La relazione mobile tra l’arte, il suo spazio e il suo pubblico

Nella riflessione riguardante l’arte del presente, uno di temi più coinvolgenti, complessi e carichi di implicazioni è il rapporto tra arte e sfera pubblica.

di: Gabi Scardi

Nella riflessione riguardante l’arte del presente, uno di temi più coinvolgenti, complessi e carichi di implicazioni è il rapporto tra arte e sfera pubblica. Pubblico è infatti già di per sé un termine polisemantico, e il concetto di spazio pubblico in quanto spazio inclusivo, di “tutti”, si rivela sempre più nella sua ambiguità. Gli artisti stessi, estremamente attenti al tema, si sono resi conto da tempo di questa complessità. Nel 1990 Vito Acconci, tra coloro che precocemente e con maggiore consapevolezza hanno voluto usare l’espressione “arte pubblica”, intitolava un suo illuminante scritto Lo spazio pubblico in un tempo privato”.1

Di fatto la relazione tra l’arte, il suo spazio e il suo pubblico è sempre stata mobile. Alla necessità di un’inesauribile rielaborazione concorrono macro-fattori quali i cambiamenti dell’assetto sociale e politico e della modalità della comunicazione di massa: questi fattori modificano profondamente le condizioni e la percezione di ciò che si definisce “pubblico” e “spazio pubblico”.

Se riguardo a questi temi la letteratura critica è vastissima, può valere la pena di tornare anche a guardare alle fondamenta; più in particolare alla figura di John Deweyfilosofo e riformatore statunitense che sul valore pubblico dell’arte ha molto insistito.

Per farlo è possibile prendere spunto da un libro, Dewey for Artists2, scritto da Mary Jane Jacob, figura di riferimento nel campo dell’arte contemporanea, docente, teorica e curatrice di progetti che hanno costituito veri e propri momenti di svolta nella pratica dell’arte, e in particolare dell’arte pubblica, degli ultimi decenni. Negli ultimi anni Jacob ha dedicato al pensatore un’ampia riflessione.

La riflessione di Dewey sull’arte prende corpo cento anni fa; il seminale Art as Experience risale al 1934. Eppure, il suo pensiero sul ruolo dell’arte in seno alla società non solo ha costituito la base per il percorso di avvicinamento tra arte e vita intrapreso da molti artisti occidentali a partire dagli anni Sessanta, ma rappresenta ancora oggi la radice, più o meno consapevole, di tanti interventi afferenti la sfera pubblica e più in generale alle pratiche sociali partecipate.

Il concetto di arte propugnato dal filosofo ha avuto un’influenza duratura sugli sviluppi di un’arte sensibile alle tematiche condivise e su politiche culturali che vedono nella ricerca artistica un modo per stimolare la crescita emotiva e cognitiva e la formazione di soggettività atte a vivere in un mondo in perenne trasformazione.

Dewey intende l’arte come esperienza che, nel suo insieme inscindibile di pratica e di poetica, contribuisce a conferire significato, consapevolezza e senso di apertura all’esistenza. Per questo ritiene che essa debba avere un ruolo centrale nella vita individuale e collettiva. C’è infatti una connessione organica tra esperienza estetica e crescita personale e sociale: tramite l’esperienza estetica l’individuo si forma e affina qualità come empatia, attenzione, senso della partecipazione, attitudine alla comunicazione, la capacità di sottrarsi alle nozioni preconcette, di connettersi con sé stesso, con gli altri intorno a sé e con il mondo; con il suo presente. “To improve the world one must be situated in it, attentive and active; one must be worldy, indeed, worldliness is an essential feature of ethics.” L’arte, dunque, scaturisce dall’esperienza dell’individuo nel mondo e al mondo torna, in termini di valore immaginativo, emozionale, sociale.

Il rapporto inscindibile che Dewey, che si è trovato a vivere una parte attiva della propria esistenza nell’epoca dei totalitarismi, istituisce tra cultura, individuo e società coinvolge anche l’istituzione, che per lui è democratica per antonomasia: l’istituzione esiste in uno stato perenne di ripensamento, di verifica, di divenire; pena l’involuzione. Quel particolare tipo di esperienza che è l’arte costituisce appunto uno stimolo all’elaborazione permanente e un antidoto a questa involuzione. La spinta a impegnarsi, la capacità di percepire e di accettare l’alterità, di comunicare e di cooperare sono tra le caratteristiche che l’arte e l’esperienza estetica favoriscono, contribuendo così alla costruzione e al mantenimento di un senso di cittadinanza attiva e sensibile/responsiva delle istituzioni democratiche.

Il libro evidenzia l’impegno che Dewey stesso ha profuso in prima persona durante la propria esistenza, con un coinvolgimento in molti casi critico e pugnace, sempre comunque costruttivo, nella vita pubblica.

Mary Jane Jacob esemplifica il modo in cui le idee di Dewey hanno costituito un apporto essenziale al sistema istituzionale ed educativo degli Stati Uniti, e come hanno preso forma, dagli anni Sessanta fino ad oggi, nell’opera di artisti internazionali di grande statura quali Tania Bruguera, Ann Hamilton, Thomas Hirschhorn, Alfredo Jaar, Michael Rakowitz, Katie Paterson, Ernesto Pujol; artisti nel cui lavoro arte e percorso di vita si fondono, e per i quali fare parte della società significa partecipare alle cose altrui, prima ancora che chiamare gli altri a partecipare all’opera.

Jacob sottolinea anche come le idee del filosofo e pedagogista siano state parte organica della propria stessa crescita, avvenuta all’interno del sistema scolastico pubblico di New York: un sistema forgiato intorno all’idea che, attraverso il percorso educativo, l’arte possa diventare un elemento integrante dell’esistenza quotidiana per il maggior numero di persone possibile; ed evidenzia l’influenza che quelle idee hanno avuto sulla propria stessa attività curatoriale. Basti pensare al suo fondamentale progetto Culture in Action3, Chicago 1993: una mostra diffusa che ha visto otto artisti e collettivi – Mark Dion, Kate Ericson e Mel Ziegler, Simon Grennan e Christopher Sperandio, Haha group, Suzanne Lacy, Daniel Joseph Martinez, Iñigo Manglano-Ovalle, Robert Peters – operare per mesi, o addirittura per anni, in dialogo con gruppi della comunità locale e realizzare interventi al cui centro si trovavano istanze di ordine sociale, una processualità dilatata basata sull’idea che ogni individuo possa esprimere significato, e la partecipazione delle stesse comunità nel ruolo di coproduttori e di pubblico.

Culture in Action, che aveva avuto un lungo periodo di gestazione, era nata con l’intento di oltrepassare il modello delle grandi opere scultoree paracadutate sul territorio urbano, in posizione preminente, a mo’ di decorazione urbana. A questo modello, di carattere liberale, si opponeva la possibilità di muoversi al di là dei luoghi e dei percorsi deputati, degli steccati disciplinari, delle usuali cornici culturali e sociali. La critica si rivolgeva anzitutto a Sculpture Chicago, una biennale basata sulla prassi del NEA’s Art in Public Places programme4 attivo negli Stati Uniti dal 1967, consistente nell’installare opere di grandi dimensioni sul suolo pubblico, in aree centrali e fortemente visibili.

L’iniziativa Culture in Action mirava a ricadute a lungo termine sull’area interessata dal progetto. In nome di una decisa consapevolezza sociale si dedicava attenzione non tanto al pubblico dell’arte tradizionalmente inteso – nei confronti del quale l’iniziativa risultava anzi assai poco accondiscendente – quanto agli abitanti dell’area. Questo comportava un deciso rinnovamento delle modalità adottate, profondamente partecipative, della qualità delle opere, spesso mimetiche rispetto al contesto, della loro collocazione, che poteva essere periferica o marginale. Nel complesso si trattava di un vero e proprio scarto riguardo all’idea complessiva di “pubblico”.

L’esperienza stimolerà la realizzazione del libro di Suzanne Lacy Mapping the Terrain: New Genre Public Art, pubblicato nel 1995, comprendente una serie di saggi approfonditi e ben argomentati in cui l’opera d’arte è presentata per la prima volta con ampiezza e chiarezza ‘not primarily as a product, but as a process of value-finding, a set of philosophies, an ethical action’5. New Genre Public Art costituisce ancora oggi un fondamentale punto di riferimento teorico.

A distanza di decenni, in Inferni Artificiali, Claire Bishop presenterà Culture in Action tra gli episodi di origine di ciò che lei stessa chiamerà ‘the social turn6.

Nel libro Dewey for Artists di Mary Jane Jacob sia l’attività curatoriale nello spazio pubblico, sia l’attività artistica emergono nella loro complessità e nelle loro potenzialità; potenzialità legate a una necessaria chiarezza di presupposti e di intenti, e a un grande rigore.

Tornare Dewey, anche attraverso la lettura di Mary Jane Jacob, consente di ritrovare i fondamentali di un’esperienza estetica “pubblica”; un’esperienza rilevante in quanto nasce dall’impegno a rivolgersi a tutti e a ognuno, che intende contribuire profondamente alla società che la esprime decriptandone gli aspetti meno tangibili e trasmettendo, al di là di ogni predefinito confine d’azione, gli infiniti diversi modi di essere persone; che si fa laboratorio di condivisione e di cittadinanza.

 

Immagine di copertina da Unsplash di Pat Whelen


Note

  1. Un tempo si poteva camminare per le strade di una città e sapere sempre che ora era. C’era un orologio in ogni negozio; bastava soltanto guardare attraverso le vetrine mentre si passava. Ogni giornata di lavoro era scandita dal proprio orologio; dopo qualche ora, se il negozio era chiuso, le luci della strada permettevano ancora di vedere all’interno, – così era scandito non solo il tempo del lavoro, ma anche il tempo dello svago. Ma i tempi cambiarono e il tempo spari. […] Non c’era più bisogno di piazzare il tempo per le strade […]. Non c’era più bisogno di mettere il tempo in quello spazio dove eravamo, dal momento che portavamo con noi il nostro tempo, lo indossavamo al polso, avevamo il tempo (quasi) nel palmo della mano. Il tempo pubblico era morto; non esisteva più un tempo per lo spazio pubblico; anche lo spazio pubblico era destinato a sparire.” Lo spazio pubblico in un tempo privato, gennaio 1990, pp. 127, in A. Barzel (a cura di), Vito Acconci, catalogo della mostra, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, Giunti, Firenze 1991.
  2. Jacob M.J, Dewey for Artists, University of Chicago Press, 2018.
  3. Il catalogo della mostra: Jacob M.J, Culture in Action, Seattle: Bay Press, 1995.
  4. II National Endowment for the Arts Art in Public Places nasce nel 1967 per decisione e grazie all’infusione di fondi di una agenzia federale, la General Services Administration o GSA.
  5. Lacy S., Mapping the Terrain: New Genre Public Art, Seattle: Bay Press, 1995.
  6. Bishop C., Artificial Hells: Participatory Art and the Politics of Spectatorship, Verso Books, 2012. Edizione italiana: Claire Bishop (autore), Cecilia Guida (a cura di), Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nell’arte partecipativa, Luca Sossella Editore, Roma 2015.

Dopo i dialoghi tra Derrick de Kerckhove e Francesco Monico, tra Michele Cerruti But e Filippo Barbera e tra Paolo Naldini e Ezio Manzini che hanno introdotto il Convegno di ricerca Public!  a cura di Francesco Monico, Paolo Naldini, Michele Cerruti But presso Accademia Unidee (il racconto del convegno nel reportage di Marco Liberatore) ora apriamo una serie di approfondimenti sul concetto e sulle declinazioni di “pubblico”. Dopo un’analisi e un’interpretazione dell’intellettuale pubblico del filosofo Federico Campagna,  dopo “il sogno” narrativo proposto dall’architetto Maurizio Cilli sul concetto di pubblico come infrastruttura, dopo il concetto di pubblico come innovazione della pratica a cura dell’urbanista e attivista Elena Ostanel, e un saggio sul rapporto con il pubblico visto dal punto di vista di un perfomer di Andrea Pagnes, un nuovo contributo della storica dell’arte, Gabi Scardi.