La ricerca come diritto umano e disposizione etica nel consesso sociale – Paolo Naldini

Noi umani indugiamo nell'inclinazione per il desiderio di trasformare la nostra vita e il nostro mondo. Tutto quanto possiamo apprendere non ci basta perché dobbiamo produrre conoscenza oltre che assimilarla

di: Paolo Naldini

Pubblichiamo il primo di tre estratti dal libro L’arte della ricerca. La cura dei nuovi saperi nei dottorati accademici – il libro che inaugura la nuova collana Arte e pratiche sociali a cura dell’Accademia Unidee, presso Mimesis edizioni. Il testo che qui leggete è tratto dalla Postfazione al volume ed è firmato da Paolo Naldini direttore di Cittadellarte – Fondazione Pistoletto e presidente di Accademia Unidee.
Paolo Naldini lavora da tempo sul concetto di demopraxia, neologismo di sua invenzione che indica una tensione verso una nuova e pulsante declinazione del concetto di democrazia lungo le linee della sperimentazione concreta, del coinvolgimento diretto e dell’impegno di lavoro, aperto e continuo attraverso pratiche che non si concentrano sul potere del popolo, ma piuttosto su ciò che le persone fanno nello spazio pubblico, le cose che creano come risposta urgente e de-ideologizzata all’esproprio in tutti i campi della vita.
Il libro L’arte della ricerca, attraverso una serie di contributi dei più autorevoli autori e autrici attivi su questo tema, indaga il ruolo e l’importanza della ricerca nelle accademie d’arte e nei contesti non strutturati. Le accademie di Belle Arti, e più in generale il mondo AFAM – Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica, si articola come laboratorio per una nuova e aggiornata pedagogia ed educazione superiore. Sono di fatto luoghi del sapere che accolgono gli studi di estetica e le riflessioni della rivoluzione digitale, diventando territorio di sperimentazione sulle cosiddette “Contemporary Humanities” e, utilizzando l’arte contemporanea come concreto radar culturale, sviluppano una ricerca che si potrebbe definire clandestina.

 

 

Perché farsi domande?

La canzone dei Subsonica dedicata al Terzo Paradiso recita nel suo bellissimo finale:

Come sorriderai / Che aria respirerai / Come ti vestirai / Quale lingua parlerai / Come saluterai / Come lavorerai / In che cosa crederai / Quali sogni sognerai / Come sorriderai / Che aria respirerai / Come ti nutrirai / Quale lingua parlerai / Come saluterai / Come lavorerai / In che cosa crederai / Chissà se ricorderai / Se mi ricorderai / Cosa ricorderai / Se mi ricorderai / Chissà cosa ricorderai / Se mi ricorderai / Quali sogni sognerai

 

Perché una persona dovrebbe farsi queste (e magari altre) domande? Perché dovrebbe mettersi a ricercare, a fare ricerca?
Non esistono già molte, elaborate e adeguate risposte? Non basta dunque apprendere e automatizzare le migliori risposte? Pare evidente che noi umani [1] si indulga in questa inclinazione per il desiderio (insano?) di trasformare la nostra vita e il contesto in cui essa si sviluppa; quindi, tutto quanto possiamo apprendere, dunque la cultura, non ci basta perché dobbiamo produrre conoscenza, o cultura, oltre che assimilarla. Ho affrontato – o meglio: vissuto – questa situazione, nella mia esperienza di direttore di Cittadellarte, la Fondazione Pistoletto nata nel 1998 a Biella. La natura trasversale (cross sectoral, come suol dirsi) delle “pratiche artistiche orientate alla trasformazione della società” [2] ha portato a Cittadellarte non solo artisti, filosofi, storici, economisti, imprenditori, educatori, amministratori, ma anche scienziati sociali. Le lunghe conversazioni, la condivisione delle ragioni, delle scoperte che accompagnavano le ricerche e le opere delle centinaia di questi – per chiamarli con i termini che di anno in anno sono stati usati per identificare in fondo gli stessi tipi di persone – change makers, place makers, innovatori sociali e imprenditori sociali…, le straordinarie opportunità che abbiamo avuto di frequentarli e conoscere direttamente da loro le idee che li animavano, ci hanno condotto a individuare quella che pare essere la dinamica psichica e comportamentale più direttamente coinvolta nell’attivarsi nel proprio contesto “in qualità più di autori che di automi”. Si tratta dell’automatizzazione [3] e deautomatizzazione. O meglio: dell’equilibrio dinamico tra automatismi e creazione. E il punto che in questo testo si vuole fare è che la ricerca giochi un ruolo essenziale in questo quesito esistenziale.

Siamo uomini o macchine?

Henry David Thoreau, ne La Disobbedianza civile [4], si esprime in modo molto chiaro:

La massa degli uomini serve lo Stato in questo modo, non come uomini, bensì come automi, con il solo corpo. Essi formano l’esercito regolare, e così pure la milizia, i secondini, i poliziotti, i posse comitatus, ecc. nella maggior parte dei casi non vi è nessun libero esercizio né della facoltà di giudizio, né del senso morale; questi uomini si mettono allo stesso livello del legno, della terra, delle pietre anzi: si potrebbero addirittura fabbricare uomini di legno che servano altrettanto bene allo scopo.

 

Carlo Sini [5] esplora il divenire degli umani da automi animali ad automi macchine resi tali dalla parola e dalla cultura, di cui pure l’uomo è autore. All’interno del processo di ominizzazione si costituisce quel corpo macchina che comunemente chiamiamo automa: è colui la cui azione è determinata, orientata, da ciò che chiamiamo la cultura; cultura che comporta l’internalizzazione del potere in noi, attraverso condizionamento e automatizzazione, determinando un circolo vizioso per cui noi stessi diventiamo concausa del nostro stesso divenire automi [6].

La tensione tra automa e autore è sempre stata presente ai filosofi come all’uomo comune, basti pensare alle leggende del Golem di Praga e alle macchine di Erone di Alessandria, e poi Pigmalione e perfino Pinocchio, fino all’etimo di robot, dal ceco, (estratto da robota “lavoro forzato”), nome degli automi che agiscono come operai in un dramma di Karel Čapek. Eppure lo stesso concetto di automa porta con sé un duplice e opposto significato: automatos è ciò che opera o che avviene spontaneamente, macchina che si muove da sé, come se avesse vita. Nello stesso tempo, però, l’automa è anche il contrario di ciò che ha vita e che si muove da sé: è la macchina senza vita, il robot.
Nell’accezione corrente oramai prevale quest’ultimo significato.

Oggi siamo accompagnati dalle versioni moderne dell’automa che esprimono il dramma esistenziale di essere creati e creatori, rispecchiando quello che siamo noi. Basti pensare ai capolavori di Asimov [7] e Clarke [8], ma anche Mary Wollenstoncraft Shelley e il suo Frankenstein. Sono decine, migliaia gli automi che portano in sé uno spirito vivente, un ghost in the shell [9], per citare un famoso manga. Ma automa ha la stessa radice di automatico, automatismo e automatizzazione. Ed è a questo significato che si riferisce l’analisi che segue. L’automatismo ci ha permesso raggiungimenti altrimenti impensabili, basti pensare ai vantaggi derivanti dall’aver automatizzato processi vitali come la circolazione sanguigna e il respiro che altrimenti dissiperebbero gran parte delle nostre facoltà psichiche coscienti. Ma pure ci ha spesso trattenuti e neutralizzati nel nostro slancio vitale, quasi in una preparazione dello stato di quiete infrangibile cui una parte nel nostro essere anela.

