di: Laura Tripaldi
Aracne, la mitica tessitrice di cui abbiamo raccontato la storia nelle prime pagine di questo libro, incarna l’idea di una tecnologia capace di intrecciarsi perfettamente con la donna che la produce. Non soltanto intreccia i fili della propria tela con incredibile maestria, producendo strutture complesse a partire dall’interazione reciproca di elementi semplici, ma trasformandosi in ragno, Aracne fonde sé stessa con il proprio telaio in un unico corpo ibrido, incarnando l’intreccio indissolubile tra mente, corpo, tecnologia e natura. Sigmund Freud, nella sua Introduzione alla Psicanalisi del 1932, propone che le donne, pur nella loro generale incapacità di partecipare attivamente allo sviluppo della civiltà umana, abbiano fornito almeno un contributo alla storia della tecnologia:
Si dice che le donne abbiano fornito pochi contributi alle scoperte e alle invenzioni della storia della civiltà, eppure c’è forse una tecnica che esse hanno inventato: quella dell’intrecciare e del tessere. Se così fosse, viene spontaneo tentare di indovinare il motivo inconscio di questa riuscita. La natura stessa sembra avere offerto il modello da imitare, facendo crescere, con la maturità sessuale, il pelo pubico che ricopre il genitale. Il passo successivo consistette nel far aderire l’una all’altra le fibre che sul corpo erano conficcate nella pelle ed erano soltanto ingarbugliate fra loro.
Nella visione di Freud la capacità di intrecciare sarebbe insita nella natura femminile, perché le donne avrebbero appreso la tessitura imitando l’intreccio naturale della peluria che, secondo lo psicanalista, ‘nasconde’ la ’mancanza’ del pene che ogni donna inconsciamente desidera. Se, da una parte, si tratta di una delle pagine più misogine della storia della psicanalisi, in cui la possibilità delle donne di contribuire alla tecnologia e alla scienza viene completamente negata in nome di un imperscrutabile destino biologico, dall’altra in almeno una cosa Freud ha ragione, e cioè che la tessitura e la femminilità sono due aspetti connessi in modo più profondo di quanto possa sembrare. La tessitura è tutt’altro che una tecnologia ‘secondaria’: non soltanto ha fornito un contributo incalcolabile allo sviluppo della nostra cultura, ma ha costituito, più o meno esplicitamente, un modello per molte delle tecnologie più avanzate che utilizziamo oggi, dall’intelligenza artificiale alle nanotecnologie. La filosofa femminista Sadie Plant, occupandosi della relazione tra cibernetica, informatica e femminilità, si concentra sulla centralità del ruolo della tessitura, così spesso trascurata, nella nascita dei primi computer e nello sviluppo della tecnologia nel suo complesso. Come afferma Plant:
Forse la tessitura è addirittura il tessuto di ogni altra scoperta e invenzione. Forse è l’inizio e la fine della loro storia. Il telaio è un’invenzione fatale, che intesse il proprio cammino dalla carta quadrettata alla rete informatica.
E, potremmo aggiungere noi, la tessitura è un’arte che inizia con il telaio e finisce per intrecciarsi all’intelligenza dei nostri nanomateriali più avanzati. Questo, naturalmente, non significa aderire all’idea che le donne siano in possesso di una qualche capacità esclusiva che, come sosteneva Freud, è radicata nella psiche femminile, ma evidenzia la necessità di modificare il nostro approccio culturale alla tecnologia.
Molte teoriche femministe contemporanee si sono interrogate sulla relazione tra natura e cultura, riflettendo sulla possibilità di riscoprire un nuovo rapporto della scienza con la materia che studia e le tecnologie che costruisce. Il motivo per cui femminilità e tecnologia sono così spesso considerate incompatibili nella nostra civiltà patriarcale è radicato nell’idea che la scienza e la tecnologia siano strumenti che l’uomo utilizza per esercitare una forma di dominio violento sulla natura. In questa prospettiva culturale, un soggetto attivo, l’uomo-scienziato, agisce su un oggetto passivo, la materia, dandogli forma e piegandolo alla propria volontà. Se dovessimo esemplificare questo approccio in una delle tecnologie umane più primitive, il processo di scheggiare una pietra, trasformandola in un’ascia o in una punta di freccia, descrive bene l’idea che la materia sia un oggetto essenzialmente inerte, che non collabora, ma si oppone al nostro tentativo di modificarla a nostro vantaggio. Questo paradigma di dominio dell’uomo sulla materia, che lo colloca nella posizione privilegiata di dover dar forma a una sostanza essenzialmente cieca e stupida, arriva a plasmare anche il piano sociale e politico: tutto ciò che è percepito come ‘altro’ – cioè, in qualche modo, ‘meno umano’ – diventa oggetto di dominazione e violenza. È possibile immaginare un paradigma tecnologico in cui la materia partecipa attivamente al proprio processo di trasformazione?
Secondo Luce Irigaray la metafisica occidentale moderna è fondata sull’idea di un universo costituito da corpi solidi in interazione rigida gli uni con gli altri. Questa visione si riflette nell’idea dell’interazione tra i corpi come scontro e non come relazione: l’unica cosa che questi oggetti rigidi sanno fare è urtarsi reciprocamente, un po’ come succede nel processo di scheggiare una pietra per trasformarla in uno strumento. Al contrario, Irigaray sostiene che il substrato della realtà è essenzialmente fluido, costituito cioè da corpi privi di confini rigidi, che si compenetrano e si mescolano gli uni con gli altri. Come nella trama di un tessuto, i singoli individui, intrecciandosi tra di loro, producono una rete in cui i confini individuali si sfumano, diventando indistinguibili.
Questa compenetrazione continua è alla base di una comprensione dell’ambiente materiale in cui siamo immersi e degli altri esseri umani che ci circondano come parte di un’unica rete di relazioni, e, per questo motivo, implica anche una responsabilità condivisa di costruire un’etica fondata sul riconoscimento dell’altro. In questo senso, la tessitura incarna una visione relazionale, e necessariamente femminista, della tecnologia come intreccio indissolubile di agenti umani, animali e materiali.
Esplorando il confine tra organico e inorganico abbiamo già incontrato la figura del cyborg, l’organismo cibernetico che, secondo Donna Haraway, potrebbe costituire un nuovo paradigma della tecnologia, capace di superare la logica binaria che separa natura e cultura. Del resto, il nostro cammino nel mondo dei nuovi materiali intelligenti ci ha portati al confronto con molti ‘mostri’, alcuni mitologici e altri tecnologici, alcuni naturali e altri artificiali: dall’Idra di Lerna al Golem, dalle melme policefale ai ragni bionici, dalla creatura di Frankenstein alle molecole organi- che auto replicanti. Tutti questi strani organismi hanno in comune la capacità di mettere in discussione la nozione consueta di ciò che appartiene all’ordine naturale delle cose, abitando il territorio di confine tra vita e morte, mente e corpo, tecnologia e natura.
“Il punto non è solo che la scienza e la tecnologia offrono all’umanità il mezzo di ottenere grandi soddisfazioni e sono matrici di complesse dominazioni” scrive Haraway nel suo famoso Manifesto per Cyborg: “le immagini cyborg possono indicarci una via di uscita dal labirinto di dualismi attraverso i quali abbiamo spiegato a noi stessi i nostri corpi e i nostri strumenti”. La formazione scientifica di Haraway, che l’ha portata a occuparsi del concetto di organismo nella storia della biologia, la conduce naturalmente alla conclusione che non esiste “nessuna separazione fondamentale, ontologica, nella nostra conoscenza formale di macchina e organismo, tecnico ed organico”; infatti, come abbiamo avuto modo di vedere, tutte queste categorie sono estremamente fluide, e possono fondersi l’una nell’altra con grande facilità. Nella prospettiva radicale di Haraway, se la sempre più pervasiva ibridazione tra tecnologia e vita può farci paura, ed è spesso respinta dal femminismo più tradizionale come espressione della dominazione tecnologica dell’uomo sulla natura, questa prospettiva contiene, in realtà, un potenziale di emancipazione.
Ecco perché la politica dei cyborg difende il rumore e invoca l’inquinamento, godendo della fusione illegittima tra animale e macchina. Questi accoppiamenti rendono alquanto problematici l’Uomo e la Donna e sovvertono la struttura del desiderio, ritenuto la forza generatrice del linguaggio e del genere, e in tal modo sovvertono le strutture e le modalità di riproduzione dell’identità “occidentale”, di natura e cultura, di specchio e sguardo, di schiavo e padrone, di corpo e mente.
Il legame tra un certo pensiero politico femminista e la tecnologia passa attraverso una ridiscussione del nostro sguardo scientifico e conoscitivo sulla natura. Questo non significa, tuttavia, che la tecnologia ci permette di plasmare la realtà a nostro piacimento; piuttosto, significa che la nostra esperienza del mondo è sempre intrecciata ai nostri strumenti e ai materiali che utilizziamo, che formano con la nostra mente un tessuto fitto e inestricabile. In altre parole, la nostra conoscenza scientifica della realtà non è una visione speculare, più o meno perfetta, di un mondo fatto di oggetti passivi e distanti da noi. Al contrario, la conoscenza della realtà, se non la realtà stessa, si produce nell’incontro e nella relazione tra noi e il nostro oggetto di studio. Questa è la prospettiva proposta dalla fisica e filosofa Karen Barad, che, a partire da un’analisi del ruolo del processo di misura nella fisica quantistica, approda a una nuova definizione del rapporto umano con la materia. Il pensiero di Barad ha sullo sfondo il problema essenziale e più conosciuto della meccanica quantistica, cioè il problema dell’indeterminazione. Senza entrare nel dettaglio tecnico di questo problema, le cui conseguenze sono ormai entrate a far parte del senso comune, il principio di indeterminazione implica che nello studio degli oggetti quantistici è impossibile separare il processo di misura, con cui conosciamo l’oggetto che stiamo studiando, dalla natura fisica e dalle proprietà dell’oggetto stesso. In altre parole, gli oggetti quantistici sembrano comportarsi in modo diverso, tipicamente come onde o come particelle, a seconda di come li guardiamo, ovvero a seconda di quale apparato strumentale scegliamo di utilizzare per studiarli.
Nel pensiero del fisico Niels Bohr, uno dei padri della meccanica quantistica, questo problema può essere risolto facendo ricorso al concetto di complementarietà, secondo cui il comportamento dell’oggetto quantistico studiato non può essere separato dall’apparato di misura che lo studia. A partire da questa idea, Barad propone una nuova visione dell’universo fisico come non più costituito da singoli oggetti preesistenti all’indagine scientifica, ma, piuttosto, come una rete di relazioni all’interno delle quali i fenomeni fisici prendono forma e acquistano significato. Secondo Barad, il concetto di materia “fa riferimento alla materialità e alla materializzazione dei fenomeni, non a una presunta proprietà prefissata e intrinseca degli oggetti astratti che esistono indipendentemente da noi”: la materia è il processo che risulta da un incontro più che una realtà esistente a priori. In questa visione relazionale e processuale della materia, l’oggetto studiato e la mente dello scienziato che lo studia partecipano in modo simmetrico e cooperativo alla definizione della conoscenza. Il concetto di entanglement, che in fisica quantistica indica la correlazione indissolubile tra due particelle di uno stesso sistema, viene riproposto in questo senso come paradigma più generale del rapporto dell’uomo con la materia, una relazione in cui non esistono confini definiti ma una continua e reciproca influenza. Questa prospettiva scientifica diventa l’occasione per mettere in discussione la separazione rigida tra soggetto e oggetto che attraversa la storia del pensiero occidentale moderno:
Non vi è alcuna res cogitans che abita un dato corpo con confini definiti, che differenziano il sé dall’altro da sé. Piuttosto, i soggetti sono costituiti in modo differenziale attraverso intra-azioni specifiche. I soggetti così costituiti potrebbero spaziare attraverso alcuni dei supposti confini (come quelli tra umano e non-umano, tra sé e altro da sé) che vengono dati per scontati. La conoscenza è una pratica distribuita che include l’apparato materiale nel suo complesso. Dal momento che gli esseri umani partecipano a pratiche di conoscenza scientifica e non, lo fanno come parti della configurazione materiale complessiva del mondo e della sua continua e aperta articolazione.
