Fare didattica tessendo relazioni, anche con la DAD

I corpi e le voci degli insegnanti nella didattica a distanza

di: Valentina Moiso, da Il Lavoro Culturale

Valentina Moiso

 

Sono nel Consiglio di istituto della scuola di mio figlio, ieri durante la riunione telematica è arrivato un pugno allo stomaco, una pillola di saggezza. Si stava discutendo della didattica a distanza (DAD) quale strumento di continuità educativa. La questione è ampiamente dibattuta (tra le prime voci critiche, Chiara Saraceno), ci sono linee guida internazionali, pedagogisti, associazioni e fondazioni che mettono a disposizione competenze e fondi. Ma a cosa vogliamo dare continuità? Durante la videoconferenza del Consiglio – tutti collegati da casa, negli studi, dal tavolo della cucina – una mamma prende la parola, e squarcia il velo: come sono rappresentati i nostri figli nel dibattito pubblico? Cosa si sta, di conseguenza, legittimando sulla loro pelle? Sono untori, da tenere ben chiusi anche in case piccole, malsane, o dense di violenza, ignorandone gli innegabili bisogni dello sviluppo psicomotorio. Passiamo dal tecnico al filosofico, ci esorta la mamma: i nostri figli stanno facendo l’esperienza del vuoto. Come i disoccupati. La perdita dei punti di riferimento che strutturano la nostra vita quotidiana. Quante volte abbiamo detto che la scuola per i nostri piccoli è come un lavoro? Otto ore al giorno scandite da orari regolari, a cui dedicarsi, riuscire, a cui e grazie a cui trovare un senso.

Queste considerazioni aprivano a una richiesta specifica: lasciare che gli insegnanti trovassero il modo migliore per fare davvero didattica. Nella DAD le intelligenze degli insegnanti sono state impiegate nel proporre contenuti relativi al programma scolastico, o all’intrattenimento dei bambini a casa: vanno in questa direzione le lezioni on-line e le attività rese disponibili ai genitori sui siti delle scuole. Ma non dimentichiamo il contenuto basilare, fondamentale – nel senso più etimologico possibile – della didattica, dell’attività educativa intesa in senso ampio e profondo: la crescita emotiva, la costruzione di una relazione di fiducia insegnante-allievo, il consolidamento del gruppo classe. Questioni di spessore, che si rifanno al senso profondo dell’essere e del fare l’insegnante, nonché al riconoscimento, la valorizzazione e la messa in campo della loro professionalità. Oppure frivolezze che passano in secondo piano nell’emergenza in atto? È probabile che oggi molti la pensino così: guardiamo a come veniva valorizzata la professionalità degli insegnanti a livello istituzionale prima del Covid-19. L’incertezza su tempi e modalità dei concorsi, il precariato spinto e il conseguente turn-over che non permette continuità, non facevano pensare a risorse umane preziose, da trattare con dignità e rispetto. Se poi ricordiamo le chiamate tramite graduatorie di diplomati e laureati senza specializzazione specifica a coprire ore di insegnamento o addirittura il sostegno a disabili, abbiamo ancor più idea di cosa i governanti pensino del grado di difficoltà con cui si acquisisce una professionalità nel campo dell’insegnamento. Quindi, in epoca Covid-19, cosa vogliamo di più che tante pillole di attività, compiti, correzioni via e-mail e magari anche qualche votazione in modo che si possa attestare con i numeri (rendicontare) che l’attività educativa è stata svolta in tutte le sue declinazioni tradizionali? D’altra parte, non ci sono entusiasti della didattica a distanza anche nell’università, che parlano di una nuova via per l’insegnamento aperta per gli anni a venire? E basta, con queste frivolezze da fricchettoni disfattisti.

Ritorniamo all’esperienza del vuoto dei nostri alunni privati della scuola in presenza. Chi ha figli in casa ha esperienza diretta che non è colmata da video caricati on-line. In quarantena ho visto con preoccupazione un figlio prima entusiasta della scuola calciare ovunque quando era l’ora dei compiti, senza voglia, immune agli stimoli, per poi scoprire che la sua condizione è trasversale. A ogni età. Ma si rianimano, eccome se si rianimano, quando si collegano on-line, se in collegamento c’è chi li aiuta a ritrovare quel senso nella scuola: un insegnante, perno intorno a cui costruire una sana relazione tra pari, guida che accompagna nel definire il proprio ruolo lungo le interazioni, tessendo relazioni, in quella che è una prova di come ci si muoverà in società da adulti.

Perché un insegnante sa che la maieutica inorridisce di fronte al nozionismo. Sa che è diritto di bambini e bambine, ragazzi e ragazze non essere riempiti, ma aiutati a liberarsi, definirsi, trovare i contorni del proprio ruolo nello spazio sociale che li circonda.

 

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