Università nel 2020. Non solo DaD: fuga dalla grande città e riscoperta dei piccoli centri

Lo studio universitario vive un momento di criticità e rielaborazione più radicale di quanto si possa immaginare. Una riflessione scivolata rapidamente dentro a un’attualità più invadente che mai

Lo studio universitario, come del resto il mondo della istruzione nel suo intero, vive un momento di criticità e rielaborazione più radicale di quanto si possa immaginare. Una riflessione iniziata qualche tempo fa e scivolata rapidamente dentro a un’attualità più invadente che mai.

Parlando di università in questo 2020, sembra quasi che tutto si riduca ad un argomento solo: la didattica a distanza (la famigerata DaD). Non volendo entrare nel merito specifico della tematica, tanto è profonda e scivolosa la tribuna delle varie correnti (vedi: “Il J’Accuse di Agamben sulla DaD”), ci si limita a gettare nella mischia una considerazione, tanto banale quanto sottovalutata: il cambiamento della geografia della vita universitaria.

Fino a pochi anni fa la vita universitaria tendeva a concentrarsi nelle grandi città del nord, Milano su tutti, seguiti da Bologna, Torino, Pavia, Venezia e così via… I grandi atenei capaci di attrarre masse sempre più numerose di neodiplomati famelici di socialità, con il mito della “grande città” nel cuore. Dal sud al nord, dai piccoli centri a quelli più grandi, una tendenza che seppur con diverse eccezioni, sembrava reggere il susseguirsi dei decenni.

Una tendenza rimessa bruscamente in discussione dalla pandemia, generando una domanda disarmante nella sua semplicità: ma davvero la grande città è meglio della piccola?
In questa lotta apparentemente impari che solo un anno “particolare” come questo rimette in discussione, i centri più piccoli sembrano ritrovare tutto il loro fascino.

La sensazione percepita è quella di un distacco (o perlomeno di un serio ripensamento) all’affollamento metropolitano delle strade, delle aule e dei mezzi di trasporti, agli spazi ridotti o poco significativi di campus immensi o quartieri costruiti appositamente, che tanto ricordano quei “non-luoghi” narrati da Augè fin dagli anni novanta, in favore di un centro urbano più a misura d’uomo, dove ci si sposta a piedi o in bicicletta, dove gli alberi sono a “portata di finestra” e le aule non sono affollate, così come il professore riconosce i suoi studenti e li chiama per nome.

Ripensare alla vita in questi termini può sembrare una banalizzazione ma racconta in realtà un percorso già intrapreso dalla società che il lockdown ha solo accelerato. L’urgenza dell’animo non è più l’accalcarsi in una città-alveare, tanto ricca di individui quanto perfetta per il diffondersi del virus, quanto quella di dare un valore al tempo e allo spazio personale.

Una semplice passeggiata di colpo ritrova in questo contesto una sua profonda essenza (se non per forza degna di fantasticherie da passeggiatore solitario, perlomeno meritevole di una qualche suggestione); così come la vita di un campus universitario grande sì, ma non così affollato, caotico e impersonale.

La vita nei territori mediali, ovvero le provincie connesse, partita a gennaio dai blocchi con una sua negatività intrinseca, scivola lentamente verso una più stabile autorevolezza, capace di attrarre più studenti di quanti ne sia mai stata capace.

Per parlare di fuga dalle grandi città bisognerebbe analizzare una ben diversa mole di dati e aspetti, ma non è questo il luogo per farlo. Se da una parte la digitalizzazione della vita accademica la scuote nel suo profondo, dall’altra può permettere a pensare radicalmente il mondo del lavoro, con modalità che si vedranno, forse, solo nel tempo.

Lo studente vive la socialità nel suo insieme, senza troppo guardare al contesto nel suo insieme, ed è proprio lo spostamento dei paradigmi di questa sua socialità che stanno provocando una discussione più fertile che mai.
Vivere tra natura e sport all’aria aperta, con spazi e tempi meno alienanti rispetto ad una metropoli (e con costi decisamente diversi) non ha mai affascinato tanto.