Strumenti, sistemi, società – Ivan Illich, David Cayley

Gli strumenti, quando superano una certa intensità, inevitabilmente si trasformano da mezzi in fini, diventano controproduttivi, vanificando lo scopo per il quale sono stati creati

di: Ivan Illich, David Cayley

Pubblichiamo un estratto dal libro Una fiamma nel buio. Conversazioni, di Ivan Illich e David Cayley ri-edito recentemente dalla casa editrice Eleuthera che ringraziamo per la possibilità concessa.

 

Nel corso della tua carriera ti sei occupato di ciò che Marshall McLuhan ha chiamato la ricaduta tecnologica. Come vedi oggi la questione della tecnologia?

Ho risposto a questa domanda molte volte negli ultimi venticinque anni. Penso di averlo fatto, di anno in anno, in modi diversi. La risposta più chiara che posso darti adesso è che quest’anno intendo prendermi due mesi per scrivere un commentario su un manoscritto dell’inizio del dodicesimo secolo, De Variis Artibus di Theophilus Presbyter, un anonimo che visse nella regione del medio fiume Weser […]. Se Theophilus era il suo vero nome, allora doveva essere un monaco greco che era finito da quelle parti e che lì scrisse, per quel che ne so, il primo libro sugli strumenti in generale della storia occidentale. Nell’antichità e nel Medioevo ci sono libri come De arte metallica, sulla lavorazione dei metalli, De arte bellica, sul fare la guerra, o De arte ædificatoria, su come costruire, ma l’idea di percepire gli strumenti come qualcosa che si può separare intellettualmente dalle mani dei calzolai, dei fabbri o degli operai che li usavano appare con Theophilus nel 1128. Nello stesso periodo a Parigi, anche Ugo di San Vittore, un mio caro amico, produce una filosofia degli strumenti, nel suo Epitome Dindimi. È una conversazione che egli allestisce tra Dindymus – un tizio inventato da lui, un re bramino, il re di tutti i gimnosofisti, i sapienti nudi – e un allievo. Anche qui gli strumenti vengono discussi in quanto strumenti.

Ora, perché voglio completare questo scritto, per il quale ho preso appunti negli ultimi quindici anni? Mi sono imbattuto per la prima volta in un riferimento a questo tizio quindici anni fa leggendo Lessing, che aveva scoperto il manoscritto di Theophilus Presbyter duecento anni prima. Voglio portarlo a termine perché ho il sospetto che il concetto di strumento e il concetto teologico di sacramento siano intimamente connessi. In effetti, Ugo di San Vittore, che con De Scientia Mechanica è stato il primo teorico della scienza meccanica, è stato anche il primo a spiegare chiaramente l’idea dei sette sacramenti. Tra le centinaia e migliaia di benedizioni formalizzate con cura, di maledizioni sacerdotali contro il diavolo e cose del genere, lui ne aveva selezionate sette che, diceva, erano qualcosa di totalmente diverso dalle altre benedizioni. Meno di cento anni dopo, al Concilio Lateranense IV del 1215, ciò divenne un dogma della Chiesa. Io credo che ci sia una relazione tra l’idea di uno strumento che fa ciò che tu vuoi che faccia, e quella di un sacramento che è un segno che Dio consente agli uomini di impiegare, ma che fa ciò che Dio vuole che faccia, più o meno indipendentemente dall’abilità, dal potere, dall’intenzione e anche dalla decenza del prete che lo amministra. Questi due concetti sono tipicamente occidentali, ed è stupido parlare della percezione dello strumento come strumento, in questo modo, al di fuori della storia occidentale dal 1215 in poi.