Abbandonando lo strano mondo delle particelle quantistiche per ritornare alla familiarità delle nostre ragnatele, la visione relazionale della materia che Barad applica alla fisica teorica si estende molto facilmente alle scienze applicate e, alla luce del nostro percorso, si presta in modo particolare al caso dei materiali intelligenti. Anche in questo contesto, abbiamo a che fare con oggetti che, pur essendo molto diversi dalle particelle quantistiche di Bohr, partecipano attivamente alla costruzione della realtà in cui sono immersi. In particolare, abbiamo già evidenziato come la chimica e la scienza dei materiali propongono un approccio essenzialmente sintetico allo studio della materia, in cui il prodotto del processo conoscitivo è sempre anche il prodotto di un processo creativo e produttivo, che conduce alla nascita di corpi nuovi. La sintesi di un nuovo materiale non è mai il risultato di un processo univocamente determinato dallo sperimentatore umano, perché sfrutta sempre la capacità della materia di auto organizzarsi spontaneamente dal basso. La sfida della sintesi, allora, non è tanto quella di dominare la materia, ma, al contrario, è quella di capire “cosa può un materiale”, cioè di rivelare la sua vitalità intrinseca e la sua intelligenza più profonda, che si manifesta nella sua relazione con noi.
Tra le autrici che hanno abbracciato questa visione relazionale della materia e della tecnologia, la filosofa Jane Bennett, nel suo libro Vibrant Matter. A Political Ecology of Things, propone quello che definisce “materialismo vitale”. Secondo Bennett, anche i materiali e i corpi inorganici che ci circondano sono dotati di una intrinseca vitalità, che si manifesta nella loro capacità di partecipare attivamente al nostro mondo. Nella prospettiva dell’autrice, non è possibile immaginare un ambiente materiale separato dalla nostra cultura umana: al contrario, cultura e ambiente sono connessi all’interno di un unico piano ontologico orizzontale e privo di gerarchie stabilite, in cui ogni agente che vi partecipa, dagli esseri umani agli animali fino agli oggetti che utilizziamo nella nostra quotidianità, è capace di comunicare attivamente con tutti gli altri. Per descrivere questa profonda connessione, piuttosto che utilizzare il termine ‘materia’, una parola che nel linguaggio filosofico ha assunto il significato di un oggetto passivo e separato in modo rigido dal soggetto umano, Bennett preferisce parlare di configurazioni materiali:
Io sono una configurazione materiale, i piccioni nel parco sono composizioni materiali, i virus, i parassiti, e i metalli nella mia carne e nella carne del piccione sono materialità, così come i neurotrasmettitori, i venti degli uragani, E. coli e la polvere sul pavimento. La materialità è una categoria che tende a orizzontalizzare le relazioni tra umani, vi- venti e non viventi. Sposta l’attenzione umana lontano da una Grande Catena dell’Essere ontologicamente gerarchica, e verso un maggior apprezzamento degli intrecci complessi di umani e nonumani. In questo contesto, l’imperativo morale implicito del pensiero Occidentale – “tu devi identificare e difendere ciò che è speciale nell’Uomo” – perde parte della sua rilevanza.
Mettendo al centro della propria ontologia il tessuto relazionale della materia, questo nuovo pensiero femminista e materialista ci invita a entrare in una relazione diretta con le tecnologie che costituiscono il nostro mondo, per comprenderne l’impatto in modo più profondo e, se necessario, acquistare una maggiore responsabilità nei confronti della rete di cui siamo parte. Dal mio punto di vista è molto significativo che autrici come Haraway e Barad, la cui influenza e popolarità sono sempre crescenti e che sono state promotrici di alcune tra le visioni più radicali e affascinanti del nostro rapporto con la tecnologia, siano non soltanto filosofe, ma anche donne e scienziate. La loro esperienza scientifica sul campo traspare nel modo in cui queste autrici trattano la scienza e la tecnologia non come semplici espedienti teorici, ma come vere e proprie interlocutrici nell’elaborazione del loro pensiero. Le innumerevoli configurazioni che la materia può assumere, la sua intrinseca intelligenza e vitalità, diventano un punto di partenza per ripensare in modo radicale la nostra posizione nel mondo.
Pubblicato il: 20.04.2021
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita