Vocazione designer: dar forma ai pensieri, non solo ai prodotti

Il design è di moda. Probabilmente siamo all’apice di un percorso che è iniziato, nel contesto internazionale, quasi quarant’anni fa

di: Francesco Zurlo, da Il Giornale dell’Architettura

Francesco Zurlo

La relazione con altre figure, nell’impresa, aumenta la consapevolezza del ruolo del designer nei processi d’innovazione

 

Il design è di moda. Probabilmente siamo all’apice di un percorso che è iniziato, nel contesto internazionale, quasi quarant’anni fa, quando alcuni giovani ricercatori americani, visitando il Giappone e le sue aziende – in primis Toyota – scoprono che per diventare competitivi serve qualità a tutti i livelli e che anche il design, nella sua forma più tradizionale (dare forma ai prodotti), ha un ruolo chiave, tanto da consentire ai designer l’accesso alla stanza dei bottoni, laddove prendere le decisioni per lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi.

La relazione con altre figure, nell’impresa, aumenta la consapevolezza del ruolo del designer nei processi d’innovazione. Questi altri ruoli, e tra loro i manager, scoprono un diverso modo di affrontare i problemi. Anzi di settare, riformulare e affrontare i problemi. Con una tensione costante, in ogni atto del processo, verso l’individuazione continua di opportunità per innovare. Insomma: non solo dare forma ai prodotti quanto (contribuire a) dare forma anche ai pensieri.

Il design thinking nasce grazie a questa progressiva presa di coscienza da parte del management e sdogana, in modo chiaro, il ruolo del design dentro le organizzazioni, spostando l’attenzione sul processo più che sui risultati e valorizzando il designer in quanto portatore di specifiche capacità, utili ai team, all’organizzazione e, zoomando, alle comunità civiche e alle amministrazioni pubbliche.

La digital transformation accelera e amplifica questo fenomeno, specie per la dimensione (talvolta ossessiva) e per la centralità dell’utente (con pratiche specifiche come UX_ user experience e UI_ user interface) che, in tempi recentissimi, introduce il design – per questo suo essere geneticamente dalla parte della persona/utente – al cospetto non solo dei manager dell’innovazione ma anche di coloro che si occupano di risorse umane in organizzazioni sempre più instabili, minate da una “professionalizzazione” del lavoro, con talenti alla ricerca di motivazioni extra-salariali, intrinseche e basate su valori, per decidere di restare.

Il design è lì, a disposizione, per rendere, tramite un approccio user-centered o di co-design, l’impiegato sempre più appagato della sua condizione lavorativa: solo pochi anni fa chi avrebbe “usato” il design per gestire la felicità dei lavoratori?

E inoltre: telecomunicazioni potentissime, costo sempre più ridotto delle tecnologie, così come la loro diffusione e accessibilità, abilitano sempre più persone – un tempo escluse – al banchetto dell’innovazione. Con un fenomeno duale: se da una parte l’investimento in ricerca di base, spesso sostenuta dal pubblico, continua ad avere un ruolo significativo nel differenziale competitivo delle nazioni, dall’altra milioni d’individui – tra cui giovani e meno giovani designer – sperimentano continuamente nuove potenziali soluzioni tecnologiche.

Dentro molte imprese digitali e non, la pratica tende a battere la teoria accorciando sensibilmente i tempi di sviluppo del prodotto, assegnando un ruolo centrale alla prototipazione di soluzioni che mixano dimensione materiale e digitale. Demo or Die, il mantra di Nicholas Negroponte, è oggi la condizione normale di tante imprese e conferisce ai designer un ruolo centrale in questa fast forward innovation: concetti propri dell’approccio lean come i MVP (Minimum Viable Products) sarebbero meno praticabili se non ci fosse un designer a renderli concreti; così come orientare, con scelte ragionate, le demo stesse, individuando gli scenari più promettenti ed eliminando in partenza percorsi di esplorazione con scarse prospettive (un designer che lavora per il futuro in modo critico e cosciente).

In questo quadro emerge un designer che sospende (vivaddio!) la propria autorialità – quella che ancora oggi alcune riviste patinate ci rigurgitano nelle varie occasioni mondane del buon design – per mettersi al servizio di utenti, comunità, organizzazioni, imprese, altre professioni e competenze. Il package di servizio è spesso la realizzazione di soluzioni “parziali”, simili a piattaforme, capaci di abilitare i propri interlocutori a “far cose”.

È un design delle “opzioni” che crea valore coinvolgendo, ex ante o ex post, consumatori, cittadini, impiegati. È l’innesco per soluzioni altamente personalizzate e ad altissimo valore percepito, tra dimensione tangibile e dei servizi. Questo designer ha un bagaglio di conoscenze e una professionalità riconoscibile: comprende le tecnologie disponibili, i processi produttivi, le implicazioni logistiche e finanziarie. È in grado di leggere i quadri socio-culturali di chi coinvolgerà e sa dare senso alle cose. Sa, insomma, far sì che le cose accadano. Ma il suo oggetto di progetto, sempre di più, sarà una specie di opera open source, con valori propri della cultura più che del business.

Perché è sul piano della cultura, oggi, che è possibile costruire significati e differenza in quelle fitte conversazioni tra più attori che caratterizzano il mercato nella contemporaneità.
 Se l’evoluzione socio-tecnica confermerà questo scenario si potrà dire che il design, più che moda, è attitudine alla complessità e prototipo di una professione della contemporaneità che, pur ampliando il proprio ambito d’influenza, valorizza e contestualizza diversamente conoscenze e competenze che gli sono, sin dall’inizio dello scorso secolo, proprie.

 

Questo articolo è precedentemente comparso su Il Giornale dell’Architettura