Classe dirigente. Sì, ma verso dove?

Prima di precipitarsi a formare la nuova classe dirigente, dobbiamo domandarci come e dove dirigersi. L'arte ci viene in aiuto perché mette a disposizione della comunità la propria libertà e responsabilità.

di: Paolo Naldini

Paolo Naldini
 

Il dibattito sul Corriere della Sera, avviato da Ferruccio de Bortoli, e ripreso in un bell’intervento di commento di Patrizia Ghiazza, riguarda il fondamentale tema del rapporto tra la formazione e i bisogni sociali.

La generazione al potere, come è ovvio, coltiva la legittima presunzione di conoscere la risposta alle domande fondamentali, per esempio: che cosa importa? Che cosa è rilevante?

Queste domande arroganti e vagamente platoniche, spesso restano sottotraccia e si presentano a noi invece le loro cugine: Che cosa serve? Che cosa manca? Come cambiare il meno possibile, visto che cambiare si deve?

Nel contesto della pedagogia, una formulazione probabilmente valida di queste istanze potrebbe essere: Dimmi quali bisogni avverti come primari, e ti dirò quale formazione per la nuova generazione meglio si confaccia al tuo caso.

Non stupirà che prevalga anche in questo ambito la logica problem solving, tendenzialmente orientata agli aggiustamenti. Questa, quand’anche accolga il pensiero fuori dal contesto (cosiddetto out of the box), frequentemente si applica alla realtà già interpretata, ossia senza mettere in discussione l’interpretazione della stessa.

Una motivazione di questa egemonia è legata a una delle regole auree del mercato liberista, cioè che la domanda (esperienza) definisca il contesto in cui muoversi e a cui rispondere, di vaga derivazione pragmatista. Applicandosi alla realtà sociale, dunque, si dice (o si dà per sotto-inteso): i bisogni espressi sono la la realtà, la questione è come rispondere. Se me lo chiedi allora vuol dire che per te è rilevante; dunque te lo fornirò.

La soggezione alla domanda espressa in tempi di accelerazione e mutamento nasconde insidie sottili. Soprattutto perché mancano gli strumenti per anticipare i cambiamenti dell’umore e delle priorità delle persone, tanto più che loro stesse non sanno più che cosa vogliono. Anche negli anni ’80 non eravamo fortemente convinti della nostra autonomia di pensiero critico e creativo, ma non fu un dramma per molti, poiché le scelte ci venivano suggerite con avvincimento e convincimento dalle narrazioni dello sviluppo liberista e dell’umanesimo liberale. Come si sa, queste ebbero la meglio contro quelle dell’umanesimo socialista e il mondo trovò le risposte alla domanda che cosa ti occorre? (cugina portabandiera della famiglia delle domande fondamentali, quindi, portavoce occulta della domanda Che cosa importa?) nei cataloghi dei consumi illustrati dall’industria dei media, sempre meno veicolatrice di idee e sempre più modellatrice di tendenze di consumo, anche culturale ben inteso.

Supponiamo di emanciparci dunque da questa guida tutoriale da parte della produzione di beni da consumare, e di incontrare la domanda che cosa è rilevante? O anche una parente come ad esempio che cosa occorre alla nuove generazioni perché assumano una leadership idonea ad affrontare le sfide del prossimo futuro, anzi già del presente?

Per la verità, non è obbligatorio arrivare a questo confronto del tutto impreparati. Potremmo invitare alla conversazione per esempio Martha Nussbaum e le sue “capacità umane”. Oppure fare appello a grandi classici e accompagnarci con Aristotele e l’eudaimonia, per non scomodare Epicuro e incappare in fraintendimenti difficilmente estirpabili oramai. In effetti, potremmo organizzare un’assise assai nutrita e farci dare una mano da numerosissimi consiglieri.

Probabilmente sarebbe saggio rivolgersi anche ai consessi e alle assise già convenute oggi stesso per lo stesso motivo movente di fondo; per esempio, il movimento fridays for future o black lives matter. Entrambi hanno messo a punto risposte, e talvolta pure proposte. Come pure decine, centinaia di organizzazioni che si occupano di queste istanze, come ad esempio il movimento transition towns.

