di: Franco «Bifo» Berardi - Lorenza Pignatti
“Adbusters” ha cartografato la battaglia della mente e la guerra di liberazione che individui, collettivi e movimenti sociali compiono per salvare l’autonomia e il pensiero critico.
La rivista si è occupata fin dai primi numeri di questioni di carattere ecologico e ambientale, perchè i temi della riflessione politica più avanzata non possono prescindere dall’ecocidio in atto. L’interesse per la tutela dell’ambiente è parte integrante della storia della rivista, fondata nel 1989 in seguito alla campagna di comunicazione sociale realizzata da Kalle Lasn insieme a un gruppo di militanti ecologisti, per contrastare i progetti della maggiore azienda forestale della British Columbia di abbattere una parte della foresta canadese.
Fin dai primi anni Novanta hanno pubblicano articoli riguardanti global warming e effetto serra, scritto del disastro industriale di Bhopal, avvenuto nel 1984 quando nello stabilimento chimico della Union Carbide di Bhopal in India furono rilasciati oltre 42 tonnellate di un composto chimico utilizzato per la produzione di pesticidi, che ha causato 25 mila morti e danni irreversibili a 560 mila persone.
Hanno sostenuto Critical Mass, iniziativa nata a San Francisco nel 1992 da un gruppo di ciclisti che si unirono con l’obiettivo di liberare la città dal dominio delle auto, e documentato le manifestazioni di protesta organizzate nel maggio del 2000 a Genova da ambientalisti, associazioni e centri sociali italiani contro Tebio, prima mostra-convegno internazionale sulle biotecnologie.
Manifestazione che ha portato alla sospensione dell’evento e alla creazione di un protocollo firmato dall’Italia e altri 65 paesi per il controllo della creazione e diffusione degli OGM, organismi geneticamente modificati. Nel 1998 pubblicarono alcuni interventi di Jeremy Rifkin, tratti da Il secolo Biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era. Nel libro Rifkin sottolineava l’unione di diversi settori della scienza della vita, dall’agricoltura alla medicina, alla genetica, per creare un nuovo contesto economico per favorire la creazione del mercato biotech. Anche se all’epoca erano la pecora Dolly e i dibattiti sulla clonazione artificiale a colpire l’opinione pubblica, erano già in atto politiche in grado di riorganizzare la vita a livello genetico in ambiti diversi come l’agricoltura, gli allevamenti di bestiame, la farmaceutica e la medicina.
Si sono occupati della salvaguardia delle culture indigene, della guerra in Iraq e in Siria, del conflitto israelo/palestinese, delle rivendicazioni del popolo Kurdo, del movimento femminista, delle manifestazioni degli attivisti a Hong Kong, e più recentemente di quelle in Cile e a Beirut, e di Extinction Rebellion, movimento nato a Londra nel 2018, che invita alla disobbedienza civile per sensibilizzare l’opinione pubblica sul disastro climatico e ecologico in atto.
Nel numero di novembre-dicembre del 2016 hanno pubblicato un frammento del libro Dark Age America. Climate Change, Cultural Collapse, and the Hard Future Ahead scritto da John Michael Greer. Ambientalista e storico delle idee, Greer ha pubblicato numerosi libri riguardanti il cambiamento climatico e l’esaurimento delle risorse naturali, chiedendosi come la società e gli individui possano, in futuro, rispondere e/o adeguarsi a tali scenari.
Dark Age America delinea la fase di declino della società nordamericana, quando le megalopoli saranno trasformate in slum e in incubatori per il diffondersi di malattie infettive, a causa della carenza di adeguate strutture sanitarie pubbliche, sempre più incapaci di affrontare le mutate esigenze sociali e ambientali.
Le epidemie, scrive Greer, sono un tratto comune nella storia delle civiltà in declino e si diffondono a causa di errate politiche ambientali. L’immagine che accompagna il testo mostra una campagna abbandonata popolata da un’umanità alla deriva che cerca di rendere fertile un terreno impoverito, diventato però l’unica forma di sussistenza. Difficile non riconoscere, ancora una volta, la capacità premonitrice di “Adbusters” che in tempi non sospetti, nel 2016, pubblicava un testo, da noi tradotto, che anticipa la pandemia che si sarebbe scatenata a causa del virus Covid-19.
Come ha scritto Greta Thunberg nell’articolo pubblicato nel numero di settembre-ottobre 2019 della rivista, sono numerosi i segnali che dovrebbero rendere consapevoli i politici dell’urgenza di attuare una transizione ecologica che tuteli le comunità e interrompa l’ecocidio ambientale. Il cambiamento climatico non ha però la stessa immanenza paralizzante della pandemia virale, anche se la velocità esponenziale con cui si stanno alterando gli ecosistemi è vertiginosa.
“Voglio che andiate in panico ascoltando le mie parole” aveva dichiarato la Thunberg nel discorso pronunciato al Forum economico mondiale di Davos, nel gennaio 2019. Ma i politici non sono andati nel panico per il riscaldamento globale. Nonostante le previsioni scientifiche, gli incontri internazionali e i mancati accordi, non hanno ancora risposto alla chiamata della Thunberg, e ai tanti giovani che hanno partecipato ai FridaysForFuture nei diversi paesi.
La catastrofe ecologica non è più reversibile e neppure contenibile: questo spiega la crescita delle forze politiche che negano il problema. Contrariamente alle fantasie utopiche che saremo salvati dall’intelligenza artificiale o da qualche altra nuova tecnologia, l’Antropocene ci insegna che non possiamo trascendere i nostri limiti o la nostra dipendenza da altri esseri viventi, di tipo animale, vegetale o minerale.
Le politiche economiche che ignorano i limiti ecologici e non rispettano gli imperativi ambientali stanno determinando una catastrofe oltre ogni immaginazione, che si concretizza nelle emergenze virali o ambientali come l’incubo dell’aria irrespirabile di New Delhi e l’incendio terrificante in Australia avvenuti nell’inverno dello scorso anno, o la recente pandemia causata dal Covid-19. Emergenze che minacciano le forme di vita e la nostra stessa esistenza.
Ancora non sono state messe in discussione politiche ambientali di tipo estrattivista. L’estrattivismo è un modello di sviluppo che segna l’inizio del capitalismo dell’epoca moderna, quando l’Impero spagnolo nel 1545 sacrificò 8 milioni di indigeni per estrarre l’argento dalla miniera del Cerro Rico de Potosí, nell’area che è ora occupata dal Perù e dalla Bolivia. Nel diciassettesimo secolo Potosí era una delle principali città del mondo – con una popolazione maggiore di quella di Londra o Parigi – un centro finanziario che ha sostenuto l’economia dell’impero spagnolo per quasi due secoli sfruttando la popolazione indigena che lavorava in condizioni di schiavitù.
La riflessione sull’inseparabilità della storia sociale e economica europea dalle sue colonie, ignorata fin dal XVI secolo, è stata indagata nella collettiva The Potosí Principle. How shall we sing the Lord’s song in a strange land? I curatori della mostra hanno analizzato i parallelismi esistenti tra le forme ideologiche della pittura barocca coloniale e quelle adottate dal sistema dell’arte contemporanea per legittimare le nuove élite della globalizzazione. Élite che si nutre degli stessi principi egemonici degli antichi colonizzatori europei.
La mostra è stata prodotta e presentata dal Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid e da Haus der Kulturen der Welt di Berlino, per poi essere ospitata in Bolivia al Museo Nacional de Arte e al Museo de Etnografía y Folklore di La Paz.
I conquistadores spagnoli sono stati sostituiti nel corso del tempo da aziende statali/private e da multinazionali per estrarre materie prime come petrolio, minerali e risorse naturali, da paesi che sono in condizioni di subalternità economica rispetto ad altri. Materie prime che vengono trasferite e trasformate, senza riconoscere i diritti delle popolazioni indigene che li vivono e da cui dipendono per il proprio sostentamento.
L’estrattivismo contemporaneo si basa anche su altre, sempre più preziose materie prime, sui dati forniti gratuitamente attraverso le navigazioni in rete. Dati che le piattaforme di Facebook, Apple, Google e Amazon raccolgono per utilizzarli a fine commerciali, per il marketing pubblicitario e per attivare processi di deep learning. Processi che permettono di realizzare sistemi avanzati di intelligenza artificiale. Un esempio è Google translator che apprende e migliora le sue prestazioni grazie all’estrazione delle informazioni da noi fornite.
È un servizio gratuito perché Google, come per molti altri suoi servizi, dà un valore ulteriore a quei dati, trasformati in dati comportamentali che “producono un surplus che forma la base di una nuova classe di beni da scambiare sul mercato.
Il capitalismo della sorveglianza nasce da questo esproprio digitale” come scrive Shoshana Zuboff nel suo libro più celebrato Il capitalismo della sorveglianza. E aggiunge:
“Non siamo più il soggetto e nemmeno, come invece ha affermato qualcuno, il prodotto delle vendite di Google. Siamo invece gli oggetti dai quali vengono estratte le materie prime, espropriate dall’azienda per le proprie fabbriche di previsioni. Il prodotto di Google sono le previsioni sui nostri comportamenti, che vengono vendute a suoi reali clienti, e non a noi. Noi siamo i mezzi per lo scopo di qualcun’altro.”
Se il capitalismo industriale trasformava le materie prime naturali in prodotti, ora il capitalismo della sorveglianza sfrutta i comportamenti degli individui per produrre nuove merci e nuovi stili di vita. La Zuboff sottolinea inoltre come i dati estratti dalle nostre vite possano essere utilizzati per forme di controllo di life pattern marketing (analisi dei pattern di vita), tecniche utilizzate dalla ricerca militare, per creare forme di neuroprogrammazione comportamentale.
Estrattivismo, cieche politiche economiche che non rispettano l’ambiente e perpetuano il credo che crescita economica significhi accumulazione di capitale, competizione e consumo, sono posizioni da contrastare perchè è indubbio che la crescita continua è incompatibile con la sopravvivenza del genere umano proiettata sul lungo periodo. L’associazione non governativa Club di Roma, lo aveva ribadito con chiarezza già nel 1972, nel libro intitolato Rapporto sui limiti dello sviluppo, in cui dichiarava che “un pianeta finito non può sostenere una crescita economica infinita”.
Per la sopravvivenza degli umani non è necessaria la crescita infinita, è necessaria una distribuzione egualitaria di ciò che l’intelligenza tecnica e l’attività dell’uomo possono produrre. Basterebbe attuare una cultura della frugalità, che non significa né povertà né rinuncia, ma spostamento dell’attenzione dalla sfera dell’accumulazione alla sfera del godimento.
Il capitalismo cambia sempre, ma in sostanza non può cambiare. Si fonda sullo sfruttamento illimitato del lavoro umano, del sapere collettivo e delle risorse fisiche del pianeta. Ha svolto la sua funzione negli ultimi cinquecento anni, ha reso possibile l’enorme progresso della modernità, l’orrore del colonialismo e delle diseguaglianze.
Come scrive Naomi Klein in Shock Economy, il capitalismo ha bisogno di disastri naturali e guerre per mettere in atto politiche economiche predatorie. L’economia del disastro permette di veicolare e legittimare il paradigma neoliberale e attuare politiche distruttive, finalizzate alla distribuzione di ricchezza verso grandi gruppi finanziari. La scrittrice canadese sottolinea come alcune drammatiche violazioni dei diritti umani, considerate atti di crudeltà compiuti da regimi antidemocratici, siano state commesse con l’intento di terrorizzare l’opinione pubblica per permettere radicali riforme economiche.
Sfruttare crisi e disastri è il modus operandi del credo capitalista, attuato da Milton Friedman e dagli economisti della Scuola di Chicago in Cile negli anni Settanta. Traumi collettivi hanno permesso di sospendere pratiche democratiche, come accadde in Cina, dove lo shock del massacro di piazza Tienanmen nel 1989 e gli arresti di decine di migliaia di persone, permisero al partito comunista di trasformare la maggior parte del Paese in una immensa fabbrica di produzione a basso costo, con lavoratori troppo spaventati per rivendicare i loro diritti. Gli attacchi dell’11 settembre 2001 hanno permesso a George W. Bush e ai politici di Washington di imporre con la forza militare la politica Shock and Awe, parte di una tradizione iniziata già tre decenni prima in Sud e Centro America […].
Svelamento
Gli ultimi quarant’anni sono stati il tempo della guerra neoliberista di tutti contro tutti, del tempo della connessione spasmodica e volontaria. Il futuro e il presente sembrano essere sfuggiti alla capacità di comprensione di coloro che dovrebbero scegliere, decidere, governare, che scelgono invece di delegare a macchine e a tecnologie di tracciamento e controllo la responsabilità delle scelte. E non si tratta unicamente di tracciamenti a causa di emergenze sanitarie.
La Cina con l’imposizione dei social credit system sul controllo della popolazione, un sistema nazionale che funziona come forma di sorveglianza di massa, sta già mostrando il nostro futuro gamificato, irregimentato dentro una performance continua, in cui si è parte di un gioco algoritmico che non finisce mai.
Il sistema, in vigore dal 2014 anche se non ancora in atto nella sua totalità, intende classificare la reputazione dei propri cittadini con un punteggio che si basa sulle informazioni possedute dal governo riguardo alle azioni online e offline di ogni singolo cittadino. Il sistema mira a punire ogni minima trasgressione come l’appartenza o il sostegno ad organizzazioni non riconosciute dal governo, il ritardo nel pagamenti di debiti o multe o un’eccessiva dipendenza dai videogiochi.
Le punizioni sono diverse includono le limitazioni nell’uso dei mezzi pubblici, il divieto di viaggiare e di lasciare il paese, l’impossibilità accedere ad alcuni posti di lavoro, a scuole e a i servizi sanitari, oltre alla stigmatizzazione sociale e al public shaming, con l’iscrizione in Blacklist pubbliche, in cui schermi TV proiettano i nomi dei cattivi cittadini, come è possibile leggere nell’articolo Annullare il dissenso: la Cina mostra come controllare l’umanità, pubblicato su “Adbusters” nel numero di maggio-giugno 2018, scritto da Adam Ra, e da noi tradotto.
Le nuove forme di controllo e di tracciamento, in uno scenario sociale simile a quello narrato dalla serie televisiva Black Mirror, sono rese possibili grazie all’accelerazione delle retoriche sul potere dell’intelligenza artificiale. È opportuno ricordare che quando si parla di intelligenza artificiale non si parla unicamente di programmatori e ricercatori, ma di decine di milioni di persone sfruttate nei tanti data center, di addetti alla moderazione dei contenuti online, di minatori che scavano nelle miniere di litio o che sono al lavoro in fabbriche di rifiuti elettronici o in allevamenti intensivi, e di padroncini che consegnano prodotti e cibo per le varie catene di delivery.
Le retoriche sull’intelligenza artificiale permettono l’attuazione di forme di governance invasive che ci tracciano sottopelle, mascherate sotto promesse di un futuro sempre più smart e tecnologico. Scrive il collettivo Ippolita su il quotidiano “il Manifesto” dello scorso aprile:
“Non esistono tecnologie di controllo che siano anche ‘etiche’. Le multinazionali dell’Information Technology si occupano della governance dei cittadini, non unicamente di comunicazione. O lo Stato sceglie di caratterizzare il proprio agire in modo radicalmente diverso, rendendo la governance dei cittadini un valore politico da contrapporre al totalitarismo tecnologico, oppure è destinato a farsi soppiantare da Google e simili, cosa che, se guardiamo alla scuola pubblica, e ai software usati per le call e lo smartworking durante la pandemia del Covid-19, sembra già essere a uno stadio avanzato.”
È indubbio che il controllo e la sorveglianza, in modi e forme diverse, siano sempre più presenti nella società contemporanea, come testimoniano i romanzi di Basma Abdel Aziz, Mark Doten, Christine Dalcher, i film Matrix, Strange Days, Minority Report, eXistenZ, per ricordarne solo alcuni. E se la narrazione distopica, di carattere tecnologico o bio-ambientale, come dimostra la recente pandemia virale, ha preso il posto dell’utopia nell’immaginazione del futuro, questa constatazione può condurci a esiti diversi.
Vi è un esito cinico, che consiste nel piegare la testa di fronte all’inevitabile, nell’abbandonare ogni speranza di coerenza etica e di bellezze estetica per vivere la “propria” vita nell’unico modo che appare possibile, un modo inaccettabile che siamo costretti ad accettare. Ma vi è un altro esito, che chiameremmo ironico-distopico. La visione del non futuro distopico conferma l’inevitabilità di un rafforzarsi della trappola capitalistica e della sua evoluzione tecno-totalitaria. Ci siamo ribellati mille volte e non siamo riusciti a trovare la via di uscita da questa trappola. Dunque dobbiamo piegarci all’inevitabile?
Lo spirito ironico ci suggerisce invece un’altra strada: possiamo ricordarci che l’inevitabile generalmente non si realizza perché l’imprevedibile alla fine sguscia fuori dal caos e finisce per prevalere. Possiamo ricordarci che il probabile non è che un’illusione determinista, e che il possibile si nasconde da qualche parte nel panorama distopico, e apre la strada verso prospettive nascoste che proprio la catastrofe distopica ci aiuterà a rendere evidenti.
È esattamente quello che è accaduto nell’anno 2020.
L’anno inizia con toni cupi, di spegnimento di ogni speranza, dopo la convulsione dell’autunno ’19. Poi tutt’a un tratto da una città lontana giunge l’annuncio dell’apocalisse. E l’apocalisse si diffonde nel mondo in forma virale, come da tanto tempo aveva previsto William Burroughs, che della letteratura distopica è stato un grande sacerdote.
Apocalisse, non lo si dimentichi, è una parola che non va intesa solo negativamente. Etimologicamente significa “svelamento”, scoperta di qualcosa che ora esplode visibile e doloroso, ma che già esisteva nel mondo apparentemente pacificato della normalità. Anche la parola catastrofe contiene significati non riducibili all’enunciazione di un avvenimento distruttivo. L’etimologia della parola rimanda a un’alterazione, a una proiezione che crea un movimento (kata = oltre, strofein = muoversi).
La catastrofe è un movimento che ci permette di vedere oltre il mondo che abbiamo conosciuto fino a ieri. Allo stesso modo l’interpretazione ironica può offrire all’immaginazione distopica un esito felicemente evolutivo, invece di sottrarlo alla sfera dell’immaginazione e della volontà umana, come dimostra il collettivo “Adbusters”, nella bellezza sublime e disperata delle pagine della rivista e nelle azioni proposte nel corso degli ultimi tre decenni.
Pubblicato il: 23.12.2020
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita