei 50 milioni. Gli esperti, armati di dispositivi per l’acquisizione di dati specifici e tecniche sofisticate di identificazione, non vedono l’ora di offrire le loro proiezioni.

Dovremmo ascoltarli, così come dovremmo ascoltare gli studiosi delle arti e delle scienze umanistiche, le cui riflessioni forniscono contesti che ci permettono di inquadrare meglio la situazione attuale. Eppure tutti, scienziati e umanisti allo stesso modo, hanno qualcosa in comune, cioè l’impressione di poter analizzare il mondo da qualche osservatorio esterno, al di sopra o molto più in là, un luogo da dove possono guardare indietro e pronunciarsi sul suo funzionamento, forti di un’autorità negata a coloro i cui interessi sono intimamente legati alla banalità della vita quotidiana. Dalla loro posizione privilegiata, professano di essere in grado di spiegare ciò che per il resto della popolazione va oltre la comune comprensione […].

La mia idea di antropologia, a dire il vero, non è coinvolta nel business della “produzione del sapere”, poiché aspira a una relazione del tutto diversa con il mondo. Per gli antropologi, così come per le persone tra le quali lavorano, il mondo non è oggetto di studio, ma è l’ambiente di processi e relazioni nel quale
tutti sono immersi fin dall’inizio.

I critici potrebbero vedere tutto questo come una debolezza, o una vulnerabilità. Per il loro modo di guardare le cose, è mancanza di oggettività. Ma per noi è la vera sorgente da cui l’antropologia attinge la sua forza. Non siamo alla ricerca di un sapere oggettivo. Ciò che cerchiamo, e che speriamo di ottenere, è la saggezza. Non sono affatto la stessa cosa, e anzi potrebbero anche essere in contrasto.

Il sapere cerca di sistemare le cose all’interno di concetti e di categorie di pensiero, per renderle disponibili e in qualche modo prevedibili. Spesso parliamo di armarci di strumenti conoscitivi e di usarli per allestire le nostre difese in modo da affrontare meglio le avversità. Tutto ciò ci dà potere, controllo e immunità per attaccare. Ma più ci rifugiamo nelle cittadelle della conoscenza, meno attenzione poniamo a ciò che accade intorno a noi.

Perché disturbarsi a partecipare, diciamo, quando lo conosciamo già? Per essere saggi, al contrario, bisogna avventurarsi nel mondo e correre il rischio di esporsi a ciò che sta accadendo in quel momento. È lasciare che gli altri entrino in nostra presenza, prestare attenzione e cura. Il sapere fissa e mette la nostra mente a riposo; la saggezza è irrequieta e instabile.

Il sapere è armato e controllato; la saggezza disarma e si arrende. Il primo ha le sue sfide, la seconda ha i suoi modi, ma dove le sfide del sapere si avvicinano alle loro soluzioni, le vie della saggezza si aprono a un processo di vita. Ora, naturalmente, non sto suggerendo che possiamo fare a meno del sapere, ma che allo stesso modo abbiamo bisogno di saggezza.

In queste circostanze, l’equilibrio tra i due si è drasticamente rovesciato a favore del primo e lontano da quest’ultima. Mai come oggi, infatti, tanto sapere si sposa con così poca saggezza. È compito dell’antropologia, credo, ristabilire l’equilibrio, stemperando la conoscenza fornita dalla scienza con la saggezza dell’esperienza e dell’immaginazione.