Micro-comunità e nuova società – John P. Clark

Un’esplorazione delle possibilità a disposizione delle comunità per realizzare progetti di rigenerazione della società e di liberazione dei poteri creativi umani

di: John P. Clark

Il testo che segue fa parte di una ricerca che intende tracciare i contorni di una comunità libera, ovvero di una comunità che sia al contempo di liberazione e solidarietà, di risveglio e cura. Il libro da cui è tratto, Dallo stato alla comunità: il mondo di domani di John P. Clark, si concentra sia sugli esperimenti concreti che hanno portato alla creazione di comunità, sia sulle necessarie indagini teoriche. Per raggiungere l’obiettivo di dare vita alla “società di domani” è indispensabile esprimere e formare un ethos, un immaginario e una razionalità sociale, trasformando parallelamente la materialità sociale, ovvero la matrice ecologica (fisica, chimica, biologica) da cui queste altre sfere non sono separabili. Dice l’Autore: “Ciò di cui abbiamo urgentemente bisogno sono comunità realizzate di liberazione e solidarietà che siano anche comunità di risveglio e cura. Queste comunità utopiche sono “comunità impossibili” perché sono al di fuori del perimetro tracciato dalle strutture istituzionali dominanti, dall’ideologia sociale dominante, dall’immaginario sociale dominante e dall’ethos sociale dominante. Diventano però possibili quando diventano reali, trovando ispirazione nelle molte comunità impossibili che sono o sono state reali, nei tanti esempi positivi rintracciabili nella storia delle comunità indigene, delle comunità maroon e delle comunità intenzionali. Diventano possibili attraverso il processo di creazione, qui e ora, di una nuova struttura sociale istituzionale, di una nuova contro-ideologia o visione del mondo, di un nuovo immaginario sociale”.
John P. Clark è professore emerito di filosofia alla Loyola University di New Orleans, oggi dirige il centro di ricerca “La Terre Institute for Community and Ecology”. Ha partecipato attivamente ai gruppi di mutuo appoggio nati in seguito alle distruzioni causate nel 2005 dall’uragano Katrina e, più recentemente, ha collaborato con gruppi come No Bayou Bridge, 350 NOLA e Extinction Rebellion e svolge attività educativa sia a New Orleans sia a Bayou La Terre, un sito di 88 acri nel cuore della foresta costiera della Louisiana.
Il libro, da cui è tratto il brano proposto, è pubblicato da Eleuthera. Ringraziamo la casa editrice per la disponibilità.

 

 

Micro-ecologia della comunità

La teoria sociale radicale della scorsa generazione ci ha parlato molto più della micro-fisica del potere che della micro-ecologia della comunità. Credo che il predominio del primo approccio non sia tanto il riflesso di un’intrinseca superiorità del post-strutturalismo e di altri modi assai diffusi di analisi, quanto il sintomo del carattere difensivo della cultura d’opposizione nel nostro tempo. Una forte attenzione alla fisica del sistema di potere, nonché alla rappresentazione dell’azione sociale in termini di strategie e tattiche modellate in gran parte in reazione a questo sistema, tradisce un certo livello di capitolazione a un ordine dominante meccanicistico e oggettivante.

Si è infatti largamente assunto, e non solo tra i teorici post-moderni e post-strutturalisti, ma anche tra gli attivisti politici, che il destino storico dei movimenti d’opposizione sia essenzialmente un futuro di lotta permanente contro il sistema di potere, e allo stesso tempo un futuro segnato dall’esercizio della forza contro quel sistema per limitarne il funzionamento e deviarne la traiettoria. Per molti, le più alte aspirazioni della cultura d’opposizione sembrano risiedere in piccole vittorie tattiche all’interno di un sistema fondamentalmente immobile e in forme di godimento e creatività rese possibili dalle lotte all’interno del vasto labirinto del potere.

L’ideologia della lotta permanente incarna alcune importanti verità sulle nostre risorse creative di fronte al dominio, ma se queste verità non sono collocate all’interno di una problematica più ampia, affermativa e creativa, diventano facilmente una ricetta per la disillusione e il nichilismo. Tale problematica più ampia è alla base della micro-ecologia della comunità.

Questo approccio persegue un’attenta esplorazione della natura e delle possibilità a disposizione della comunità al livello molecolare della società, e indirizza le nostre speranze e i nostri sforzi verso un progetto di rigenerazione della società e di liberazione dei poteri creativi umani attraverso l’impegno nel realizzare quel progetto. Il quale muove dal presupposto che la società, per quanto meccanizzata e oggettivata possa diventare, rimanga comunque un insieme organico, dinamico e in sviluppo dialettico: il prodotto dell’attività creativa umana in interazione con il mondo naturale di cui è una dimensione inseparabile.

La società è plasmata dal pensiero, dall’immaginazione e dall’attività trasformativa degli esseri umani, ed è il risultato del tipo di relazioni primarie che essi intrattengono tra di loro. La riflessione sui processi (specialmente a livello micro) attraverso i quali si generano la società e la cultura può aiutare a cambiare l’immagine che abbiamo di noi stessi: da quella di semplici osservatori critici del sistema sociale, l’oggetto sociale generalizzato, a quella di partecipanti attivi che plasmano il mondo mediante i variegati contributi forniti alla riproduzione sociale, alla disintegrazione sociale, alla creazione sociale e alla rigenerazione sociale.

È stato prima suggerito che per una politica radicale rinnovata la preoccupazione più immediata debba essere la creazione di solide e fiorenti comunità di solidarietà e liberazione. Una tale forma di comunità è profondamente impegnata nella ricerca della libertà comunitaria, ovvero nel processo teso a sostituire un sistema di dominazione dei singoli e della comunità attraverso la forza, la violenza e la coercizione con un sistema di cooperazione volontaria e mutualistica. In altre parole, un processo teso a sostituire non solo un sistema di dominazione della persona e della comunità attraverso lo sfruttamento, la manipolazione e la strumentalizzazione con un sistema di autorealizzazione personale e comunitaria, ma anche un sistema di dominazione della persona e della comunità attraverso l’alienazione e l’oggettivazione con un sistema basato sull’autonomia, l’autodeterminazione e la libera espressione di sé.

Tali comunità sono descritte come comunità di solidarietà e liberazione. Sarebbe importante che la sinistra occidentale ritornasse di nuovo a parlare il linguaggio piuttosto démodé della «liberazione». Da molto tempo ormai la sinistra «rispettabile» ha deciso che questo discorso è troppo pericoloso, tant’è che preferisce definire se stessa con il termine «progressista». Non è un segreto che negli Stati Uniti questo termine è stato in parte inventato come eufemismo per liberal, l’orientamento politico di sinistra che non osa più pronunciare il proprio nome. Ma il termine è ormai diventato anche una generica etichetta per praticamente tutto ciò che è vagamente di sinistra, in una cultura politica sempre più determinata dalle iniziative della destra. L’ascesa del «progressismo» è stato uno sviluppo eminentemente regressivo.

L’abbandono di termini come «liberazione delle donne», «liberazione dei neri», «liberazione dei gay» ecc. ha coinciso con la marginalizzazione dei resti di quelli che una volta erano chiamati «movimenti di liberazione» e la cooptazione dei loro temi nell’agenda politica mainstream. Tutto sommato, il discorso dell’«autodeterminazione» e della «libertà» è stato lasciato ai conservatori e ai libertariani di destra, con conseguenze deplorevoli. Il predominio del concetto negativo e individualista di libertà come «essere lasciati in pace» è quasi incontrastato, mentre il concetto positivo e sociale di libertà come agire collettivo e partecipazione all’autorealizzazione multidimensionale comunitaria è raramente menzionato. È in questo contesto che il concetto di comunità di solidarietà e liberazione assume un’importanza cruciale.

È essenziale cercare ispirazione per far emergere tali comunità non solo in alcuni capitoli trascurati della lunga e variegata storia dei movimenti radicali e rivoluzionari, ma anche nei tanti esempi contemporanei di riorganizzazione sociale dal basso in tutto il mondo. È altresì cruciale comprendere come i successi conseguiti dai movimenti reazionari (e in particolare quelli della destra fondamentalista) siano in gran parte dovuti ai loro successi nella costruzione di comunità e nella creazione di forme organizzative di base che soddisfano i bisogni sociali primari. Dobbiamo inoltre renderci ben conto di come il successo, tanto dei movimenti di liberazione quanto di quelli reazionari, sia dipeso dalla loro capacità non solo di creare piccole comunità che incarnano un insieme molto articolato di valori, idee, credenze, immagini, simboli, riti e pratiche, ma anche di mobilitare politicamente queste comunità.

Si potrebbe sostenere che ogni micro-comunità che possiede tali qualità esemplifica un processo di «condensazione sociale». Ovvero rende manifesti e disponibili alla pratica aspetti dell’ideologia e dell’immaginario sociale che di solito rimangono in gran parte inconsci, intensificando così il potere e l’efficacia di queste importanti forze sociali che però rimangono per lo più inespresse. Queste forze si realizzano in una forma organizzativa concreta e in un oggetto sociale immaginario distintivo.

Nel raggiungere un certo grado di oggettività sociale, la piccola comunità apre nuovi canali di efficacia sociale e nuove possibilità autotrasformative per i suoi membri, sebbene corra sempre il rischio di irrigidirsi e reificarsi (il declino della reciprocità di gruppo verso la serialità, come lo chiamava Sartre). Considerando, nel contesto della sempre più evidente impasse organizzativa della sinistra, il potere latente di tali comunità, è urgente indagare (non solo teoricamente ma soprattutto sperimentalmente) la possibilità di creare gruppi primari di liberazione, ovvero le forme più elementari delle comunità libere e solidali.

 

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L’esperienza delle comunità di base

L’esempio più noto del piccolo gruppo che agisce per la trasformazione sociale è quello offerto dalle comunità di base dell’America Latina, le quali iniziarono a fiorire negli anni Sessanta e Settanta e alla fine crebbero fino a diventare un movimento internazionale che comprendeva centinaia di migliaia di piccoli gruppi e molti milioni di partecipanti. Influenzate dalla teologia della liberazione, sono diventate attori centrali in un’ampia gamma di lotte rivoluzionarie e per la giustizia sociale nel Sud e nel Centro America. Il progetto di queste comunità è stato quello di realizzare una sintesi tra il messaggio cristiano dell’amore, il messaggio di giustizia sociale dei profeti ebrei e l’analisi di classe del marxismo, nel contesto fondamentalmente anarchico di una piccola comunità faccia-a-faccia di solidarietà e liberazione.

Le comunità di base sono quasi sempre associate all’America Latina, ed è stato comunemente ritenuto che la società nord-americana sia stata in qualche modo immune da tali tendenze. È vero che non c’è stato negli Stati Uniti nulla di comparabile con la massiccia partecipazione delle comunità di base ai movimenti di sinistra e rivoluzionari dell’America Latina. Tuttavia, un numero significativo di comunità di base è esistito anche in Nord America.

La differenza cruciale è stata l’assenza di una grande sinistra coerentemente organizzata, nella quale avrebbero potuto essere integrate e dalla quale avrebbero potuto essere radicalizzate o rivoluzionate, e che a loro volta avrebbero potuto ulteriormente radicalizzare o rivoluzionare. Nondimeno è verosimile che i membri di tali comunità abbiano giocato un ruolo significativo nell’attivismo portato avanti da una sinistra americana frammentata e dispersa, che si è per lo più espressa in politiche di gruppi d’interesse incentrate su questioni di giustizia sociale (contro la guerra, la riforma delle carceri, le libertà civili, i diritti sociali ecc.).

Una ricerca accurata è stata condotta su un segmento importante delle comunità, quelle associate alla Chiesa Cattolica Romana. I risultati sono sorprendenti e istruttivi per chiunque sia interessato alla trasformazione sociale. Uno studio condotto da Bernard Lee ha scoperto che negli Stati Uniti circa un milione di cattolici partecipavano a più di trentasettemila (e forse persino cinquantamila) piccole comunità di base al momento della ricerca. Queste comunità erano tipicamente composte, oltre ai bambini, da tredici-diciassette adulti, per più del 60% donne. La grande maggioranza si riuniva con frequenta settimanale o quindicinale, di solito nelle case dei membri.

Lee ha scoperto che i membri di questi gruppi cercavano un livello più profondo di comunità e di esperienza spirituale di quello che trovavano nelle istituzioni religiose più tradizionali. Le comunità di base offrivano loro una modalità più partecipativa e un’espressione più personale ed esperienziale della loro fede religiosa. In confronto alle comunità di base latinoamericane, le comunità nord-americane avevano un numero maggiore di membri della classe media, anche se questo era meno vero per le comunità ispaniche e di altre minoranze etniche.

Se queste piccole comunità non hanno certamente giocato un ruolo politico così radicale come i loro analoghi latinoamericani, è significativo che un quinto di esse si sia impegnato esplicitamente per la giustizia e la trasformazione sociale. Ciò significa che all’epoca del sondaggio c’erano negli Stati Uniti circa diecimila comunità di questo tipo notevolmente politicizzate. Tra l’altro queste piccole comunità sperimentavano una grande vitalità in un periodo in cui il cattolicesimo americano era in crisi e vedeva un generale declino nell’impegno e nella partecipazione.

La storia recente dei gruppi di affinità radicali e delle piccole comunità religiose mostra come l’efficacia sociale della piccola comunità non sia una semplice ipotesi, ma piuttosto una realtà dimostrata. Non si sa fino a che punto tali comunità possano costituire la base per una trasformazione sociale di vasta portata, ma è chiaro che possono soddisfare bisogni importanti nella vita di molti milioni di persone e che hanno giocato un ruolo significativo nei recenti movimenti di cambiamento sociale in diversi paesi.

 

Ecocomunità o barbarie?

La creazione di una nuova società che consiste in una comunità più grande composta da comunità primarie è forse – come la chiamava Buber, e come alcuni la etichetteranno in modo sprezzante – un «sentiero in utopia». Ma bisogna tenere sempre presente che tutti gli elementi di una tale società esistono già in qualche forma nei gruppi e nelle comunità attuali. Le barriere che ostacolano questo cammino non sono certamente materiali, ma sono piuttosto ideologiche, immaginarie, culturali e psicologiche. L’ethos politico dominante ricorda lo stato dei festaioli bloccati nel famoso film di Buñuel L’Angelo sterminatore. Sebbene la folla fosse pronta ad andarsene, rimaneva lì imprigionata dalla sua stessa immobilità, di fatto autoimposta: un monumentale e assurdo fallimento della volontà.

A volte si sente dire, specialmente da parte degli ecologisti radicali, che la migliore speranza per una trasformazione ad ampio raggio della società è una catastrofe sociale ed ecologica talmente grande che anche i segmenti più indottrinati ed evasivi dell’opinione pubblica dovranno concludere che qualcosa è fondamentalmente sbagliato nel sistema dominante. Da questo punto di vista, dovremmo forse rallegrarci dell’attuale corso della storia, poiché siamo diretti verso un livello di disastro sociale ed ecologico globale che renderà certamente evidente la necessità di soluzioni drastiche.

Tuttavia, la triste realtà è che questo tipo di catastrofismo messianico è più probabilmente una strada verso il fascismo (e più specificamente verso l’ecofascismo) che verso una società libera. In assenza di un movimento forte e teso alla liberazione dell’umanità e della natura, i disastri produrranno solo paura, passività e un grido disperato per una soluzione autoritaria, anche se la tirannia questa volta potrebbe provare ad abbellirsi con un tocco di green. Lo sviluppo di forti comunità di liberazione all’interno di una forte cultura del cambiamento tesa alla liberazione dell’umanità e della natura è l’unica vera barriera al continuo intensificarsi della crisi sociale ed ecologica e all’autoritarismo che necessariamente genererà.

In effetti, potremmo trovare motivi di ottimismo nella crescente consapevolezza delle contraddizioni dell’esistente, se riuscissimo a incanalarla immediatamente in forme di organizzazione che siano veramente trasformative e liberatorie. Tale consapevolezza (o almeno il suo potenziale oggettivo) è destinata a crescere man mano che le grandi contraddizioni all’interno del sistema aumenteranno. Se la spinta verso la devastazione ecologica del sistema mondiale dominante riflette la seconda contraddizione del capitalismo, la spinta verso la devastazione dello spirito umano e della comunità rivela una terza contraddizione fondamentale del capitalismo che diventa sempre più evidente. E via via che queste contraddizioni crescono, i nostri desideri sempre più repressi nei confronti della natura e della comunità diventano forze sempre più rivoluzionarie.

Forse c’è del vero nella tesi di E.O. Wilson che – a causa della nostra evoluzione strettamente correlata al mondo naturale – possediamo una profonda «biofilia» dalla quale possiamo attingere per accorrere in difesa della natura. Tuttavia, sembra ancora più probabile che i nostri molti millenni di esistenza comunitaria abbiano prodotto in noi anche una «sociofilia» o «comunofilia», che è ancora più potente e che può auspicabilmente essere mobilitata a favore della comunità.

 

J. P. Clarck, Dallo stato alle comunità