Paura, verità, memoria e male – Bernard Stiegler

La questione della cura passa da una interpretazione della malattia e della guarigione. Il problema specifico del capitalismo industriale è come si crea resistenza al nichilismo nelle personalità di oggi

di: Bernard Stiegler

Nell’epoca dell’Antropocene e delle accelerazioni imposte dal digitale, urge lavorare a un pensiero della cura. Le tecnologie della comunicazione hanno causato un impoverimento dell’intelligenza collettiva e creato una proletarizzazione di lavoratori, ricercatori e scienziati: nessuna attività umana sembra esserle sfuggita.
Questo nuovo capitalismo digitale va inteso come un deserto del pensiero che distrugge le forme di conoscenza e limita lo sviluppo della coscienza.
C’è bisogno di cambiare rotta, c’è bisogno di utopia. Pensare, curare – l’opera del filosofo Bernard Stiegler da cui è stato tratto il presente brano – offre una straordinaria riflessione per capire come fare. Bernard Stiegler è stato un filosofo di calibro mondiale, impegnato nell’ambito della filosofia della tecnica, sullo sfondo di uno stretto intreccio tra mutazioni tecnologiche, pratiche politiche e fare artistico. Il libro Pensare, curare. Riflessioni sul pensiero nell’epoca della post-verità, a cura di Ippolita, è stato tradotto da Rosella Corda per l’editore Meltemi che qui ringraziamo.

 

 

 

Timore, paura, coraggio e parresia

F. Nietzsche, R. Musil, M. Heidegger, F. Guattari e altri ancora, ben noti ai filosofi (in modo particolare G. Anders, H. Arendt e P. Virilio), ma anche, a ben guardare, A. Lotka e A. Toynbee: tutti questi pensatori hanno più o meno anticipato ciò che sta avvenendo ora.

Io stesso ho tentato di inquadrare il presente come ciò che, osservato più da vicino, non avviene davvero. L’ho fatto parlando di assenza di epoca, ed esplorando la relazione che si è stabilita tra ciò che si chiama ai giorni nostri la rottura1[scissione] e le diverse forme della follia contemporanea – dalla follia che si manifesta in comportamenti “stra-ordinari”, conosciuti e riconosciuti come “folli” di per sé, fino a quella che, in un numero tematico della rivista Ésprit avesse per titolo Aux bords de la folie, M. Fœssel aveva chiamato “la follia ordinaria del potere”.

Questa follia, di cui si può temere tutto, che in essa porta il peggio, e che perciò fa paura, noi dobbiamo temerla effettivamente, ma dobbiamo anche e soprattutto osservarla e prendercene cura – fatto che richiede il “coraggio della verità”, per come esso costituisce ciò che i Greci e dopo di loro Foucault chiamavano parresia. Tutto questo appartiene a ciò che fu chiamato nel 2004 da R. Keyes l’era della post-verità – per certi versi anticipata da Musil.

Donald Trump – in un certo qual modo anticipato da A. Jarry – è diventato presidente praticando un simulacro di parresia. È per questo che una reinterpretazione totale della storia della verità è richiesta nella attuale assenza di epoca – se si vuole almeno prendersi cura della follia che deriva da una tale assenza, che significa prima di tutto: imparare qualcosa da questa follia, nelle forme più diverse.

Questo apprendimento richiede coraggio. Il coraggio è ciò che teme un pericolo senza aver paura: senza cioè provare a sfuggirgli, ma combattendolo in quanto tale. Questo combattimento in quanto tale – e a proposito di questo “in quanto tale”, per come esso definirebbe il pensiero, dobbiamo tornare a Dello spirito. Heidegger e la questione2 – è ciò che, dopo l’11 Settembre 2001, ho chiamato la farmacologia.

Il coraggio di questo pensiero che cura è proprio quello della parresia. Il parresiasta può sempre essere accusato lui stesso di essere folle. E può esserlo perché effettivamente lo è. Tale è ciò che bisogna imparare dalla follia che si pretende curare. In ogni pensiero c’è qualcosa di folle e questo appartiene alla stra-ordinarietà di ciò che dà a pensare. Questa stra-ordinarietà è quella che, in Mécréance et discrédit3, ho chiamato le consistenze – dove consistono le cose stra-ordinarie.

In il Problema XXX, intitolato anche L’uomo di genio e la melanconia, (pseudo-)Aristotele chiama questa follia melanconia, dopo aver appena accennato alla questione intorno a considerazioni sul vino – che un pharmakon. E ho più volte provato a mostrare perché questa follia è ciò che deriva da una intermittenza delle anime noetiche e dalla loro oscillazione, in modo sempre più o meno bipolare tra progressione (elevazione) e regressione (caduta). Nel linguaggio di Canguilhem, bisogna parlare delle anime noetiche oscillanti così tra due poli di malattia e di cura, costituendo ciò che Simondon chiama diade indefinita. E si tratta per Canguilhem di una questione non solo psicologica, ma fisiologica: “Il potere e la tentazione di ammalarsi sono una caratteristica essenziale della fisiologia umana”4.

Quanto alla follia ordinaria, essa necessita di analisi specifiche nel senso che diventa, ai nostri giorni, uno dei principali fattori generici di questa follia stra-ordinaria che è il pensiero stesso, tale che, nella sua malinconia, esso “non pensa ancora” – né dunque cura.

Digià, non ancora – il passaggio

In apertura di Che cosa significa pensare?: “Ciò che dà più a pensare nel nostro tempo che dà a pensare è che noi non pensiamo ancora”5.

Questo lavoro è un contrappunto di Che cosa significa pensare?, interrogando l’aver cura a partire da ciò che ancora non è stato curato e rivedendo in questo, come una questione di aver-cura-di, la questione della Sorge scomparsa dalle opere dell’ultimo Heidegger (come ne è sparito il Dasein).

Questa questione della cura e della sollecitudine (della preoccupazione e della Sorge) è scomparsa nella misura in cui è avanzata la questione del Gestell, e questo, perché Heidegger non ha mai potuto in ultima analisi né pensare né prendersi cura del pharmakon, di cui tuttavia indica ed esprime il problema, proprio parlando di Gestell ed Ereignis, e citando il verso così celebre di Hölderlin (ne La questione della tecnica6): “Ma lì dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”.

In Che cosa significa pensare?, un tale problema – che non arriva ancora a diventare una questione – passa per Nietzsche e più precisamente da una interpretazione della malattia, della convalescenza e della guarigione di Zarathustra.

Di fatto, chi per la prima volta ha riscontrato il problema farmacologico specifico della “tecnica moderna”, secondo i termini di Heidegger, ossia del capitalismo industriale secondo i nostri, è Nietzsche. Nell’ondata di flussi in cui consiste e innanzi tutto desiste la tecnologia industriale che invade l’Europa occidentale alla fine del XIX secolo7, la resistenza delle anime noetiche (si parlerebbe oggi di “resilienza”) diventa un problema caratteristico di ciò che si realizza come compimento del nichilismo – e questo allorché appare la teoria dell’entropia per come essa modifica radicalmente la questione e il problema del divenire. Sosterrò che è la combinazione del divenire industriale della produzione dei flussi con la crisi metafisica provocata dal secondo principio della termodinamica a rendere malato Zarathustra, essendo quindi la dottrina dell’eterno ritorno una disciplina terapeutica […].

Ora, questo passaggio attraverso Nietzsche è introdotto in Che cosa significa pensare? con Mnemosine8. Più precisamente, il riferimento alla madre delle Muse introduce la questione della desolazione che è la crescita del deserto. E bisogna sottolinearlo nella misura in cui:

1. Heidegger, dover aver posto la questione per cui il pensiero è prima di tutto un apprendere, e un apprendere ciò che noi ancora non pensiamo9, aggiunge che il pensiero è dapprincipio una possibilità: “L’uomo può pensare, nel senso che ne ha la possibilità. Ma questa possibilità non ci garantisce che la cosa sia in nostro potere”10.

L’uomo – l’anima noetica – si mantiene sempre tra la possibilità e l’impossibilità di pensare [penser], ossia anche e prima di tutto tra la possibilità e l’impossibilità di curare [panser].

2. Heidegger pone che questa possibilità è quella di un mantenimento in un trattenimento che è una ritenzione: “Ciò che ci mantiene nel nostro essere, non ci trattiene così tanto se non, da parte nostra, noi stessi riteniamo ciò che ci trattiene. Noi lo ri-teniamo allorché non permettiamo che esso esca dalla memoria. La memoria è il raccoglimento del pensiero”11.

[…] Ne La colpa di Epimeteo si trattava di stabilire che il passato che non ho vissuto è tuttavia il mio passato attraverso le mie ritenzioni terziarie, ossia attraverso le cose che costituiscono il mondo da cui provengo, che mi hanno preceduto, e che sostengono la memoria di cui non ho né vissuto né prodotto l’iscrizione, ma che ho da interpretare – e a partire da queste interpretazioni, come queste interpretazioni, produco delle iscrizioni a mia volta. Ho quindi denominato ritenzioni terziarie questi supporti, sostenendo che esse costituiscono la possibilità delle ritenzioni primarie e secondarie, e ho sostenuto che la totalità delle ritenzioni terziarie forma un insieme dinamico attraverso cui si produce una epifilogenesi – considerando la memoria non una facoltà psicologica, ma la totalità del mondo: il mondo fa mondo come tracce di ciò di cui si è avuto cura.

Nietzsche è egli stesso un pensatore [penseur] e una persona che si prende cura [panseur] della memoria e dell’oblio così come delle mnemotecniche […].

La dottrina dell’eterno ritorno si iscrive nello choc cosmologico colossale costituito dalla teoria termodinamica, formulata da William Thompson nel 1852 e Rudolf Clausius nel 1865, tanto quanto rispetto all’accelerazione e alla marea di flussi industriali, e dove è a partire dal terrore12 come dalla stupidità13 che è necessario e possibile pensare – e di pensare [penser] a dei medicamenti [pansements].

Si impone così – come problema e come questione – il fatto che “Ciò che più dà a pensare è che noi non pensiamo ancora, sempre “non ancora”, benché lo stato del mondo diventi costantemente ciò che dà maggiormente da pensare14.

Questo stato è il frutto di una “evoluzione del mondo”. Quali sono le condizioni di una tale evoluzione? L’evoluzione è una questione cara a Nietzsche – più profondamente di quella della storia e della storicità. Prendersi cura [panser] dell’evoluzione del mondo con Nietzsche e passando e pensando con Heidegger, e con Nietzsche e Heidegger essendo essi stessi coloro che non pensano “sempre ‘non ancora’”, questo sarà qui pensare il non ancora a partire dal fatto della doppia reduplicazione epocale, teorizzata da La colpa di Epimeteo – di cui ho sostenuto, nel corso degli ultimi anni15, come debba essere considerato a partire dalla concezione elaborata da Alfred Lotka nel merito di ciò che egli chiama evoluzione exosomatica, dove “ciò che dà a pensare nel nostro tempo che dà da pensare è che noi non pensiamo ancora”16 e dove tuttavia il sentimento si impone ovunque e quanto mai il mondo diventi, più sembri dover diventare immondo, proprio perché sembra essere divenuto impossibile da pensare e quindi da curare. È quanto descriveremo qui come denoetizzazione e non-sapere assoluto: denoetizzazione e non-sapere assoluto costituiscono ciò che è stato chiamato la post-truth era.

[…]

Farmacologia del male e negheantropologia. L’Übermesch come medicamento

Ho sostenuto in États de choc. Bétise et savoir au XXI siecle che la «French theory», detta «post-strutturalismo» e, dopo di lei, i suoi epigoni trascurò, perfino negò tutto ciò che, attraverso il mal-essere di ciò che diventava un non-esser-ci-più e lo star-male di un «mal-essente», costituiva una nuova questione del male: quella di un male tecnologico emergente dal problema farmaco-logico. Ora noi vedremo che il primo a identificare il problema del non non-esser-ci-più e a farne questione, sarà stato Nietzsche17.

Io stesso, dopo Le temps du cinéma et la question du mal-être, ho cercato di descrivere sistematicamente e sistemicamente questo male tecno-logico come male del pharmakon – cominciando dal 2003, in Amare, amarsi, amarci. Dall’11 settembre al 21 aprile18, e poi in tutte le opere a seguire. Il male tecnologico sembra «al di là del bene e del male», nel senso che solo il pharmakon stesso può porre rimedio al male che è – per un mal-essente che non è mai pienamente esser-ci e di cui è la condizione esistenziale. Il mal-essente è un malato. E la malattia è il problema di cui Nietzsche prova a elaborare la questione, che diventerà in Canguilhem l’infedeltà dell’ambiente come altrettanto la fonte pato-logica di ogni normatività, e dove occorre di continuo e sempre pericolosamente «curare il male con il male» – potendo essere, il rimedio, «peggio che il male», ecc.

Il male farmaco-logico sopravviene in un sistema dinamico aperto (nel senso stabilito da Ludwig von Bertanlanffy19) di un genere ancora totalmente non pensato, e, se non incurato, se non altro mal curato.

Il male risulta da una funzione di questo sistema che non può funzionare se non in rapporto a un’altra funzione che è la sua contro-tendenza trasduttiva e sfasata. Lo sfasamento, che Simondon descriverà come condizione di ogni individuazione psichica e collettiva, ovvero noetica e tecnica, è la doppia reduplicazione epocale. La prima funzione è la tecnica. La seconda funzione è la dike. Tekne e dike dis-funzionano di concerto, ma la loro musica (prodotta dalle Muse) è diventata manifestamente se non atonale e disarmonica, quanto meno dissonante. In realtà, lo fu da sempre. È quanto dicevano i tragici greci. Ed è ciò che ripeterà Nietzsche – senza ben comprenderlo lui stesso.

1 In inglese nel testo.

2 Questo libro sarà commentato nel secondo volume del presessente lavoro. J. Derrida, De l’esprit. Heidegger et la question, Galilée, trad. it., Dello spirito. Heidegger e la questione, SE, Milano, 2010.

3 B. Stiegler, Mécréance et discrédit, Galilée, Paris, 2004.

4 G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, PUF, p. 133.

5 M. Heidegger, Qu’appelle-t-on penser ?, p. 26, trad. It., Che cosa significa pensare?, prefazione di G. Vattimo, Sugarco Edizioni, Milano, 1996.

6 M. Heidegger, La questione della tecnica, Goware, Firenze, 2017.

7 Su questo desistere, infra § 52.

8 “Mnemosine, la figlia del Cielo e della Terra, diventa, come fidanzata di Zeus, in nove notti la Madre delle Muse. Gioco in Musica, Danza e poesia appartengono a Mnemosine, alla Memoria. È manifesto che questa parola designa altro che la sola facoltà, determinabile dalla psicologia, di ritenere il passato nella rappresentazione. Memoria pensa a ciò che è stato pensato“. Martin Heidegger, Qu’appelle-t-on penser?, PUF, “Quadrige”, p. 32. Nel seguito del testo, “ciò che è stato pensato” va a ripresentarsi nell’eterno ritorno come ciò che fu, es war, e, perciò, come ciò che potrebbe non passare. Heidegger riprende qui una questione che pose nel 1938 in un suo seminario su Anassimandro, come vedremo nel secondo volume di questo lavoro.

9 M. Heidegger, Qu’appelle…p. 24.

10 Ibid., p. 23.

11 Ibid., p. 24.

12 Cfr, infra p. 52 e § 11.

13 Cfr, La Gaia scienza, § 328, il commento di questo aforisma da parte di Deleuze in Differenza e ripetizione, p. 120, e il mio commento del suo in États de choc. Bêtise et savoir au XXI siècle, pp. 36 e 56 (Mille et une nuits, 2012).

14 Che cosa significa pensare? op. cit. p. 24.

15 Cfr. in particolare Dans l’interruzione. Comment ne pas devenir fou?, § 86.

16 Che cosa significa pensare? op. cit. p. 26.

17 Cfr. infra., §§ 11 e 53.

18 B. Stiegler, Amare, amarsi, amarci. Dall’11 settembre al 21 aprile, trad. it. a cura di A. Porrovecchio, Milano-Udine, 2014.

19 Cfr. L. von Bertanlaffy, Théorie général des systèmes, Dunod, pp. 106 e 124.