di: Edgar Morin
Meglio aggiungere vita ai giorni
che non giorni alla vita
Rita Levi Montalcini
Premio Nobel per la medicina
La parola vivere contiene un doppio senso. Il primo è essere in vita, esistere, cosa che assicura la nostra organizzazione biofisica, che mantiene il nostro stato di viventi attraverso la sua resistenza alla degradazione mortale: respirare, nutrirsi, proteggersi. In questo senso, vivere significa solamente mantenersi in vita, cioè sopravvivere. Il secondo senso della parola vivere è quello di vivere la propria vita con le sue opportunità e i suoi rischi, le sue possibilità di gioia e di sofferenza, le sue felicità e le sue infelicità.
Il sopravvivere è necessario alla vita, ma una vita ridotta al sopravvivere non è più la vita.
È la prima scoperta che ho fatto, a dodici anni, vedendo l’esistenza miserabile dei mendicanti nell’Opera da tre soldi. Più tardi, e più ampiamente, non ho smesso di constatare le immense e innumerevoli miserie umane, ove sopravvivere nel bisogno, nell’indigenza, sotto l’oppressione e l’umiliazione era sotto-vivere, ancora peggio che sopravvivere.
Questa è una delle tragedie umane più profonde e più universalmente diffuse: tante vite consacrate e condannate alla sopravvivenza. È uno dei compiti essenziali di una politica umanista: creare le condizioni che diano la possibilità non solo di sopravvivere ma anche di vivere.
Vivere è poter gioire delle possibilità che la vita offre, cosa che ho appreso progressivamente.
Io, Tu e Noi
Il mio bisogno essenziale, fin dall’adolescenza, fu la realizzazione delle mie aspirazioni, e nello stesso tempo il desiderio di vivere in una comunità di amore e/o di amicizia. Ho scoperto che questo desiderio è universale, sebbene vi sia spesso la rinuncia e soprattutto l’impossibilità di soddisfarlo. Accade, in modo particolare nella nostra civiltà, che la prima aspirazione, individuale, diventi individualista, poi egoista e che il Me-Io s’imponga sopra ogni cosa. Accade anche, e ciò nell’esaltazione collettiva, che l’Io svanisca nel Noi. Ciò può determinare magnifiche dedizioni e dono di se stessi, e procurare una sublime gioia. Ma ciò può anche comportare una perdita di autonomia intellettuale, cosa che si verifica nel panico e nei deliri collettivi come nelle cerimonie di culto alla Guida onnisciente.
Di fatto, l’aspirazione a realizzarsi individualmente, pur restando legati a una comunità e/o a un altro, presenta un potenziale antagonismo interno e può creare difficili problemi, ma rimane un’aspirazione umana fondamentale.
L’Io ha bisogno del Tu, cioè di una relazione intima che comporti riconoscimento reciproco della pienezza umana dell’altro. L’Io ha ugualmente bisogno del Noi. A questi bisogni affettivi profondi ho potuto cominciare a rispondere nel giugno del 1940, quando la mia emancipazione personale coincise con il disastro nazionale.
Così sono diventato me stesso a Tolosa, integrato nella fraternità degli studenti rifugiati e capace di prendermi le mie prime responsabilità personali al centro d’accoglienza di questi studenti. La Resistenza è stata come una maggior conferma. Sono divenuto un adulto responsabile a ventidue anni, in modo indissociabile dalla fraternità che mi legava ai miei compagni e dall’amore che vivevo con la mia compagna Violette.
Grandi momenti della mia vita
Questi grandi momenti sono quelli nei quali sono stato al meglio di me stesso, restando legato comunitariamente e amorosamente. Dal 1945 al 1947 ho vissuto nella comunità della rue Saint-Benoît. Ciò cominciò con l’accoglienza che ci fu fatta, a Violette e me, a casa di Marguerite Duras, al nostro ritorno dalla Germania. Vi alloggiava anche, terminata la sua convalescenza, suo marito Robert Antelme, con il quale non aveva più una relazione fisica, ma che amava di un amore intensificato dalla deportazione e dal suo miracoloso ritorno. Dionys Mascolo, il suo compagno, divenuto il miglior amico di Robert, era presente ai pranzi e alle cene e spesso si fermava a dormire da Marguerite. Amavo ciascuno dei tre e amavo la loro amorevole trinità; difficilmente ci separavamo.
Il pomeriggio verso le 17, Robert e io andavamo da Gallimard dove Dionys era responsabile delle traduzioni. Salivamo la maestosa scalinata poi tutti e tre ci avviavamo verso l’Espérance, il vicino caffè, dove non smettevamo di discutere. Parlavamo di tutto, facevamo scoprire l’uno all’altro i nostri autori, i nostri poeti e musicisti preferiti. La sera andavamo insieme al Petit Saint-Benoît, al Flore, al Tabou, dove Boris Vian suonava la sua tromba, al Vieux-Colombier dove ascoltavamo i fratelli Jacques, Juliette Gréco o il trovatore Jacques Douai che cantava Le petits pavés e L’amour de moy.
Marguerite, allo stesso tempo padrona di casa e cuoca, faceva dei pranzi francovietnamiti e delle cene festose in cui riuniva i Queneau, i Merleau-Ponty, i René Clément, George Bataille. Cantavamo, ballavamo. Nel pomeriggio, amici e conoscenti passavano liberamente per conversare e quelli che venivano regolarmente hanno formato quello che in seguito è stato chiamato il “gruppo di rue Saint-Benoît”.
Ma lo stato di grazia finì quando Marguerite e Violette si trovarono simultaneamente incinte, cosa che ci costrinse a lasciare la rue San-Benoît,
per affittare un appartamento a Vanves, dietro al Parc des Expositions. Il legame d’amore durò ma la comunità era finita, e in seguito sopraggiunsero distanze e dissensi che disgregarono la trinità e influenzarono in modi diversi il mio legame con ciascuno. Cionondimeno, nei suoi ultimi anni ho potuto ritrovare Dionys, che mi aveva impressionato dal primo incontro e che mi rimase caro fino alla fine. Ugualmente amo teneramente il ricordo di Marguerite e quello di Robert. Sono tutti e tre sempre presenti in me e ritornano nei miei pensieri e nei miei sogni.
Ho vissuto un’altra comunità felice a La Jolla, in California, fra il 1969 e il 1970, nella grande villa sull’oceano che il Salk Institute di ricerche biologiche mi aveva riservato, villa in cui Johanne e io abbiamo ospitato la nostra quasi sorella Alanys, venuta dalla tribù degli Abenachi del Québec, le mie figlie, mio padre e mia zia Corinne, in una intercomprensione finalmente trovata.
Eravamo legati molto calorosamente a John e Chantal Hunt, Jacques Monod, Jonas Salk, Françoise Gilot, tutto un cerchio amicale in cui lo spinello passava di mano in mano, di bocca in bocca.
Ci ritrovavamo continuamente per feste, cene, spettacoli, fra cui un indimenticabile concerto di Janis Joplin. Partecipavamo a giganteschi raduni all’aperto per dei gruppi rock. In una sonorizzazione assordante vivevamo l’esaltazione collettiva e gli svenimenti per overdose.
Facevo delle felici immersioni nell’universo hippy delle comunità di adolescenti per i quali le parole love and peace sembravano dover esorcizzare tutto il male del mondo e annunciare l’era nuova dell’Acquario.
A Larkspur, vicino a San Francisco, ritrovai Hélène, la mia sorella di Tolosa. La sua casa era aperta e accogliente verso tutti. La cronologia era scomparsa dal tempo, gli orologi erano vietati e le attività erano regolate secondo il corso del sole.
Una civiltà voleva nascere e stava morendo, ma seminando all’Università di Berkeley i germi di un’aspirazione e di una rivolta che nel mondo suscitò le ribellioni studentesche del 1968.
Vivevo questo candido millenarismo con tanto più fervore perché sapevo che nessuna delle sue speranze sarebbe stata realizzata (Diario di California).
La mattina andavo al mio ufficio al Salk Institute, dove leggevo i documenti e le relazioni dei biologi e scoprivo autori che avrebbero contribuito alla mia nuova formazione sulle complessità, Ashby, Wiener, Bateson e soprattutto von Foerster. Lasciavo l’ufficio per andare a gettarmi nelle grandi onde dell’oceano, ne uscivo per i pranzi preparati da Johanne, poi partivamo per affascinanti incursioni nel vicinissimo deserto.
Infine, rientrammo in Francia passando per il Giappone e l’Asia, mantenendo delle amicizie care che per molto tempo hanno resistito alla dispersione e alcune delle quali sono rimaste per tutta la vita.
Voglio anche ricordarmi della caldissima e armoniosa comunità a casa di Xavier Bueno a Caldine in Toscana, non lontano da Fiesole, fra le vigne e gli ulivi, con suo figlio Raffaele e la sua compagna Eva. Cane, gatto, oche e cornacchie mangiavano fraternamente alla stessa mangiatoia.
Eravamo così felici lì, Edwige e io, che avevamo deciso di trasferirci per vivere lì dall’estate del 1979. Ma quella stessa estate Xavier morì.
Abbiamo vissuto quella stagione in una comunità stretta nel ricordo costante del nostro amico.
Ci furono anche le comunità delle estati ad Hammamet e all’Argentario con Michèle e Jeanne Daniel, Doune e Jean Ceresa, Évelyne e André Burguière…
Le grandi felicità hanno il loro tempo. Il loro ricordo non mi riempie solo di nostalgia, ma anche di una dolce e triste gioia.
Lo stato poetico e la felicità
Tutti questi periodi di felicità comportavano una dimensione poetica.
Se l’aspirazione a realizzarsi individualmente pur rimanendo inseriti in una comunità è la prima grande ispirazione umana, la seconda è quella di una vita poetica.
Ho scoperto la parola che per me porta in sé una delle grandi verità della mia vita: poesia. Non solo la poesia dei poemi ma, come l’ha enunciato e annunciato il surrealismo, poesia della vita. La mia coscienza della qualità poetica della vita credo che risalga al Festival di poesia di Struga, a quel tempo Jugoslavia; vi ho tenuto una conferenza che si è cristallizzata nel mio libro Amore, poesia, saggezza.
Perché poesia e non felicità? Questi termini rimandano l’uno all’altro. Lo stato poetico dà il sentimento della felicità, la felicità ha in se stessa la qualità poetica. E, per me, lo stato poetico è soggiacente a ogni felicità, è nel cuore di tutte le felicità, fuggevoli o durature.
Ciò che chiamo stato poetico è quello stato di emozione di fronte a ciò che ci sembra bello o/e amabile, non solo nell’arte, ma anche nel mondo e nelle esperienze delle nostre vite, nei nostri incontri. L’emozione poetica ci apre, ci dilata, ci incanta. È uno stato secondo di trance che può essere molto dolce, in uno scambio di sorrisi, nella contemplazione di un viso o di un paesaggio, molto vivo nel ridere, molto ampio nei momenti di felicità, molto intenso nella festa, nella
comunione collettiva, nella danza, nella musica, e particolarmente ardente, inebriante, esaltante nello stato amoroso condiviso. L’emozione poetica, nell’esaltazione suprema, può arrivare all’estasi, la sensazione di perdersi pur ritrovandosi in un rapimento o in una comunione sublime.
Lo stato poetico non comincia forse con il sorriso del neonato, le risa e i giochi dei bambini? In ogni caso è presente in modo diseguale a seconda dei caratteri o dei temperamenti. Le sventure, gli sforzi per sopravvivere, il lavoro penoso e privo di interesse, l’ossessione del guadagno, la freddezza del calcolo e della razionalità astratta, tutto ciò contribuisce al dominio della prosa (con tutto ciò che questo termine comporta di banalità, di non interesse e di noia) nelle vite quotidiane. Ma anche allora, qualche sprazzo poetico sopraggiunge nella maggior parte delle vite.
Non confondo prosa e infelicità: nella prosa c’è l’assenza di gioia, nell’infelicità c’è la presenza della sofferenza. Coloro che subiscono l’infelicità, i reclusi, gli esclusi, i miserabili, sono ugualmente condannati alla prosa, anche se talvolta conoscono fuggevoli istanti di poesia.
Ho potuto constatare, nel corso degli anni, l’invasione progressiva di una prosa specifica nella nostra civiltà. Ho visto scomparire la convivialità della mia adolescenza durante gli anni del dopoguerra. Le relazioni cordiali fra vicini, le conversazioni al bancone del bistrò, in metropolitana, gli assembramenti dei curiosi si sono ridotti al minimo. La scomparsa dei portinai, dei controllori e capistazione della metropolitana, degli addetti ai viaggiatori nei bus, la rarefazione
dei saluti ai vicini di casa, il crescente anonimato, la fretta, il nervosismo degli automobilisti, tutto ciò ha reso prosaica la mia città e la mia vita, fino a quando non ho deciso, con Sabah, di lasciare Parigi per una città del Sud il cui centro storico è pedonale e dove ho ritrovato una convivialità perduta.
La degradazione della qualità della vita risulta dal primato del quantitativo nell’organizzazione della nostra società, quindi delle nostre vite, in cui il calcolo tratta come oggetto misurabile tutto ciò che è umano e, cieco a tutto ciò che è individuale, soggettivo e passionale, vede solo il PIL, statistiche, sondaggi, crescita economica.
Penso, seguendo Ivan Illich, che la convivialità sia un elemento capitale della qualità della vita, che è poetizzante, e che permette di rispondere nel quotidiano al bisogno di riconoscimento che tutti noi abbiamo e che trova una prima soddisfazione nel buongiorno che degli sconosciuti ci indirizzano quando ci incontrano.
Da bambino, ho vissuto momenti di poesia negli abbracci con mia madre, nei giochi, poi nelle mie prime letture, quelle delle avventure di un soldato di tredici anni della guerra 1914-1918 o dei Pieds Nickelés nella rivista “L’Épatant”, quello dei romanzi della contessa di Ségur o nell’attrazione erotica per il didietro dei cavalli o delle donne, e anche per il personaggio della pubblicità dell’ovatta revulsiva che camminava nudo con l’ovatta sulla pelle e sputava fuoco.
Questo per dire che la poesia comincia con la vita; sboccia da quando appare ciò che noi chiamiamo “gioia di vivere”, quella che fa sorridere o ridere il neonato, saltellare i cani, stiracchiarsi i gatti, giocare i giovani mammiferi a mordicchiarsi o a fare combattimenti simulati, ciò che noi stessi facciamo con gioia nell’infanzia, nell’adolescenza e anche nell’età adulta: che piacere fare la lotta per il piacere di farlo!
Pubblicato il: 27.01.2022
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita