La trasformazione del silenzio in linguaggio e azione – Audre Lorde

Nel nome del silenzio, ciascuna di noi disegna la faccia delle proprie paure. Ma più di ogni altra cosa, abbiamo paura di quella visibilità senza la quale non possiamo veramente vivere

di: Audre Lorde

Pubblichiamo un estratto dal libro Sorella Outsider. Scritti politici, di Audre Lorde, edito da Meltemi Editore, nella collana Culture radicali, curata dal gruppo Ippolita. Ringraziamo l’editore per la possibilità concessa.

 

 

 

Alle mie osservazioni su “La trasformazione del silenzio in linguaggio e azione” vorrei premettere una poesia. Il suo titolo è “Canzone per molti movimenti” e questa lettura è dedicata a Winnie Mandela, una combattente per la libertà sudafricana che ora si trova in esilio da qualche parte in Sudafrica. Era stata in prigione ed era stata rilasciata, ma è stata di nuovo arrestata per aver protestato dopo che, di recente, degli scolari Neri che cantavano canti di libertà sono stati imprigionati e accusati di violenza pubblica…

“Canzone per molti movimenti”

Nessuno vuole morire per strada
preso tra fantasmi di bianchezza
e la vera acqua
nessuno di noi voleva lasciare
le nostre ossa
sulla via della salvezza
tre pianeti a sinistra
un secolo luce fa
i nostri aromi sono separati e particolari
ma le nostre pelli cantano in note complementari
alle otto meno un quarto ora solare
raccontavamo le stesse storie
ripetendole ancora e ancora.

Dèi spezzati sopravvivono
nei crepacci e nelle pozze di fango
di ogni città assediata
dov’è ovvio
che ci sono troppi corpi
da trasportare ai forni
o ai patiboli
e i nostri usi sono diventati
più importanti del nostro silenzio
dopo la caduta
troppi recipienti vuoti
di sangue da seppellire o bruciare
non resterà nessuno
per ascoltare
e il nostro lavoro
è diventato più importante
del nostro silenzio.

Il nostro lavoro è diventato
più importante
del nostro silenzio.
(A. Lorde, The Black Unicorn, W.W. Norton & Co. 1978).

 

Sono giunta a credere, sempre di più, che quello che è più importante per me deve essere detto, verbalizzato e condiviso, anche a rischio di vederlo ferito o equivocato. Ché parlare mi fa bene, al di là di ogni altro effetto. Io sono qui come poetessa Nera lesbica, e il senso di tutto ciò discende dal fatto che sono ancora viva, mentre potrei non esserlo. Meno di due mesi fa, due dottori, una femmina e un maschio, mi hanno detto che avrei dovuto subire un’operazione al seno, e che c’era una probabilità tra il 60 e l’80 per cento che il tumore fosse maligno. Tra quel discorso e l’operazione c’è stato un periodo di tre settimane di dolorosissima e involontaria riorganizzazione di tutta quanta la mia vita. L’operazione è stata fatta, e la massa era benigna.

Ma in quelle tre settimane sono stata costretta a guardare a me stessa e alla mia vita con una chiarezza impietosa e urgente che mi ha lasciata ancora scossa, ma anche molto più forte. Questa è una situazione che molte donne affrontano, comprese alcune di voi qui oggi. Certe cose che ho sperimentato in questo periodo mi hanno aiutata a chiarire molto di ciò che provo a proposito della trasformazione del silenzio in linguaggio e azione.

Diventando forzosamente ed essenzialmente consapevole della mia mortalità, e di quello che desideravo e volevo per la mia vita, per quanto breve possa essere, le priorità e le omissioni mi sono balzate agli occhi in una luce impietosa, e quello che più rimpiangevo erano i miei silenzi. Di cosa mai avevo avuto paura? Sollevare questioni o parlare secondo quel che credo avrebbe potuto significare sofferenza, o morte. Ma tutti quanti proviamo dolore in così tanti modi diversi, continuamente, e il dolore cambia, o finisce. La morte, d’altro canto, è il silenzio finale. E poteva arrivare in fretta, senza riguardo al fatto che io avessi detto quel che doveva essere detto, o che avessi solo tradito me stessa con piccoli silenzi, con l’intenzione di parlare in un domani, o aspettando che parlasse qualcun altro. Ho cominciato così a riconoscere una fonte di potere dentro di me: il sapere che, pur essendo molto desiderabile non avere paura, imparare a ridimensionare la paura mi dava grande forza.

Sarei morta, presto o tardi, che avessi parlato o no. I miei silenzi non mi avevano protetta. Il vostro silenzio non vi proteggerà. Ma con ogni parola vera detta, con ogni tentativo di dire quelle verità di cui ancora vado alla ricerca, avevo preso contatto con altre donne per esaminare insieme le parole per adattarle a un mondo in cui tutte credevamo, per costruire un ponte sulle nostre differenze. Ed erano la cura e l’affetto di tutte quelle donne a darmi forza e a farmi essere in grado di analizzare gli elementi essenziali della mia vita.

Le donne che mi hanno sostenuta in quel periodo erano Nere e bianche, vecchie e giovani, lesbiche, bisessuali ed eterosessuali, e tutte insieme condividevamo una guerra contro le tirannie del silenzio. Tutte quante mi hanno dato una forza e una sollecitudine senza la quale non avrei potuto sopravvivere intatta. In quelle settimane di sofferenza acuta mi è giunta la conoscenza che – nella guerra che noi tutte combattiamo contro le forze della morte, sottile o manifesta, consapevole o no – io non sono solo una vittima, sono anche una guerriera.
Quali sono le parole che ancora non avete? Cos’è che avete bisogno di dire? Quali sono le tirannie che ingoiate giorno dopo giorno e tentate di far vostre, fino al punto di ammalarvi e morirne, sempre in silenzio? Forse per alcune di voi qui, oggi, io sono la faccia di una delle vostre paure. Perché sono donna, perché sono Nera, perché sono lesbica, perché sono me stessa, una donna Nera guerriera poetessa che fa il suo lavoro, che è venuta a chiedervi: state facendo il vostro?
E, naturalmente, ho paura – lo sentite dalla mia voce –, perché la trasformazione del silenzio in linguaggio e azione è un atto di auto-rivelazione e questo appare sempre carico di pericolo. Ma mia figlia, quando le ho parlato del nostro argomento e delle mie difficoltà ad affrontarlo, ha detto: “Di’ loro che non sei mai veramente una persona intera se stai zitta, perché c’è sempre quel pezzettino dentro di te che chiede di essere detto e, se tu continui a ignorarlo, diventa sempre più arrabbiato e sempre più intrattabile, e se non parli un giorno o l’altro prende e ti dà un pugno in bocca”.

Nel nome del silenzio, ciascuna di noi disegna la faccia delle proprie paure – paura del disprezzo, della censura, di un giudizio, di essere riconosciuta, sfidata, annientata. Ma più di ogni altra cosa, penso, abbiamo paura proprio di quella visibilità senza la quale non possiamo veramente vivere.

All’interno di questo Paese in cui le differenze razziali creano una costante, pur se non detta, distorsione della visione, le donne Nere sono state da un lato sempre altamente visibili e così, dall’altro lato, sono state rese invisibili attraverso la spersonalizzazione operata dal razzismo. Perfino all’interno del movimento delle donne abbiamo dovuto, e ancora dobbiamo, combattere proprio per quella visibilità che ci rende più vulnerabili, il nostro essere Nere. Perché per sopravvivere nella bocca di questo drago che chiamiamo america, abbiamo dovuto imparare questa prima e più vitale lezione: che non era previsto che noi sopravvivessimo. Non come esseri umani. E questo vale per molte di voi qui oggi, Nere o no. E quella visibilità che ci rende più vulnerabili è anche la fonte della nostra più grande forza. Perché la macchina cercherà di stritolarci comunque, che parliamo o no. Possiamo starcene per sempre nel nostro angolino mentre le nostre sorelle periscono e noi stesse con loro, mentre i nostri figli vengono distorti e distrutti, mentre la nostra terra viene avvelenata, possiamo starcene nel nostro angolino sicuro mute come bottiglie, e non avremo meno paura.

A casa mia quest’anno celebriamo la festa di Kwanza, la festività africano-americana del raccolto che comincia il giorno dopo Natale e dura sette giorni. Ci sono sette princìpi nel Kwanza, uno per ogni giorno. Il primo principio è Umoja, che significa unità, la decisione di conquistare e mantenere l’unità nel sé e nella comunità. Il principio di ieri, il secondo giorno, era Kujichagulia – l’auto-determinazione –, la decisione di definire noi stessi, darci un nome e parlare per noi stessi, invece di essere definiti da altri che parlano per noi. Oggi è il terzo giorno di Kwanza, e il principio di oggi è Ujima – lavoro e responsabilità collettiva –, la decisione di costruire e mantenere noi stessi e la nostra comunità e di riconoscere e risolvere insieme i nostri problemi.

Ognuna di noi è qui ora perché in un modo o nell’altro condividiamo un impegno verso il linguaggio e il potere del linguaggio, e per la rivendicazione di quel linguaggio che è stato fatto funzionare contro di noi. Nella trasformazione del silenzio in linguaggio e azione è vitale e necessario che ciascuna di noi stabilisca o prenda in esame la sua funzione in quella trasformazione, e che riconosca il proprio ruolo come vitale all’interno della trasformazione stessa.
Per quelle di noi che scrivono, è necessario vagliare non solo la verità di quello che diciamo, ma anche la verità del linguaggio con cui lo diciamo. Tuttavia, in primo luogo è essenziale che tutte noi insegniamo con la vita e le parole quelle verità in cui crediamo e che conosciamo al di là della comprensione. Perché solo in questo modo possiamo sopravvivere, prendendo parte a un processo di vita che è creativo e continuo, che è crescita.

E non è mai senza paura; della visibilità, della luce cruda dell’analisi e forse del giudizio, del dolore, della morte. Ma noi ci siamo già passate attraverso tutto questo, in silenzio – tranne la morte. E ormai ricordo costantemente a me stessa che se fossi nata muta, o se avessi mantenuto per tutta la vita un voto di silenzio per stare al sicuro, avrei comunque sofferto, e sarei morta in ogni caso. È un ottimo metodo per rimettere le cose nella giusta prospettiva.

E là dove le parole delle donne gridano per essere ascoltate, ognuna di noi deve riconoscere la propria responsabilità nell’andare a cercare queste parole, nel leggerle e condividerle e prendere in esame quel che hanno di attinente alle nostre vite.

Non nascondiamoci dietro le ridicole separazioni che ci sono state imposte e che tanto spesso accettiamo come nostre, per esempio: “Non posso insegnare la scrittura delle donne Nere – la loro esperienza è così diversa dalla mia” – ma quanti anni hai passato a insegnare Platone e Shakespeare e Proust? Oppure: “Lei è una donna bianca, cosa può mai avere da dirmi?” O: “È una lesbica, cosa direbbe mio marito, o il preside?” O ancora: “Questa donna scrive dei suoi figli e io non ne ho”. E tutti gli altri infiniti modi in cui ci derubiamo di noi stesse e delle altre.

Possiamo imparare a lavorare e parlare quando abbiamo paura nella stessa maniera in cui abbiamo imparato a lavorare e parlare quando siamo stanche. Perché la società ci ha insegnato a rispettare la paura più dei nostri bisogni di linguaggio e definizione, e mentre aspettiamo in silenzio il lusso finale del non avere più paura, il peso di quel silenzio ci soffocherà.

Il fatto che noi siamo qui e che io ora dica queste parole è un tentativo di rompere quel silenzio e di gettare un ponte tra alcune di quelle differenze tra di noi, perché non è la differenza a immobilizzarci, ma il silenzio. E ci sono così tanti silenzi da rompere.