Alla ricerca della ricerca… sulla strada dell’arte

L’automa in noi, secondo la tesi che qui si espone, ha ben ragione di esistere, ma anche il suo opposto, l’autore, ne ha altrettanta. E nelle vicende che nel corso delle nostre vite vedono queste ragioni opporsi e noi negoziare di volta in volta più spazio per l’automa oppure per l’autore, la ricerca gioca un ruolo essenziale, come farmaco, cura o antidoto a uno dei principali alleati dell’automa, la paura. Per trovare la ricerca in azione in questo supposto ruolo, però, dobbiamo andare a scovarla tra le dinamiche o componenti di cui si costituisce la naturale tendenza all’automatismo, un set di dinamiche psichiche probabilmente assai numeroso e variegato tra le quali spiccano almeno queste quattro: la resistenza mentale al cambiamento – l’abitudine –, la preferenza per situazioni che costano meno energia ancorché comportino cessioni di autonomia – la soggezione –, il timore di fallire e subire danno – la paura –, e la convenienza di una immediata conformazione e pieno adattamento alle regole – l’obbedienza –, o il tentativo di sottrarsi a esse con l’inganno [10].
L’analisi di questi tratti psicosociali parte dalla constatazione che essi offrono realmente vantaggi per chi li esprima nelle proprie scelte e comportamenti, ed è per questo che tanto successo hanno avuto.

L’abitudine, per cominciare, comporta un innegabile risparmio di risorse. Essa accompagna indissolubilmente l’apprendimento: è un meccanismo di vitale importanza che ci permette di fare tesoro delle nostre esperienze e di non cominciare ogni volta da capo. Gli automatismi, infatti, sono essenziali nei primi passi della nostra crescita, nell’apprendere a camminare, a rendere sempre più efficiente il controllo del corpo al proprio interno e con l’ambiente. Ma anche molte interazioni sociali devono diventare automatiche (e rapide) per la nostra sopravvivenza per esempio quando riguardino comportamenti di difesa o fuga o attività come la guida di un’automobile. Ma basti pensare a come sia stato difficile disabituarsi a porgere e stringere la mano come saluto ai tempi del coronavirus (come saluterai?). L’abitudine, però, inibisce o impedisce il ricorso alla creatività. Quante occasioni abbiamo mancato nella vita per il fatto che non ci abbiamo pensato? Se non ci abbiamo pensato, spesso, il motivo è perché eravamo abituati a fare in un certo modo e questa abitudine serve appunto proprio a non pensarci.

Se invece si vuole pensarci, occorrerà se non proprio azzerare la nostra fiducia nell’esperienza pregressa, almeno ridurne l’importanza. Che cosa avviene quando il nostro affidarci all’abitudine cessa? Si apre uno spazio per pensieri e comportamenti nuovi, inediti, diversi, originali. Questo è il terreno della creatività. Qui si crea. Ed è qualcosa che può darsi in ogni momento della nostra vita, anche nelle attività più banali. Non è appannaggio esclusivo dei grandi artisti, anche se l’artista fa di questa attitudine la sua professione quotidiana.

Esiste dunque una tensione che unisce abitudine e arte. L’esercizio delle facoltà creative, com’è evidente, porta con sé un alto tasso di pensieri e comportamenti non automatici e non convergenti. Questo significa che la creatività apporta un effetto di deautomatizzazione e di divergenza. Tra autore e automa vi è una buona dose di alternatività o rapporto di proporzionalità inversa: quanto maggiore l’autorialità, tanto minore la automaticità [11].

Coltivare l’arte dunque è un antidoto alla sclerotizzazione che ci aspetta quando la nostra mente è troppo incline all’automazione. Vi sono evidenze scientifiche [12] che l’arte aiuti nelle terapie contro le malattie neuro-degenerative, e questo sembra coerente con la nostra tesi che attribuisce all’arte un ruolo primario nell’incontro/scontro tra automa e autore.

Tuttavia, il creare per il creare – l’arte per l’arte – può esso stesso diventare un automatismo mentale, per il quale il nuovo assurge a sinonimo e feticcio del bene, senza rapporto con le circostanze concrete in cui la creazione avviene, senza un ecosistema sociale e ambientale con cui negoziare il senso di ciò che si crea, e dello stesso fatto del creare. Il rischio della trascendenza e dell’idealismo13 – forme sottili con cui si traveste l’automatizzazione – è sempre in agguato nello spirito umano e anche se ci si può facilmente illudere che gli artisti, in quanto autonomi, ne siano immuni, è invece ragionevole pensare che essi ne siano sopraffatti tanto quanto gli altri.

 

 

 

* Direttore Fondazione Pistoletto e Presidente Accademia Unidee.

1. Forse per la verità non solo gli umani sono attirati dal farsi domande e cercare risposte, come emerge da recenti sviluppi della nostra comprensione delle altre menti, vedi per esempio il lavoro di Carl Safina, Al di là delle parole, 2018 e Carl Safina, Animali non umani, Adelphi, Milano 2022.

2. Di questo ci si occupa a Cittadellarte, nel laboratorio scuola di alta formazione Unidee Università delle Idee, fondato negli anni ’90 a Biella, che l 2018 si è costituita anche come Accademia di Belle Arti per l’erogazione di formazione formale nell’ordinamento AFAM del Ministero dell’Università e della Ricerca, il cui valore legale dei corrispondenti diplomi è soggetto al riconoscimento da parte del Ministero stesso.

3. Il termine, qui usato in un’accezione comune, è collegato alla trattazione di Bernard Stiegler, vedi B. Stiegler, La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro, Meltemi, Milano 2019.

4. H.D. Thoreau, Disobbedianza civile, SE, Milano 1992.

5. C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

6. N. Elias, Il processo di civilizzazione, il Mulino, Bologna 1988.

7. I. Asimov, Io Robot, 1950.

8. A.C. Clarke, 2001: Odissea nello spazio, 1968.

9. Scritto e disegnato da Masamune Shirow, serializzato per la prima volta in Giappone dal 1989 al 1991, giunge sugli schermi cinematografici nel 1995.

10. Tutte e quattro queste compagne della nostra vita costituiscono ottimi alleati per l’esercizio del controllo sociale che i più diversi gruppi nella storia hanno adottato per mantenere la propria egemonia ed è per questa ragione che lo sviluppo delle riflessioni qui sinteticamente richiamate è avvenuto nell’ambito del dipartimento (o Uffizio) dedicata al rapporto tra l’arte e la Politica, in seno al laboratorio Unidee di Cittadellarte.

11. Tuttavia, non si pensi che l’esercizio dell’arte non comporti automatismi, basti pensare alla dimensione tecnica: un virtuoso del violino ha sviluppato una straordinaria dotazione di automatismi. Ma perché anche la sua interpretazione sia altrettanto straordinaria, dovrà fare appello all’autorialità, e aprire la porta al non ripetuto, al nuovo, a qualcosa che sia in qualche modo connesso allo spazio e al tempo in cui l’interpretazione sta avvenendo, spazio e tempo che per definizione sono diversi dalle precedenti. Il contingente, il situato, la situazione, lo specifico e persino una certa dose di imprevedibile devono essere accolti, se il virtuoso intende essere riconosciuto grande anche come artista.

12. C. Ehresman, From rendering to remembering: Art therapy for people with Alzheimer’s disease, International Journal of Art Therapy, Volume 19, 2014 – Issue 1: Art Therapy and Neuroscience. “…Negli ultimi due decenni, le terapie artistiche creative sono state sempre più utilizzate per il supporto e l’assistenza terapeutica in una varietà di strutture sanitarie. La crescita personale attraverso l’attività artistica è possibile in ogni fase della vita, anche per chi ha una demenza dovuta all’età avanzata. La malattia di Alzheimer (AD) è una condizione neurologica prevalente senza causa definitiva e con trattamenti e interventi efficaci limitati disponibili. Le regioni del cervello e i meccanismi coinvolti nella creazione di arte visiva non sono irreparabilmente compromessi per chi soffre di Alzheimer. L’arteterapia come trattamento per le persone con demenza può migliorare la qualità della vita attraverso i benefici che derivano dall’uso delle arti visive per comunicare l’esperienza interiore e connettersi con gli altri. Inoltre, le attività creative stimolano diverse regioni del cervello contemporaneamente, incoraggiando un cervello sano negli anziani promuovendo i processi plastici del cervello”.