Corpi mutanti e cattive ragazze – Rosi Braidotti

In questo nostro terzo millennio, la soggettività è un luogo paradossale, un complesso teatro ove giocano molteplici intrecci sociali, simbolici, discorsivi, economici e politici. Il corpo oggi non è più intero

di: Rosi Braidotti

Pubblichiamo un estratto dal libro Materialismo Radicale, di Rosi Braidotti (a cura di Angela Balzano), edito da Meltemi Editore nella collana Culture radicali. Ringraziamo l’editore per la possibilità concessa.

 

In questo nostro terzo millennio, la soggettività in generale, e quella sessuata al femminile in particolare, è un luogo paradossale, un complesso teatro ove giocano molteplici intrecci sociali, simbolici, discorsivi, economici e politici. Il corpo oggi non è più intero, si situa a cavallo di una molteplicità di strati, di pratiche e di discorsività materiali. Essere incarnate/i significa essere soggetti situati, capaci di inscenare una serie di (inter)azioni discontinue nello spazio e nel tempo. Foucault ha analizzato le nuove soggettività emergenti con grande lucidità, intendendole come un nodo di rapporti di potere e sapere in bilico tra l’inflazione discorsiva e l’assenza di sostanza.
Ci troviamo infatti ad affrontare una contraddizione con non poche conseguenze: la simultanea scomparsa e sovraesposizione del corpo, cioè l’eccessiva esibizione di sé ma anche la perdita di sostanzialità. Il corpo come fattore costituente della soggettività diventa il luogo in cui si sovrappongono codici culturali e pratiche discorsive molteplici e contraddittorie. Per una lettrice ironica, ma attenta, della storia della filosofia occidentale, il corpo è: il peggior incubo di Cartesio, la fonte di speranza di Spinoza e l’origine della protesta in Nietzsche, l’ossessione di Freud, la fantasia preferita di Lacan e la più stridente omissione di Marx.

Il corpo è la carne che nutre tutto il nostro sistema di rappresentazione mediatica e televisiva, materia in cui si inscrivono flussi di capitale e riterritorializzazioni del desiderio. Tuttavia, il corpo è anche luogo di scommesse e lanci di dadi, spazio di autodeterminazione, zona di conflitto e negoziazione. In un certo senso è sempre stato così, ma l’ampio raggio di possibilità dischiuso dalle bio-info-tecnologie sembra avere aumentato le capacità metamorfiche dei corpi. La direzione non è però tracciata sin dall’inizio ed è perciò utile procedere con chiarezza.
Mi dichiaro da subito lontana dall’euforia del postmodernismo incalzante, che considera la tecnologia avanzata e soprattutto il cyber-spazio come motori di cambiamento; al contempo prendo le distanze dai troppi profeti della rovina, che piangono il tramonto dell’umanesimo classico. Il desiderio nostalgico per un passato, supposto migliore, è una risposta sbrigativa e assai poco intelligente alle sfide della nostra epoca. Non soltanto è inefficace dal punto di vista culturale, nella misura in cui si riferisce alle condizioni della propria storicità semplicemente negandole, ma è anche una scorciatoia che permette di evitare la loro complessità.
Al contrario, io intendo la postmodernità come qualcosa di più complesso, più gioioso e infinitamente più inquietante; siamo sulla soglia di nuovi e importanti ri-posizionamenti anche e non solo della pratica culturale. Una delle pre-condizioni più significative di queste nuove posizioni sta nel rinunciare sia alla fantasia di infinite reincarnazioni virtuali sia all’attrazione fatale della nostalgia. È necessaria una buona dose di neo-materialismo. Questo libro si nutre, dunque, delle teorie dell’immanenza radicale o del materialismo carnale tipico della tradizione filosofica francese, delle filosofie femministe della differenza e dei movimenti cyborg alternativi.

In quanto donna, vale a dire in quanto soggettività emergente da una storia di oppressione ed esclusione, direi che la crisi dei valori convenzionali in corso non è una tragedia, sembra al contrario offrire interessanti risvolti positivi. Per le femministe, la crisi della modernità non è affatto un salto melanconico nella perdita e nel declino, poiché rappresenta una gioiosa apertura a possibilità nuove. Laddove la cultura dominante si rifiuta di piangere la perdita delle certezze umanistiche, produzioni culturali minori come il cyberpunk, la cultura musicale nel suo insieme e il mondo in rete mettono in rilievo la crisi e ne sottolineano il potenziale per soluzioni creative.
Queste pratiche culturali coltivano un’etica di lucida autocoscienza. Tra le persone con un più vivo senso etico nella postmodernità occidentale vi sono proprio le/gli scrittrici/ori di fantascienza che si concedono il tempo di fermarsi a riflettere sulla morte dell’ideale umanistico dell’“Uomo”, inscrivendo questa perdita, e l’insicurezza ontologica che ne segue, al cuore della cultura contemporanea. Nel tentativo di trasporre in simboli la crisi dell’umanesimo e del suo soggetto unico, questi spiriti creativi, seguendo Nietzsche, spingono la crisi verso la sua risoluzione più interna e intima. Così facendo, inscrivono la morte in cima al programma culturale postmoderno e strappano via il velo di nostalgia che copre le inadeguatezze del (dis)ordine culturale contemporaneo.
Le cyber-femministe, ad esempio, non si limitano a elaborare schemi concettuali, ma danno vita a vere e proprie figurazioni immaginarie che rappresentano una corporalità completamente attraversata dal fattore tecnologico, ormai diventato seconda natura. Inoltre, vi sono illustri filosofi della soggettività postumanistica, come Deleuze, che cercano schemi di raffigurazione del soggetto in grado di eccedere i parametri della razionalità logocentrica: pensare in diagrammi, cartografie o etologie, invece di ripetere un modello di rappresentazione fondato sull’identità, la coscienza e l’auto-riflessione. Anche se questo dovesse condurci a esplorare fino in fondo la nostra tecno-mostruosità.

Corpi mutanti

Nel linguaggio non nostalgico né euforico del nomadismo, il corpo è una fetta di carne attivata dalle scosse elettriche del desiderio; oppure è un tessuto composto dallo svolgimento e dal capovolgimento del codice genetico. Né sacro spazio interiore, né entità puramente sociale, il soggetto corporeo nomade è un luogo di transizioni e trattazioni: è uno spazio intermedio, dove si attivano affetti e si strutturano influenze che spiazzano la distinzione tra l’interno e l’esterno del soggetto.
Il corpo è un’entità dinamica e mobile, dotata di una memoria incarnata, un’intelligenza della materia carnale che, come insegna Bergson, è collegata alla memoria, cioè alla capacità di ricordarsi. Ricordare vuol dire saper ripetere, ritrovare nello spazio incarnato del tempo vissuto: è una forma di ripetizione vitale che non deve nulla alla coscienza e tanto invece alla sensibilità. Il corpo è quella materia dotata di memoria che, grazie alla capacità di ricordare e quindi di ripetere, riesce a restare fedele a se stessa, attraverso i molteplici cambiamenti e le varie influenze subite.
La facoltà che consiste nell’essere “fedeli a se stesse/i”, non deve essere letta nel senso di una dipendenza – più o meno sentimentale – dalla propria identità nel senso psicologico del termine. Io non la riallaccerei neanche alle interminabili discussioni sull’autenticità del sé. Fa invece parte di un diagramma della soggettività fondata sul concetto di durata, cioè di sostenibilità nel tempo e nello spazio.
Il soggetto nomade d’oggi è un apparato di forze o di affettività e d’influenze storiche e sociali, che è capace di reggersi (nello spazio) e di consolidarsi (nel tempo) all’interno di quella configurazione singolare detta anche “individuo”. È una porzione di forze in equilibrio rispettivo e reciproco che permettono di attraversare processi più o meno complessi di trasformazione e di divenire. È un campo di affetti trasformativi e di cambiamenti d’intensità che dipendono dalla capacità di sostenerli.
Il soggetto nomade è un sistema sostenibile, ma il fatto che sia attivo, dinamico e in divenire non impedisce che abbia i suoi limiti. Infatti, i limiti – di spazio e di tempo – di cui soffre il corpo, definito dal confine della pelle e dalla mortalità come fattore interno ed esterno, tracciano anche i suoi percorsi possibili. Contenere i flussi affettivi, o le influenze e i campi di percezione è un prerequisito per poterli poi sostenere e quindi vivere. Questa nozione di soglie di sostenibilità e di tolleranza è essenziale come antidoto al riflusso nichilista della filosofia contemporanea (Baudrillard 2015), che spesso tende a fare del corpo un’entità manipolabile all’estremo e quindi priva di limiti e discipline interne.
Il materialismo radicale che difendo, invece, propone il corpo come insieme sostenibile. Il ritmo, la velocità e la selezione degli elementi costitutivi sono essenziali al progetto di auto-perpetuazione, che poi altro non è che ripetizione, cioè memoria attiva. Questa fede nell’intelligenza corporea e nei suoi limiti, come nei suoi ritmi di ripetizione, è fondamentale anche per capire in che senso le generazioni che si ispirano a Deleuze si siano staccate dalla psicoanalisi lacaniana, a favore di un paradossale ritorno a teorie forse più classiche, ma sicuramente più ancorate alla materia corporea.
Jacqueline Rose (1993) analizza questo cambiamento come un ritorno a Melanie Klein e una riapertura della querelle fra Klein e Freud sulla sessualità femminile e sulla pulsione di morte delle donne. Io penso che sia proprio in questo contesto che si debba situare l’esplosione d’interesse per le teorie rizomatiche di Gilles Deleuze anche, ma non solo, nel femminismo (Braidotti 2003; 2008). Deleuze, ancor più di Irigaray, non ha lesinato critiche alla psicoanalisi, su punti che considero cruciali. Deleuze ci ricorda infatti che il simbolico (di Lacan) perpetua una visione metafisica del desiderio, che lo collega alla negatività e alla mancanza.
Nessuna traccia, dunque, in Lacan di una visione positiva del desiderio come pienezza e abbondanza. Inoltre, Deleuze e Guattari (1975, 2006) evidenziano il lacaniano diniego del corpo e l’eccessiva attenzione per i meccanismi di un simbolico fallico assai disincarnato. E infine, come non passare al vaglio della critica la negazione del femminile, ridotto ad assenza simbolica in un regime fallologocentrico. Il clima intellettuale odierno mi sembra essere in totale rottura con le formule simboliche di Lacan.

A livello sociologico e su scala mondiale il corpo, nel suo spessore fisico più diretto e vulnerabile, è tornato al centro della scena. Farò alcuni esempi per essere più chiara. Si calcola che quasi tre milioni di donne nel solo 2014 si siano sottoposte a chirurgia estetica al seno, ricorrendo per lo più a protesi di silicone, nonostante siano da tempo noti gli effetti collaterali di medio luogo periodo. L’uso del Prozac o di altre droghe che stabilizzano i cambiamenti dell’umore è lievitato: nei paesi con PIL più alti un adulto su 10 fa uso di antidepressivi.
L’epidemia diffusa di anoressia/bulimia continua a colpire un terzo delle donne del mondo ricco e tra i molti disturbi psichiatrici i disordini alimentari sono tristemente noti per la percentuale di mortalità più elevata. In generale, nonostante le retoriche occidentali sul corpo in perfetta salute, le malattie che mietono più vittime, oggigiorno, non sono solo i grandi sterminatori, come il cancro e l’AIDS, ma anche i virus più antichi, che credevamo di aver domato, come la tubercolosi e la malaria. I nostri sistemi immunitari si sono semplicemente adattati e ci hanno di nuovo resi vulnerabili (Cooper 2013).
In un contesto storico e geo-politico completamente biomedicalizzato mi sembra ovvio che quello che continuiamo a chiamare, specialmente nel femminismo, “il nostro corpo, noi stesse”, è in realtà un insieme tecnologico quasi virtuale, completamente immerso nell’industria psicofarmaceutica, nella bioscienza e i nuovi media. Il che non lo rende meno corporeo, né meno parte di noi stesse, ma complica assai l’analisi necessaria a comprendere in maniera adeguata la soggettività corporea che abitiamo. Siamo già dei tecno-mostri.

Nel bel mezzo del clamore tecnologico attuale, che tende a svalorizzare la materia corporea e a celebrare molteplici corpi virtuali, dobbiamo ritornare a terra. È necessario valutare con calma e lucidità le promesse di perfezione prostatica che la cultura attuale sembra offrire in cambio della nostra immersione nelle nuove tecnologie.
Dobbiamo tornare a pensare il corpo nella sua radicale materialità, nella sua immanenza, nella sua sostenibilità e nella sua complicità con i regimi tecnologici. Credo che una società così affascinata dalle tecnologie e dall’immaginario mostruoso e/o postumano, necessiti semplicemente di nuovi schemi concettuali e nuovi parametri etici.
Per evitare gli slittamenti verso il nichilismo che potenzialmente ci attende, ci serve una nuova ondata di passione politica. Ci serve passione per uscire dalla crisi dell’energia politica affermativa e trasformativa, detta anche “rivoluzionaria”, da quelli che l’hanno vissuta in prima persona, e “ideologica”, da quelli che ne hanno solo sentito parlare. Penso davvero che questa energia verrà dai nuovi tecno-mostri, cioè sarà postumanistica.