Se dovessimo assumere dunque la responsabilità di una posizione autonoma – ma non certo disinformata – saremmo di fronte alla straordinaria ricchezza del pensiero umano. Tuttavia molti se ne sentirebbero persino sopraffatti. Da dove iniziare? Che cosa privilegiare? Già solo per dotarsi degli strumenti per affrontare la domanda, servirebbe una formazione profonda e certamente impegnativa.

Un tempo si sarebbe detto (da parte dei cosiddetti leader a cui fa riferimento il dibattito da cui siamo partiti) che questa prospettiva avrebbe configurato un lusso insopportabile: le ragioni della produzione e della grande corsa al progresso erano tanto impellenti che la sola idea di fermarsi a riflettere costituiva un germe di sovversione, tollerabile tutt’al più presso i coltivatori dell’otium accademico i cui risultati in termini di impatto sociale e rilevanza per il bene comune non sono mai stati (a loro giudizio per lo meno) del tutto convincenti…

Ora che l’imbarazzo della decisione di fermarsi (o meglio: soffermarsi) è stato assunto dalla rivolta della natura (climate change, superamento della soglia del 50% delle risorse non rinnovabili disponibili, crisi ambientale e demografica… i sette pianeti, per dirla con Bruno Latour), e addirittura da una pandemia, siamo nella fortunata condizione di poter – dover rispondere alle fatidiche domande di cui sopra.

E ci rendiamo conto che la scuola che serve è proprio questa: come affrontare queste domande.

Così siamo tornati al punto posto in avvio di questo intervento, cioè al dibattito inerente la classe dirigente. Dirigente dove? parrebbe di sentir chiedere da parte delle migliaia di giovani e non giovani che rispondono con manifestazioni e – in alcuni casi – con azioni manifeste.

Come fare?

Lo sforzo cognitivo così come quello creativo di una scuola fondata su questa premessa è enorme.

Come spesso accade, guardare la realtà in faccia non è immediatamente accomodante, né rassicurante. Ad essere radicali si rischia di perdere tempo, pare di sentire rispondere, quando occorrono risposte immediate. Vero, ma le istanza radicali, per quanto complesse e impegnative, sono tuttavia essenziali. Per rendersene conto basterebbe porre caso all’etimologia dell’espressione radicale: ciò che impatta le radici di una pianta, per quanto sotterraneo, colpisce tutto l’organismo e – come ricorda Emanuele Coccia nella Vita delle Piante – non si limita nemmeno a esso stesso, ma tende a raggiungere la comunità intera, o la loro Nazione.

Prima dunque di precipitarsi a formare la nuova classe dirigente, possiamo e dobbiamo a domandarci dove e come dirigersi.

Non basta naturalmente una disciplina da sola ad affrontare questa sfida. Come si sa, occorre inter-disciplinarietà e trans-disciplinarietà. La filosofia, la scienza o la politica, per non parlare di quel che resta della religione, provano da sempre a creare lo spazio per la convergenza delle discipline. L’arte contemporanea anche, e sempre più spesso, si cimenta in questo esercizio, in alcuni casi con un approccio programmatico e un vero progetto utopistico, vedi il Manifesto di Progetto Arte di Michelangelo Pistoletto (1994) e la Cittadellarte, nome d’arte dell’eponima Fondazione nata in Biella negli anni ’90. L’arte mette a disposizione della comunità – dunque propone di costituirne bene comune – la propria assoluta libertà, autonomia, responsabilità: triade guadagnata nella modernità dall’impressionismo e Duchamp e rinegoziata con l’arte povera, l’educational turn e le pratiche socialmente impegnate, pur con le costanti contraddizioni di un’affiliazione allo spirito del capitalismo individualistico e consumistico.

E proprio Cittadellarte nasce come scuola. Appunto, un laboratorio di pensiero e pratiche di impegno a una rinascita quotidiana e mai definitiva, capace, come la scienza, di avanzare per trasgressione (confutazione e superamento), e non per tradimento (rinnegamento e conversione).

Su cosa fondare questa scuola dove l’arte assume il ruolo centrale di costruire i vasi comunicanti, nella confidenza che la gravità e la fluidità faranno il loro dovere, permettendo al contenuto dei diversi vasi di mischiarsi e riequilibrarsi? Su cosa regge la presunzione che l’arte possa addirittura aiutare a orientare la società nel suo complesso? Una nuova Santiniketan tagoriana, cui lo stesso Amartya Sen deve la propria formazione? O una nuova Bauhaus, in questo tempo in cui tutto deve essere riprogettato, dagli oggetti ai servizi alle (bio)politiche? O un’altra Black Mountain College? una contemporanea Frei International University? O piuttosto una School of life, una Singularity University, una School of Engaged Art, una Pukar? O una sintesi di tutto ciò e delle altre esperienze, alcune raccolte (appunto per la scuola di Cittadellarte) dalla ricerca di Silvia Franceschini, Politics of Affinities. Experiments in art, education and the social sphere, Cittadellarte Edizioni, 2018?

Questa scuola è fondata sul radicale quanto sull’epidermico, cioè sulla consapevolezza che la forma è etica, medium e messaggio. Nasce negli anni ’90 a Cittadellarte. Oggi assume visibilità e centralità, in quanto dilaga la consapevolezza dell’insufficienza della visione e delle competenze fornite da modelli educativi adeguati a mondi obsoleti.

Oggi dunque diventa Accademia di alta formazione formale, ereditando la storia di 20 anni di sperimentazione e progetto di UNIDEE, nata e tuttora in corso come esperienza di formazione informale.

Una scuola in cui imparare ad affrontare, di concerto con ogni disciplina e campo del sapere e del fare, le domande radicali e le loro cugine, nella consapevolezza che in futuro esse affioreranno non già ad ogni crisi epocale, né ad ogni generazione o ogni dieci anni, ma piuttosto accompagneranno la vita quotidiana: la precessione tecnica e l’intelligenza artificiale, la globalizzazione e i suoi discontents (parafrasando Freud), la questione del clima come cardine di un nuovo rapporto con il pianeta, il non-umano e le ontologie orientate all’oggetto… comportano che non esista nozione o corpus disciplinare, né per questo inter-multi-transdisciplinare capace di stand to the job. Occorre infatti assumere la veste di discente sempre e costantemente, e praticare in presenza di maestri ignoranti capaci di abilitare l’apprendimento in ogni luogo e tempo. Solo se dotate di questa sottile e ri-evoluzionaria attitudine, le nuove generazioni potranno guidare se stesse nell’abitare i luoghi della pratica e del governo concreto del reale, le ecologie di pratica mutuate da Etienne Wenger, dove la nostra possibile convivenza col pianeta e gli uni con gli altri di fatto si negozia ogni giorno. Ciò che questa scuola assume come vision di fondo, espressa dal neologismo demopraxia: nella pratica privata dell’essere individuo e cittadino responsabile e creativo, si esprime l’unica possibilità di riappropriazione della sfera pubblica, dis-intermediata e costantemente apprendente, esattamente come l’intelligenza artificiale che ci accingiamo a introdurre in ogni angolo della nostra vita.

Scuole come l’Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto sorgeranno ovunque, in plurime forme diverse, autonome e interconnesse, integrando le esistenti strutture formative, ma anche produttive, dell’amministrazione, della cura, della mediazione; è il nostro auspicio tanto quanto il nostro progetto.

La pandemizzazione dell’apprendimento continuo e fondato sulla responsabilità del fare e del creare rappresentano l’unica possibilità per affrontare le sfide già giunte a noi.

Ogni luogo, ogni organizzazione della società civile, può assumere questa vocazione e trovare non solo senso, ma pure prosperità in questo ruolo di produzione del reale sulle basi dell’autonomia e della responsabilità.

Dovremo non solo preparare le nuove generazioni a questo scenario, e prepararci noi con loro esattamente nello stesso modo, ma anche progettare i modi per aggregare alle istituzioni esistenti (e a quelle che saranno create) le ecologie di pratica, neuroni di un’intelligenza senziente che attraversa la materia organica e l’inorganica senza cambiare registro: rispetto, ascolto, interazione, integrazione, creazione.