Ormai da decenni sono impegnato ad analizzare ciò che gli strumenti fanno alla società. Ho scritto il mio primo libro su questo argomento, Tools for Conviviality, quando ero stato invitato a unirmi alle discussioni del Club di Roma. Ho risposto: «No, grazie, ho qualcosa di più importante da realizzare. Voi vi occupate di ciò che l’impiego degli strumenti fa all’ambiente, ovvero vi occupate solo dei prodotti materiali e dei loro effetti collaterali indesiderati. Io sono ossessionato dall’idea di ciò che gli strumenti impiegati dai produttori di servizi fanno alla società. Lasciate dunque che per ora io parli della scuola», ho detto loro, «poi mi occuperò dei trasporti e della medicina» (allora pensavo di occuparmi anche del diritto, ma poi ho voluto limitarmi all’essenziale). Quali sono gli inevitabili prodotti collaterali degli strumenti che generano servizi?

Di lì a poco la gente ha cominciato a definirli sistemi, ma io ho continuato a usare il mio concetto di strumento. Abbiamo già parlato della scolarizzazione, che inevitabilmente degrada più persone di quante ne privilegi. Questo è un effetto collaterale indesiderato, come quelli prodotti dall’agricoltura chimica, che genera più grano per un periodo di cinque anni, con un certo numero di lavoratori e in una data area, ma contemporaneamente avvelena la terra, esaurisce il suolo e fa molte altre cose.

Per prima cosa ho scritto una teoria generale degli strumenti in forma di pamphlet, di breve saggio. Volevo ravvivare l’arte di scrivere pamphlet a livello intellettuale. Non volevo scrivere una critica sociale o una riflessione filosofica. Dall’inizio mi sono proposto di scrivere un pamphlet che potesse far discutere la gente sulla questione. Così ho scritto Tools for Conviviality. Ho scelto il titolo deliberatamente. Il vecchio proprietario e direttore della Harper mi ha guardato di traverso e mi ha detto: «Mister Illich, conosce lo slang americano?». Ho detto: «Sì, so come e perché scelgo le parole…».

Intendeva che, per la gran parte della gente, conviviale significa alticcio?

Quello era Silver, il direttore della «New York Review», che ha detto: «Questo non è un uso corretto della parola. Conviviale significa solo l’allegria di chi è alticcio». Ma l’aristocratico direttore della Harper naturalmente era pienamente consapevole che tool, lo strumento (o meglio, il tuo strumento), è quello che hai in mezzo alle gambe…

Ah! Ma dimmi, già che ti sei interrotto, perché hai scelto i termini strumento e conviviale. A prima vista, un ospedale o una scuola non sono degli strumenti.

Sono dei dispositivi ingegnerizzati per ottenere uno scopo, e io avevo bisogno di una parola semplice che chiunque potesse capire. Pensavo che la maggior parte della gente, se non aveva troppi pregiudizi e faceva un piccolo sforzo, avrebbe potuto capire sorridendo e dire: «Ah-ah!». Le scuole producono una società scolarizzata. Ricordo che una volta all’Urban Training Center, mentre discutevo di questo in uno slum di Chicago, si è alzata una ragazzina nera e ha detto: «Yeah, yeah, you’re right, we’re all schooled up!», e io ho confermato: «Yeah, we’re all schooled up!». E dopo pranzo ho notato che tutti quei ragazzini portavano già delle spillette con su scritto: «school you!».

Sono ormai trent’anni che cerco di immaginare come impiegare il linguaggio ordinario in quel modo leggermente osceno che fa capire alle persone qualcosa di nuovo senza che sappiano esattamente il perché. Ho cercato di scoprire termini molto precisi che permettano alla gente di dire quello che vuole dire. Con la speranza di riuscirci, e contro il parere di tutti i miei editori e di tutti i miei colleghi, mi sono attenuto alla parola strumenti come mezzo per un fine che la gente pianifica e ingegnerizza. Non è solo un bastone raccolto per strada. Per esempio chiamo strumento di aggressione una pistola, un fucile o una spada. Ma non chiamo strumento qualsiasi pietra che sta lì in giro per terra […].

Ho cercato di chiarire che ci sono cose che noi non usiamo come strumenti. La mia convinzione è che quando parliamo davvero con gli altri, noi non usiamo il linguaggio, non scegliamo da un codice, come i linguisti pensano che facciamo. Noi parliamo. In Tools for Conviviality ho proposto una meditazione su come gli strumenti, quando superano una certa intensità, inevitabilmente si trasformano da mezzi in fini, ostacolando la possibilità di raggiungere un fine. Ho cercato di enunciare il concetto di controproduttività, cioè il fatto che un dato strumento (per esempio un sistema di trasporto), quando supera una certa intensità, inevitabilmente vanifica lo scopo per il quale quello strumento era stato creato penalizzando più persone di quante invece riescono a beneficiare dei suoi vantaggi. Il traffico accelerato che permette il pendolarismo – cioè il traffico obbligatorio – per la grande maggioranza della società aumenta inevitabilmente il tempo che si deve spendere ogni giorno per andare da qui a lì. E soltanto poche persone ottengono il privilegio di essere quasi onnipresenti nel mondo.

Ho analizzato la medicina come uno strumento, arrivando alla conclusione che quando si medicalizzano le aspettative e l’esperienza oltre un certo livello, la medicina inevitabilmente genera più sofferenza e disabilità rispetto a quelle che riesce a curare, e allo stesso tempo riduce la capacità delle persone di impegnarsi nell’arte di soffrire o nell’arte di morire. Ho analizzato la controproduttività dalle sue varie angolature. Questo è ciò che ho fatto in Tools for Conviviality.

Sempre di più, ho voluto analizzare non quello che gli strumenti fanno ma quello che dicono a una società, e perché la società accetta ciò che dicono come una certezza. Se quindi ti rispondo che oggi mi sto occupando di un commentario su quel testo del dodicesimo secolo, lo faccio perché il mio scopo principale è evidenziare come siamo arrivati a vivere in una società nella quale il più importante effetto prodotto dai nostri maggiori sistemi strumentali è di dare forma alla nostra visione della realtà e di generare in noi una serie di certezze.

Puoi dire qualcosa di più su ciò che intendi con certezze?

Sì, è molto semplice. Due anni dopo aver terminato Tools for Conviviality, ho voluto sviluppare ulteriormente un aspetto di quel libro. Così ho scritto Energy and Equity, un altro pamphlet realizzato in seguito alla richiesta fattami da un amico di collaborare con «Le Monde» su qualsiasi argomento volessi. L’articolo, che ho chiamato fin dall’inizio Énergie et Équité, cominciava con l’affermazione: «La crisi energetica è un’illusione». Ero di passaggio a Parigi e il 2 maggio di quell’anno incontrai a pranzo il direttore di questo venerabile giornale parigino, dopo avergli lasciato il mio manoscritto il giorno prima. Era molto contento. Mi informò che l’avrebbero pubblicato in prima pagina, diviso in tre puntate. Gli dissi che ero d’accordo e poi aggiunsi: «Lei dirige un grande giornale: ha qualche consiglio editoriale da darmi?». «Be’, lei sa come si scrive», mi rispose… e poi continuò: «Monsieur, le dico una cosa: di solito, quando cominciamo un articolo di giornale, non iniziamo con un’espressione che nessuno conosce. ‘La crise d’énergie’, Monsieur Illich, qu’est-ce que c’est?». Cosa sarebbe la crisi energetica? «Be’», risposi io, «comunque quella parola rimane lì». Sette settimane dopo ha fatto pubblicare un’edizione speciale sulla crisi energetica! Ti racconto questa storia solo perché tu possa inquadrare quando ciò avveniva. Era un bel po’ di tempo fa.

Ora, in quel libro io analizzo ciò che i trasporti fanno a una società – inevitabilmente, irrimediabilmente – a meno che non vengano mantenuti a una velocità inferiore a quella della bicicletta. Se guardo indietro a quel libro, parecchi anni dopo, rimango molto sorpreso. Davo davvero per scontato, per esempio, che fosse possibile comparare un motore e un essere umano, visto che non ci sono motori energeticamente efficienti quanto un essere umano su una bicicletta […]. Allora credevo davvero che avesse senso calcolare quanta energia consumano le persone che pedalano in bicicletta. Dimenticavo completamente che le persone non hanno bisogno di più energia o cibo se pedalano per andare a scuola oppure no.

Non sono sicuro di aver capito quello che dici…

Dico che sia che io cammini, sia che non cammini, io non sono un consumatore di energia. Come ha detto Jean Robert l’anno scorso: «In India, la merda di vacca non è energia. È cultura, è combustibile, è sacra».

Ah, ho capito. Stai parlando delle certezze che avevi e a cui ora hai rinunciato.

Sì. Sono stato tra i primi a sottolineare la possibilità di calcolare l’efficienza energetica degli esseri umani. Era un’idiozia. Ancora più idiota, se ripenso a quel libro, Energy and Equity, era il fatto di non aver capito che la locomozione è un concetto molto moderno. La gente ha camminato in tutte le società, ma non aveva modo di spostarsi attraverso uno spazio tridimensionale cartesiano, perché non esisteva. Sappiamo dall’antropologia che la gran parte delle persone non percepisce lo spazio come tridimensionale. Così come non era possibile, se non molto recentemente, concepire il camminare come lo spostarsi da un punto definito dai tre assi cartesiani a un altro punto definito dagli stessi tre assi, stabilendo una distanza lungo la quale spostarsi. Concepire gli esseri umani che camminano come impegnati nella locomozione conduce a una cosa piuttosto comune nella letteratura trasportistica, dove si parla dei piedi come strumenti per l’autolocomozione. Be’, capisci subito in che mondo esasperante viviamo. Così la mia riflessione sulla tecnologia si sposta sempre di più da uno studio di ciò che essa fa a uno studio di ciò che essa necessariamente dice.

La prevalenza delle ruote dice che quando cammino sono impegnato nella locomozione e che sto facendo la stessa cosa se cammino con te da qui all’università, declamando poesie, o se prendo una macchina e ci vado con quella. Pensare a me stesso come impegnato nella locomozione mi colloca nello spazio cartesiano; e collocandomi nello spazio cartesiano io limito la mia esperienza e il mio senso della realtà allo spazio cartesiano. Questo è solo un esempio.

Io mi attengo ancora all’espressione – anche se non allo spirito con il quale veniva usata – di Jean-Paul Sartre: mi sentirò sempre responsabile per ciò che mi è stato fatto, non solo dalle altre persone, ma anche dal milieu in cui vivo. È mio dovere non farmi costringere nello spazio tridimensionale.

Cosa mi succederebbe in quello spazio? Perderei l’interiorità del mio cuore. Non ho coordinate – coordinate cartesiane – nel mio cuore. Ma voglio che cresca e diventi confortevole e accogliente per le altre persone. Per quanto interessanti possano essere le riflessioni della cosmologia moderna, comprendo me stesso molto meglio quando accetto un altro modello, dal quale la mia cultura proviene, il modello di contingenza in cui Dio tiene il creato nelle sue mani, come puoi osservare in qualsiasi abside romanica o gotica.

Tools for Conviviality è la tua dichiarazione politica più chiara. In essa suggerisci che i mezzi politici e giuridici per raggiungere la tua visione di una società che rispetti tutta una serie di scale naturali sono in realtà a portata di mano. Nel tuo lavoro successivo hai criticato implacabilmente l’intero vocabolario della politica contemporanea. Trovi che il tuo lavoro di oggi offra delle possibilità politiche?

Cosa intendi per politica?

Intendo un modo di agire che può essere trasmesso alla maggioranza delle persone.

Vediamo se ho capito la tua domanda. Tu dici che con Tools for Conviviality, attorno al 1972, sono arrivato quanto più vicino possibile a stabilire alcuni principi di azione politica. Mi aspetto di poter fare di meglio oggi? No. Allora io credevo nella possibilità di un vero rivolgimento delle coscienze, del quale ho parlato nel finale di Tools for Conviviality. Oggi temo che molte delle cose che me lo facevano credere siano cambiate.

A quel tempo usavo ancora espressioni come nella società. Oggi non le userei più. Ma contemporaneamente gli stessi concetti che allora forgiavo per mio uso sono oggi difficili da afferrare. Molte certezze che la gente aveva nel 1973 se ne sono andate. Il che genera profondo cinismo, confusione, e un vuoto interno tra le persone che vivono in una società intensamente monetarizzata come lo sono le aree urbane degli Stati Uniti. Ma questo crea anche opportunità straordinarie per nuovi modi di vivere che vedo emergere in Messico e in varie altre parti del mondo, luoghi che in qualche modo conosco e sui quali posso esprimere un giudizio. Le persone possono usare i cosiddetti benefici dello sviluppo per i propri scopi, non per quelli per cui erano stati pensati. Possono cannibalizzare le automobili. Possono usare i rottami.

Quando ho scritto Tools for Conviviality ero profondamente turbato perché prevedevo molto chiaramente le tendenze, e la convergenza di tendenze, che oggi sono per tutti ovvie. Ma non avevo abbastanza fiducia nella straordinaria creatività della gente e nella sua capacità di vivere in mezzo a ciò che frustra i burocrati, i pianificatori e gli osservatori. Per esempio, Città del Messico, negli ultimi quindici anni, è cresciuta da quattro a venti milioni di abitanti. Una città di venti milioni di abitanti non dovrebbe essere governabile. Eppure la gente viene ancora da tutto il mondo per capire come è governata Città del Messico, invece di cercare di capire come mai una città come questa può sopravvivere senza un governo. Una città come questa dovrebbe essere paralizzata […].

Poi ho passato diversi anni a imparare le lingue orientali, e i miei piedi hanno camminato a lungo sulle strade dei paesi del Sud-est asiatico. Per un breve periodo ho persino sognato che la cosa che avrei dovuto fare era descrivere la storia delle idee occidentali in una lingua orientale, che fosse abbastanza lontana dalle lingue che conosco da procurarmi davvero la distanza necessaria. Avevo pensato al cinese, ma ho scoperto che ero troppo vecchio. Poi mi sono imbattuto in un uomo, Jean-Marie Domenach, che mi ha detto: «Ivan, se vuoi davvero allontanarti, se vuoi davvero guardare le cose dall’esterno, impara il giapponese!». Ma di nuovo ho scoperto che il mio cervello era già troppo consumato. Non potevo farlo. E anche se l’avessi fatto, probabilmente non sarei stato capace di scrivere la roba che volevo.

Ho infine constatato che anche l’India del nord – quando finalmente sono riuscito a penetrare a sufficienza nelle lingue e nella gente – non era abbastanza lontana, era già troppo britannica per fare ciò che avrei voluto. Così ho mosso un altro passo per spingermi più lontano, fino al Medioevo questa volta. Sono dunque tornato al dodicesimo secolo, che avevo sempre amato, a certi autori come Eloisa, Abelardo, Ugo di San Vittore, a tutti quei nomi che mi erano affettuosamente familiari, e ho iniziato a insegnare la storia intellettuale medievale, per quasi dieci anni, in francese e soprattutto in tedesco. Mi affascinava immaginare cosa sarebbe successo se avessi descritto un sistema di trasporto moderno a un brillante, versatile e sensibile monaco del 1135. Così ho iniziato a giocare compilando dialoghi latini in cui spiegavo de transportatione e de educatione in modo da ottenere una certa distanza e diventare un migrante tra due spazi-tempo o, come dice Einstein, spimes (space-times), tra le nostre certezze e quell’altro mondo di certezze. Comunque, ho sempre continuato a occuparmi soprattutto dell’osservazione degli strumenti, perché esistevano allora come oggi. Non avrei potuto parlarne in cinese, neanche se avessi imparato quella lingua. E Needham ci ha mostrato il perché. Quando parla della tecnologia cinese, ci mostra come sia qualcosa di diverso da ciò che noi intendiamo quando parliamo di tecnologia. Pensa solo alle molte pagine che dedica alla ritenzione seminale, in un rapporto sessuale, come tecnica. O all’astrologia, che per noi è qualcosa che non rientra nella tecnologia. Uno strumento è uno strumento, è uno strumento… solo fino a un certo punto […].

Mi piace quella particolare generazione di persone nate attorno al 1100, a cui i maestri avevano fatto leggere i classici, malgrado fossero a malapena capaci di scrivere una frase in un latino decente. Ognuno di loro verso il 1120, 1130 o 1140 aveva sviluppato un proprio personale, splendido, stile latino, cioè in una lingua che non era quella in cui erano nati. Questo mi ha sempre affascinato. Così ho trovato molto piacevole insegnare la storia del pellegrinaggio di Santiago, o l’iconografia e l’architettura della metà del dodicesimo secolo, agli studenti tedeschi, che erano ben attrezzati per seguirmi. E ho trovato in questo dislocarsi in un mondo totalmente differente un modo estremamente utile per conquistare una distanza dal presente.

Vorrei ritornare alla domanda che ti stavo ponendo quando sei stato improvvisamente colpito dalla strana situazione in cui ti avevo messo citando dei vecchi testi che sono più freschi nella mia memoria che nella tua. Stavo citando il tuo avvertimento che se la nostra società avesse continuato sui binari già imboccati avremmo in realtà cessato di essere degli esseri umani. Il modo in cui l’avevi espresso è che avremmo rotto «tutti i ponti con un passato normativo».

Ed è successo. Oggi la gente occupa sempre di più un nuovo spazio cibernetico privo di dimensioni. Ciò trova una cinica, fredda espressione in quelle persone brillanti convinte che non sia più possibile concettualizzare che cosa significhi essere umani. Per fare ciò possiamo solo creare icone, icone fantascientifiche. Il modo migliore per parlare di una persona moderna è parlare di un organismo biologico cibernetico, di un cyborg. Donna Haraway, una storica della scienza molto brillante, lo esprime chiaramente in un saggio sulla donna moderna come cyborg.

Quando ho scritto la frase che tu hai citato, la rottura tra il tipo contemporaneo di modernità – una società industriale sul punto di diventare una società cibernetica – e i molti passati che sono esistiti nel mondo, compresa la nostra stessa tradizione, era già estremamente profonda. A volte per spiegare questa rottura uso la teoria delle catastrofi del matematico René Thom. Il mio collega matematico Kostas lo disapprova, perché dice che non si possono impiegare termini matematici come metafore, ma se ignoro la sua minaccia, allora posso dire che c’è stata una rottura catastrofica tra l’inizio del diciannovesimo secolo e il secolo in cui vivo. Lo spazio mentale in cui vivo è diverso da quello in cui vivevano Goethe e Schiller. La topologia concettuale e percettiva in cui vivo è non-continua con il passato. Gli assiomi che strutturano lo spazio in cui mi muovo non sono gli stessi assiomi che mio nonno dava ancora per scontati.

Le certezze che ci permettono di parlarci reciprocamente senza mai menzionarle – perché stanno, per così dire, oltre l’orizzonte della nostra attenzione – oggi sono diverse da quelle di cinquanta o cento anni fa. E una ricerca sulla storia di queste certezza implicite, che cerchi di cogliere la trama e l’ordito di tali impressioni, mostrerà che questi orditi, nella nostra percezione, corrono in una nuova direzione. Noi intessiamo la trama della nostra conversazione su un ordito che è incomparabile con quello di qualsiasi altro periodo perché è fatto, diciamo, di fili di nylon.