Rottura tecnologica e unità metafisica – Yuk Hui

La frammentazione delle forme di vita, nei paesi europei e non, è in gran parte il risultato di una discrepanza tra teoria e pratica: in Oriente, però, tale sfasamento si manifesta come discontinuità totale

di: Yuk Hui

Pubblichiamo un estratto dal libro Cosmotecnica. La questione della tecnologia in Cina, di Yuk Hui, edito da Nero Edition nella collana NoT. Ringraziamo l’editore per la possibilità concessa.

 

 

Rottura tecnologica e unità metafisica

Il concetto di cosmotecnica delineato precedentemente implica una visione della tecnologia che non si limiti al piano della storia, della società e dell’economia, ma che oltrepassi tali piani così da ricostruire un’unità metafisica. Per «unità», non intendo un’identità politica o culturale, ma l’unità tra pratica e teoria, o più precisamente, una forma di vita che mantiene la coerenza (se non necessariamente l’armonia) di una comunità.

La frammentazione delle forme di vita, nei paesi europei e non, è in gran parte il risultato di una discrepanza tra teoria e pratica: in Oriente, però, tale sfasamento si manifesta non solo come un semplice disturbo, ma come lo «sradicamento» (Entwurzelung) descritto da Heidegger, ossia come una discontinuità totale. La trasformazione delle pratiche avviata dalle tecnologie moderne supera le antiche categorie che pure funzionavano in precedenza – ad esempio, come ricordato nel primo paragrafo, i cinesi non possiedono nessuna categoria corrispondente a quelle greche di technē e physis. In Cina, dunque, la forza della tecnologia smantella l’unità metafisica tra pratica e teoria, producendo una rottura che è ancora in attesa di ritrovare un’unità.

Naturalmente, questo non accade solo in Oriente: anche in Occidente, così come affermava Heidegger, la categoria emergente di «tecnologia» non condivide certo l’essenza della technē greca. La questione della tecnologia dovrebbe definitivamente servire come una motivazione per riprendere la domanda sull’Essere – e, se posso dire, per creare una nuova metafisica, o ancora meglio, una nuova cosmotecnica.

Ai giorni nostri, tale unificazione o indifferenza non si presenta come la ricerca di un fondamento; piuttosto si esplica al contempo come fondamento originario (Urgrund) e non-fondamento (Ungrund): Ungrund in quanto aperta alle alterità, Urgrund come fondamento che resiste all’assimilazione. In questo senso, Urgrund e Ungrund dovrebbero considerarsi come un’unità, un po’ come essere e nulla. La ricerca di un’unità è, propriamente parlando, il telos della filosofia, così come Hegel affermava nel suo trattato su Schelling e Fichte.

Come vedremo, rispondere alla domanda sulla tecnologia in Cina non consiste nel fornire una dettagliata ricostruzione storica dello sviluppo economico e sociale delle tecnologie – compito che tra l’altro è già stato brillantemente realizzato in vari modi da storici e sinologi come Joseph Needham – quanto piuttosto nel descrivere le trasformazioni della categoria Qi (器) nella sua relazione con Dao (道). Per essere più precisi su questo punto, consideriamo come abitualmente i termini tecnica e tecnologia vengano tradotti in cinese come jishu (技術) e keji (科技). Il primo significa «tecnica» nel senso di abilità, mentre il secondo si compone di due caratteri: ke, riferito alla «scienza» (ke xue), e ji, che significa «tecnica» come «scienza applicata». Il problema non è stabilire quanto tali traduzioni siano adeguate a restituire il significato dei termini occidentali (da notare tra l’altro che per queste traduzioni si usano termini di nuovo conio), ma piuttosto se queste creano effettivamente l’illusione che le tecniche occidentali abbiano un equivalente nella tradizione cinese. In definitiva, l’impazienza espressa dalla creazione di neologismi cinesi per dimostrare che «anche noi abbiamo questi termini» offusca la vera questione della tecnica.

È per questo che, piuttosto che basarsi su neologismi potenzialmente disorientanti, propongo di ricostruire la questione della tecnica partendo dalle antiche categorie filosofiche di Qi e Dao, rintracciando i vari snodi in cui queste sono state separate, riunite, o anche totalmente trascurate. La relazione tra Qi e Dao caratterizza, propriamente parlando, il pensiero della tecnica in Cina, che è allo stesso tempo l’unificazione di un pensiero morale e cosmologico in una cosmotecnica. È associando Qi e Dao che la questione della tecnica raggiunge il suo fondamento metafisico, ed è entrando in questa relazione che il Qi partecipa a una cosmologia morale, e interviene nel sistema metafisico a misura della sua propria evoluzione.

Mostreremo dunque come la relazione tra Qi e Dao è variata nel corso della storia del pensiero cinese, seguendo i vari tentativi di riunificazione (道器合一), ciascuno con le sue distinte sfumature e conseguenze: Qi illumina Dao (器以明道), Qi supporta Dao (器以載道), Qi a servizio di Dao (器為道用), Dao a servizio di Qi (道為器用), e così via. In ciò che segue, tracceremo tali relazioni dall’era di Confucio e Laozi fino alla Cina contemporanea, e termineremo mostrando come l’imposizione di un materialismo superficiale e riduttivo ha finito per separare completamente Qi e Dao, un evento che può essere considerato come il crollo del sistema tradizionale se non come la «fine della metafisica» cinese – anche se, ancora una volta, dovremmo enfatizzare come quella che nelle lingue europee va sotto il nome di «metafisica» non equivale alla sua solita traduzione cinese, Xing er Shang Xue (形而上學), che significa in effetti «ciò che sta sopra le forme» ed è usata come sinonimo di Dao nell’I Ching.

Ciò che Heidegger chiama «fine della metafisica», allora, non è affatto la fine dello Xing er Shang Xue. Infatti, mentre per Heidegger è il compimento della metafisica a fornirci la tecnoscienza moderna, Xing er Shang Xue non può dare origine ad alcuna tecnologia moderna, dato che, in primo luogo, non ha la stessa origine di metāphysikā, e inoltre, come spiegheremo dettagliatamente più avanti, se seguiamo il filosofo del Nuovo Confucianesimo Mou Zongsan, il pensiero cinese ha sempre dato priorità al noumeno sul fenomeno, ed è precisamente a causa di questo atteggiamento che in Cina si è sviluppata una cosmotecnica diversa.

In ogni caso, non è mia intenzione affermare che la metafisica tradizionale cinese sia sufficiente e che dovremmo semplicemente tornare a rivolgerci a essa. Al contrario, vorrei mostrare come, sebbene non basti semplicemente riprenderla, è fondamentale iniziare da essa per trovare vie alternative al prometeismo affermativo o alla critica neocoloniale, in modo da pensare e sfidare l’egemonia tecnologica globale. L’obiettivo finale vorrebbe essere quello di reinventare la relazione tra Dao e Qi, situandola storicamente e chiedendoci in che modo tale linea di pensiero possa essere feconda non solo nella costruzione di una nuova filosofia della tecnologia cinese, ma anche nel rispondere all’attuale situazione di globalizzazione tecnologica.

Inevitabilmente, un simile compito dovrebbe anche affrontare il martellante dilemma aperto da quello che è noto come il «problema di Needham»: perché scienza e tecnologia moderne non sono emerse in Cina? Nel XVI secolo gli europei erano attratti dalla Cina: dalla sua estetica e dalla sua cultura, ma anche dalle sue tecnologie all’avanguardia.

Leibniz, ad esempio, era ossessionato dalla scrittura cinese, in particolare dopo aver scoperto che l’I Ching è organizzato precisamente secondo il sistema binario che egli stesso aveva proposto. Credeva dunque di aver scoperto nella scrittura cinese un metodo combinatorio avanzato. Ma dopo il XVI secolo, la scienza e la tecnologia cinesi sono state spazzate via dall’Occidente. Secondo la visione dominante, la causa di tale cambiamento si deve alla modernizzazione di scienza e tecnologia nell’Europa dei secoli XVI e XVII. Una simile spiegazione è «accidentale», nel senso che si basa su una rottura o su un evento; ma, come cercheremo di dimostrare, è possibile individuare un altro tipo di spiegazione, che parta dal punto di vista della metafisica.

Interrogandoci sul perché in Cina non è emersa la tecnologia moderna, discuteremo i tentativi di risposta dati tanto dallo stesso Needham come da filosofi cinesi quali Feng Youlan (1895-1990) e Mou Zongsan (1909-1995). La risposta di Mou è la più sofisticata e speculativa delle due; la soluzione da lui proposta richiede la riunificazione di due sistemi metafisici: uno che specula sul mondo noumenico e fa di esso il nucleo costituente di una metafisica morale, e l’altro che tende a limitarsi al livello del fenomeno, preparando così il terreno per attività altamente analitiche. Questa lettura è chiaramente influenzata da Kant, al cui vocabolario Mou attinge frequentemente. Lo stesso Mou ricorda che, quando per la prima volta lesse Kant, rimase colpito dal fatto che ciò che egli chiamava noumeno fosse esattamente il cuore della filosofia cinese, e che la differenza tra metafisica cinese e metafisica occidentale potesse in effetti basarsi proprio sulla rispettiva focalizzazione su noumeno e fenomeno. Indugiando nella speculazione sul noumeno, la filosofia cinese tende a promuovere le attività di intuizione intellettuale, ma si astiene dall’occuparsi del mondo fenomenico: a quest’ultimo presta attenzione soltanto per prenderlo come trampolino di lancio per «le forme superiori».

È per questo che Mou afferma che, al fine di rivitalizzare il pensiero cinese, sarebbe necessario ricostruire un’interfaccia tra l’ontologia del noumeno e quella del fenomeno. Tale connessione non può giungere che dalla stessa tradizione cinese: in definitiva, per Mou è la prova del fatto che il pensiero tradizionale cinese potrebbe anche sviluppare la scienza e la tecnologia moderne, se solo si dotasse di un nuovo metodo per farlo.

Tutto questo riassume gli obiettivi del «Nuovo Confucianesimo»  che si sviluppò a Taiwan e Hong Kong dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che discuteremo nella prima parte di questo libro (§18). In ogni caso, la proposta di Mou rimane di tipo idealista, dato che considera Xin (心, «cuore»), il soggetto noumenico, come la possibilità fondamentale: dal suo punto di vista, tuttavia, attraverso l’autonegazione esso può discendere fino a divenire una regione del sapere (fenomenico). La seconda parte di questo libro servirà da critica all’approccio di Mou, e proporrà di «tornare agli oggetti tecnici stessi» come un’alternativa (o meglio, un supplemento) a tale visione idealista.

 

Modernità, modernizzazione e tecnicità

Nel tentativo di leggere attraverso la proposta di Mou – quella di un’interfaccia tra il pensiero cinese e quello occidentale – e di evitare al contempo il suo idealismo, la seconda parte di questo libro propone come elemento centrale la relazione tra la tecnica e il tempo. Mi rifaccio qui alla riformulazione della storia della filosofia occidentale attraverso la questione della tecnica proposta da Bernard Stiegler in La technique et le temps, ma va anche detto che, per la filosofia cinese, quella del tempo non è mai stata una questione reale: i cinesi non l’hanno mai elaborata, così come hanno chiaramente constatato i sinologi Marcel Granet e François Jullien. In ogni caso, nulla ci impedisce di indagare, sulla scorta del lavoro di Stiegler, la relazione tra tempo e tecnica in Cina.

Basandosi sull’opera di Leroi-Gourhan, Husserl e Heidegger, Stiegler cerca di porre fine a una modernità caratterizzata da un’inconscienza tecnologica. La coscienza tecnologica è la consapevolezza del tempo, della propria finitudine, ma anche del relazione tra tale finitudine e tecnicità. Stiegler mostra in maniera convincente come, da Platone in avanti, la relazione tra tecnica e anamnesi sia già ben stabilita e stia al centro dell’economia dell’anima. Dopo la reincarnazione, l’anima dimentica di conoscere la verità che aveva acquisito nella vita precedente, così che la ricerca della verità si converte fondamentalmente in un atto di ricordo o richiamo alla memoria.

Si tratta della famosa dimostrazione di Socrate nel Menone, dove il giovane schiavo, con l’aiuto di strumenti tecnici (tracciando segni nella sabbia), è in grado di risolvere problemi geometrici dei quali non aveva precedente conoscenza.
Viceversa, l’economia dell’anima in Oriente ha poco in comune con una simile concezione anamnestica del tempo.

In effetti, anche se gli strumenti calendariali di entrambe le culture si somigliano, in tali oggetti tecnici non solo troviamo diverse genealogie, ma anche diverse interpretazioni del tempo, che configurano la loro funzione e percezione nella vita quotidiana. Ciò si deve soprattutto all’influenza del Daoismo e del Buddhismo, che combinandosi con il Confucianesimo produssero quello che Mou Zongsan chiama «approccio sintetico alla comprensione della ragione» [綜合的盡理之精神], in contrasto con l’«approccio analitico alla comprensione della ragione» [分解的盡理之精神] della cultura occidentale. Nell’esperienza noumenica implicata dal primo, semplicemente il tempo non c’è, o più precisamente tempo e storicità non appaiono come questioni.

In Heidegger, la storicità è l’ermeneutica condizionata dalla finitudine del Dasein e dalla tecnica, che infinitizza la finitudine ritenzionale del Dasein trasmettendo la memoria esteriorizzata di generazione in generazione. Mou apprezzava la critica heideggeriana a Kant in Kant e il problema della metafisica, in cui Heidegger radicalizzava l’immaginazione trascendentale, facendone una questione di tempo. In ogni caso, Mou vede l’analisi heideggeriana della finitudine anche come un limite, dato che per Mou è xin come soggetto noumenico ciò che può in effetti «infinitizzare». Mou non formulò alcuna relazione materiale tra tecnica e xin proprio perché non era affatto attratto dalla questione della tecnica, che per lui era solo una delle possibilità dell’autonegazione dello Liangzhi (cuore/mente) (良知的自我坎陷).

In via speculativa, è a questa mancanza di riflessione sulla questione della tecnica che possiamo attribuire il fallimento del Nuovo Confucianesimo nel rispondere al problema della modernizzazione e alla questione della storicità; eppure è possibile e necessario trasformare tale mancanza in un concetto positivo, un compito affine a quello intrapreso da Jean-François Lyotard, come vedremo più avanti.
Il disinteresse rispetto al tempo e la mancanza di qualsiasi discorso sulla storicità nella metafisica cinese furono notati da Keiji Nishitani (1900-1990), un filosofo giapponese della Scuola di Kyoto che fu alunno di Heidegger a Friburgo negli anni Trenta del Novecento. Per Nishitani, la filosofia orientale non ha preso sul serio il concetto di tempo, ed è per questo che è stata incapace di dar conto di concetti come quello di storicità – ossia, l’abilità di pensare come un «essere storico».

Tale questione, in effetti, è profondamente heideggeriana: nella seconda parte di Essere e Tempo, il filosofo discuteva la relazione tra tempo individuale e Geschichtlichkeit (storicità). Ma nel tentativo di Nishitani di pensare assieme Oriente e Occidente si presentano due problemi che generano un dilemma. In primo luogo, secondo il filosofo giapponese la tecnologia apre un cammino verso il nihilum tanto quanto le filosofie di Nietzsche e Heidegger, mentre, nel buddhismo da lui abbracciato, śûnyatā (vuoto) mira a trascendere il nulla, tanto che in questa trascendenza il tempo perde ogni significato. In secondo luogo, Geschichtlichkeith e in seguito Weltgeschichtlichkeit (storicità universale) non sono possibili senza un sistema ritenzionale – il quale, come mostra Stiegler nel terzo volume di La technique et le temps, è anch’esso tecnico. Ciò significa che non è possibile essere coscienti della relazione tra Dasein e storicità senza essere coscienti della relazione tra Dasein e tecnicità – in altre parole, che la coscienza storica necessita una coscienza tecnologica.

Come affermo nella seconda parte di questo libro, la modernità funziona secondo un’incoscienza tecnologica che consiste in una dimenticanza dei limiti propri a ciascuno, così come descritto da Nietzsche in La gaia scienza: «Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna!». Tale frangente si origina precisamente nella mancanza di consapevolezza degli strumenti che si hanno a disposizione, così come dei loro limiti e dei loro pericoli. La modernità ha fine quando sorge una coscienza della tecnologia, nel doppio senso di una coscienza del potere della tecnologia e della condizione tecnologica dell’essere umano. Per affrontare le questioni sollevate da Nishitani e Mou Zongsan, occorre articolare la questione del tempo e della storia con quella della tecnica, per aprire un nuovo campo ed esplorare un pensiero che permetta di connettere l’ontologia noumenica con l’ontologia fenomenica.