Foreste tropicali, queste sconosciute – Patrick Roberts

Sulla centralità delle foreste tropicali per la storia degli esseri umani e la storia della vita sulla Terra

di: Patrick Roberts

Pubblichiamo un estratto dal libro Giungle. Come le foreste tropicali hanno dato forma a noi e al mondo, di Patrick Roberts, edito da Aboca. Ringraziamo l’editore per la possibilità concessa.

 

 

 

Nel luglio 2019, attraversando il cuore dei neotropici brasiliani, il mio studente Victor Caetano Andrade e io ci difendemmo da serpenti velenosi, da zanzare gigantesche che possono mordere persino la pelle dura dei coccodrilli, e dal calore che, sui nostri occhi, fece scivolare cascate di sudore. Negli ultimi dieci anni il lavoro sul campo nelle foreste tropicali di tutto il mondo mi ha portato dalle foreste pluviali piene di sanguisughe dello Sri Lanka alle foreste secche e facilmente infiammabili dell’Australia, fino alle foreste nebulose del Messico, costeggiate da vulcani. Nulla, però, mi aveva preparato alla vita brulicante, al clima soffocante e all’infinita gamma di sfumature verdi che si succedono lungo il Rio delle Amazzoni, il più grande fiume del mondo per volume d’acqua.

Solo per raggiungere il nostro sito di ricerca e il villaggio che ci ospitava era stato necessario un viaggio di 523 chilometri, una parte in ‘traghetto lento’ (recreio) che aveva richiesto trentasei ore, seguita da un altro viaggio di due ore su una piccola barca aperta, avventura che avevamo intrapreso carichi di numerose scomode scatole piene di attrezzature scientifiche, di un rudimentale kit di attrezzi per la manutenzione in loco, e di ogni tipo di indumento che lo spazio e la forza di volontà restanti ci avevano permesso di portare con noi. Nel corso della sua ricerca estiva, Victor dovette sopportare un attacco di febbre Dengue, una pustola infetta sulla mano della dimensione di una piccola prugna da cui usciva pus, e un guasto al motore dell’aereo durante l’atterraggio in una città locale. Tutto questo probabilmente suonerà familiare a quelli di voi, soprattutto in Europa e Nord America, che hanno conosciuto le giungle solo come ambientazioni di film e romanzi. Dalle prove affrontate e superate da Apocalypto a quelle di Mowgli che corre con gli animali, la maggior parte di noi vede le foreste tropicali come una sorta di terra incognita.

Danno vita a metafore artistiche e forniscono risorse naturali, ma sono ben lontane dalla nostra idea di ‘casa’. Infatti, l’accezione con cui vengono descritte della maggior parte dei libri, delle serie tv e dei blockbuster occidentali ambientati nella giungla, si basa sul fatto che le foreste tropicali siano fondamentalmente inadatte a offrire un ambiente sostenibile e sicuro per le società umane su larga scala.
Questa idea di base caratterizza non solo il pensiero popolare, ma anche quello accademico.

Le foreste tropicali sono spesso ignorate nelle discussioni relative alla storia umana e alla storia della vita sulla Terra. La narrazione dominante riguardo all’evoluzione umana, ad esempio, è che i nostri antenati ominini si sono lasciati alle spalle i pericoli e le misere risorse offerte dalla foresta non appena hanno potuto, spingendosi verso le vaste e aperte savane dotati di nuovi utensili, pronti a sfruttare le ricche opportunità che quegli ambienti avrebbero fornito. [1] La ricerca delle origini della nostra specie, Homo sapiens, e delle ‘rotte’ lungo le quali si è diffusa nel mondo, si è analogamente concentrata sulle vaste e aperte praterie o, in alternativa, sugli insediamenti costieri.[2] Allo stesso modo, i dibattiti sulle origini dell’agricoltura o delle città non coinvolgono quasi mai le foreste tropicali. Le abbiamo considerate ‘improduttive’ e supponiamo che siano dotate di un suolo uniformemente povero, assediate da pericoli naturali mortali, da animali sfuggenti e soggette a un clima estremo, al punto da rendere impossibile lo sviluppo dell’agricoltura e delle città che associamo alla nostra società umana, presumibilmente ‘complessa’. [3] Data l’apparentemente inevitabile devastazione che l’agricoltura industriale e le popolazioni urbane infliggono oggi a questi ambienti, ci si chiede come l’habitat della foresta possa avere sostenuto estese monocolture, vasti pascoli e vivaci metropoli.

Nonostante questa evidenza, i resoconti sulle comunità che vivono nelle foreste tropicali tendono a descrivere piccoli gruppi, spesso ‘isolati’, che si affidano alla caccia e alla raccolta per sopravvivere. [4] Tali presupposti modellano non solo il modo in cui analizziamo la storia delle foreste tropicali, ma anche il modo in cui cerchiamo di proteggerle. Gli approcci conservazionisti tradizionali di tutela delle foreste tropicali partono dal presupposto che gli esseri umani siano banalmente incapaci di viverci in modo sostenibile, e che il modo migliore per proteggerle sia trattarle come ‘zone selvagge’ intatte dal punto di vista ecologico [5], senza la minima interferenza e presenza umana. Anche la parola comunemente usata in inglese per riferirsi alle foreste tropicali – jungle, dalla parola hindi jangal [6] – era originariamente utilizzata per classificare qualcosa che si trovava al di fuori dell’insediamento umano e delle comodità domestiche.
In realtà dovremmo essere scettici riguardo alle storie che ci sono state raccontate così spesso sulle foreste tropicali.

Della spedizione nel bacino amazzonico che mi ha cambiato la vita porto con me due momenti precisi, del tutto inattesi ma molto più intensi di qualsiasi altro vissuto da Victor e me durante la lotta nell’intricata vegetazione. Gli incontri che descriverò non solo evidenziano la longevità e l’intimità delle interazioni umane con questi ambienti naturali maestosi, ma anche il significato che rappresentano nella nostra esistenza, indipendentemente se si vive ai tropici o no.

Primo. Una mattina, mentre ci risvegliavamo cullati dal dolce movimento del vecchio traghetto e dal verso dei parrocchetti, Victor, viaggiatore stagionato di nazionalità brasiliana ed esperto di Amazzonia, aveva indicato le cime degli alberi dicendo: “Presto avvisteremo un villaggio”. Avevo cercato di seguire il suo dito, ma non riuscivo a vedere alcuna traccia significativa di persone o case, e neppure una radura che potesse essere indizio di presenza umana, il luogo pareva soltanto selvaggio e verde. Poi Victor aveva indicato una particolare tipologia di vegetazione che in quell’area sembrava all’improvviso dominare le rive del fiume.

A un esame più attento, in contrasto con il tipo di foresta che avevamo attraversato in precedenza, appariva evidente una densa concentrazione di due particolari piante: palme açai con bacche e alberi di noci del Brasile (o più correttamente ‘noci dell’Amazzonia’). Lavorando a lungo come ecologista e visitando spesso gli insediamenti su e giù per le rive del bacino amazzonico, Victor sapeva che quelle piante fungevano da segnale vivente per indicare la presenza di popolazione umana. Come previsto, un villaggio era emerso pian piano dal denso groviglio della vegetazione sulla riva del fiume. Il villaggio era stato giustamente chiamato Ponta da Castanha (‘punto di alberi di noci dell’Amazzonia’). Come sapevano bene Victor e la gente del luogo, incluso il nostro generoso ospite Jucelino, gli insediamenti che oggi sorgono sulla riva del fiume sono quasi sempre situati sopra aree preistoriche.

In quelle zone, nel corso dei millenni, le antiche comunità umane hanno interferito con l’originaria fertilità della terra e la composizione della vegetazione, tanto che i luoghi attirano ancora oggi i produttori di cibo locali. Se le foreste tropicali amazzoniche erano davvero ‘incontaminate’ e in gran parte svincolate dalla storia umana, come potevo trovarmi in un luogo che aveva visto insediamenti abitativi ripetersi per migliaia di anni?

Secondo. Alla fine della nostra visita, ci eravamo allontanati dalla riva con una piccola barca a motore. Procedendo appena sopra la linea di galleggiamento, disperatamente aggrappati alle attrezzature e al nostro bagaglio che tenevamo in grembo, avevo guardato il cielo. Ciò che avevo visto era una coltre di nuvole in rapido movimento, che veleggiava sopra la foresta amazzonica e sugli insediamenti umani, così vicina da poterla quasi toccare. È stato in quel momento che, forse per la prima volta, ho apprezzato veramente il significato regionale, continentale e globale delle foreste tropicali.

Se queste foreste scomparissero, la perdita dell’acqua che traspira da miliardi e miliardi di foglie trasformerebbe questa coperta di nuvole in uno straccio logoro.
Sono pochi a rendersi conto che le foreste tropicali sono globalmente responsabili di una parte significativa delle precipitazioni di tutto il pianeta. [7] Nel caso del bacino amazzonico, se le foreste tropicali scomparissero le piogge diminuirebbero, non solo localmente ma anche in vaste zone del continente sudamericano.

Grazie alla rete di sistemi di circolazione oceanica e atmosferica che attraversano il globo, anche il clima dell’Europa ne sarebbe influenzato. Queste stesse foreste sono inoltre grandi serbatoi di carbonio: effettuano oltre un terzo della fotosintesi del pianeta, e intrappolano e immagazzinano circa un quarto del carbonio terrestre. Se scomparissero, tutto questo carbonio verrebbe rilasciato nell’atmosfera e, contemporaneamente, una minore quantità di CO 2 verrebbe catturata dalla biosfera. [8] In un contesto in cui è sempre maggiore l’urgenza di affrontare il ruolo delle emissioni nel cambiamento climatico provocato dall’uomo, sono certo che possiate immaginare da voi quali sarebbero le conseguenze sulle temperature globali.

Questi due esempi ci forniscono un punto di partenza per comprendere il ruolo vitale, spesso notevolmente trascurato, delle foreste tropicali sia nella storia umana che nel funzionamento della Terra, ed è ciò che spero di riuscire a mostrarvi in questo libro. Le foreste tropicali non sono ‘inferni verdi’, [9] ostili all’insediamento umano e utili solo per una remota e incessante attività di sfruttamento e deforestazione. Esse possono essere vissute e abitate in modo vantaggioso (cosa che credo metta in discussione i presupposti su cui fondiamo la nostra idea di come le società, le economie e gli insediamenti umani dovrebbero essere organizzati) anzi, data la loro importanza per l’intero pianeta, dovremo trovare tutti dei modi per farlo al più presto. Come archeologo che lavora ai tropici con un approccio multidisciplinare, mi sono reso conto di come le scoperte dei miei predecessori e dei miei colleghi abbiano sempre più evidenziato la flessibilità adattativa dei consorzi umani che vivono in questi ambienti su scala globale, dai nostri antenati più lontani agli abitanti di alcune delle più grandi aree urbane mai esistite prima dell’industrializzazione.

Biologi ed ecologisti da tempo sottolineano l’importanza di questi spazi – i più antichi ecosistemi terrestri del pianeta – per l’evoluzione e il sostentamento della più alta concentrazione di biodiversità vegetale e animale del mondo. [10] Allo stesso tempo i popoli indigeni [11] sostengono che le foreste tropicali hanno un ruolo cruciale per la loro sopravvivenza economica e culturale, così come è fondamentale la loro attività di gestione per il benessere di questi ecosistemi.[12] Alla luce di tutto questo, è quasi incredibile che molti di noi pensino ancora alle foreste tropicali come entità intrinsecamente separate dall’esistenza umana. Siamo felici di sentir raccontare di Tarzan che vive tra gli animali selvatici, di assistere alla ricerca di città ‘perdute’ da parte di esploratori con difficoltà di orientamento, e anche di lasciarci ammaliare dai toni soavi di David Attenborough mentre descrive un favoloso uccello esotico che cerca di fare colpo su una compagna poco impressionata dal suo aspetto.

Tuttavia, la lontananza, la diversità biologica e la scomparsa sempre più massiccia delle foreste tropicali, pur affascinandoci e scioccandoci al contempo, sembra scollegata dalla vita quotidiana della maggior parte di noi. Anche quando ne invochiamo la tutela, tendiamo a richiedere che gli esseri umani ne siano allontanati, invece che cercare modi in cui possano viverci insieme. I problemi che queste aree affrontano oggi sono senza dubbio toccanti, ma la loro apparente distanza, l’isolamento e l’esotismo alla fine ci permettono di ignorarli troppo spesso.

 

 

 

[1] Domínguez-Rodrigo M., Is the “Savanna Hypothesis” a dead concept for explaining the emergence of the earliest hominins?, in “Current Anthropology”, 2014, n. 55 (1),
pp. 59-81.
[2] Mellars P., Why did modern human populations disperse from Africa ca. 60,000 years ago? A new model, in “Proceedings of the National Academy of Sciences of the
United States of America”, 2006, n. 103, pp. 9381-9386.
[3] Meggers B.J., Amazonia: Man and Culture in a Counterfeit Paradise, Harlan Davidson, Illinois 1971.
[4] Turnbull C., The Forest People: A Study of the Pygmies of the Congo, Simon & Schuster, New York 1961.
[5] Watson J.E.M., Evans T., Venter O., et al., The exceptional value of intact forest ecosystems, in “Nature Ecology & Evolution”, 2018, n. 2, pp. 599-610.
[6] Ghazoul J., Forests: A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2015.
[7] Spracklen D.V., Arnold S.R., Taylor C.M., Observations of increased tropical rainfall preceded by air passage over forests, in “Nature”, 2012, n. 489, pp. 282-285.
[8] Malhi Y., The carbon balance of tropical forest regions, 1990-2005, in “Current Opinions in Environmental Sustainability”, 2010, n. 2, pp. 237-244.
[9] Curry A., “Green hell” has long been home for humans, in “Science”, 2016, n. 354, pp. 268-269.
[10] Pimm S.L., Raven P., Extinction by numbers, in “Nature”, 2000, n. 403, pp. 843-845.
[11] In tutto questo libro uso Indigeni con la “I” maiuscola per riferirmi a popoli, conoscenze, comunità, storia, gestione del territorio e organizzazione degli insediamenti indiani. Dove possibile cito il nome che una data comunità indigena usa per se stessa. Uso indigeno con la “i” minuscola solo per riferirmi a piante e animali endemici di una data regione.
[12] Roberts P., Buhrich A., Caetano-Andrade V.L., et al., Reimagining the relationship between Gondwanan forests and Aboriginal land management in Australia’s “Wet
Tropics”, in “iScience”, 2021, n. 24, doi.org/10.1016/ j.isci.2021.102190./