di: Alexis Pauline Gumbs
Il respiro è una pratica della presenza. Una delle caratteristiche fisiche che condividiamo con i mammiferi marini è il modo di processare l’aria. Il loro respiro è molto simile al nostro. Nonostante passino la maggior parte del tempo in acqua, non hanno branchie.
Anche noi, sulla terraferma, spesso ci muoviamo in contesti in cui sembra impossibile respirare. Ma dobbiamo farlo. I processi di adattamento operati dai mammiferi marini in fatto di respirazione sono per noi un elemento cruciale da osservare. Non solo in rapporto alla nostra sopravvivenza in un’atmosfera inquinata su un pianeta che sta per essere sommerso, per causa nostra, ma anche in rapporto alle nostre scelte di vita, alla nostra relazione consapevole gli uni con gli altri.
Grazie a una serie meditazioni su narvali, beluga e balene nell’Artico, e i loro diversi modi di respirare; sui cuccioli di foca che già nell’infanzia imparano a ridefinire il respiro; sulla relazione fra la balena franca nordatlantica, a rischio di estinzione, e le mie antenate Shinnecock, schiavizzate – meditazioni allietate da una visita a sorpresa di uno squalo pinna Nera del reef – questa sezione ci offrirà diverse opportunità per riflettere su ciò che ci impedisce di respirare, e sulle conseguenze di una società che antepone il profitto al respiro. Possa il nostro respiro aprirsi alla possibilità della pace.
Non c’è un solo modo di respirare nell’Artico. Chiedetelo al narvalo, al beluga e alla balena artica.
Il beluga è un mutaforma. Si è evoluto in modo da essere indistinguibile dal ghiaccio. Si raduna nelle acque basse degli estuari, cantando.
Il narvalo rimane in acque più profonde, vicino alla banchisa, sviluppa un corno per spaccare il ghiaccio, e nel corso della vita cambia colore. Non gli servono altri denti. Gliene basta uno.
Secondo la balena artica più grande è, meglio è. Si muove da sola. Così forte da rompere il ghiaccio con il cranio, così vecchia da ricordarsi cosa c’era prima. Non smette mai di crescere.
E voi? Forse è tempo di ricordare che non c’è un solo modo di respirare, nelle profondità ghiacciate o nella calura estiva. Di ringraziare i vostri antenati per come vi siete evolute in presenza di orsi polari, arpioni e altre minacce. Di pensare a cosa volete trasformare, a come volete crescere, a cosa dovete ricordare.
E io? Siete voi che ho sempre amato, non le vostre eleganti strategie. Continuerò ad amarvi, anche se non vi serviranno più. Vi amerò sempre più, che il tempo scorra o ricorra.
Che i ghiacci si sciolgano o l’acqua si congeli ancora. Che la tua prossima mossa sia di protezione, svolta, cambiamento o una qualsiasi loro combinazione. Ci sono almeno tre modi per amarti: come eri, come sei, come sarai. Ti amo. Li scelgo tutti e tre.
Il cucciolo di foca di Weddell non ha ancora sviluppato le pinne. È impacciata. Non vuole nuotare. Non sa di poter respirare sott’acqua. Nessuno gli ha parlato dell’immensa capacità di ossigenazione del suo sangue. Non sa che il latte materno che riceve è tra i più ricchi di grassi al mondo. È il mammifero che vive più a sud nel pianeta, e non sa di quale profondità sia capace. Ma la madre lo sa.
La mamma foca di Weddell spingerà il cucciolo in acqua contro la sua volontà. Gli metterà la testa sott’acqua, mentre il cucciolo tossirà, sputerà, lotterà e si contorcerà. È appena arrivato. Non sa che può respirare sott’acqua. Fino a quando non lo scopre. E allora tutto cambia.
Finito lo svezzamento, sarà in grado di immergersi fino a quasi ottocento metri di profondità. Restarci per un’ora, se gli va. Trovare quel piccolo foro nel ghiaccio che ha creato per respirare, dopo aver nuotato per dodici chilometri. Muoversi con grazia tra mondi ghiacciati e liquidi. Ma ancora non lo sa.
Sono l’unica che qui vede una lezione? L’unica che si dimena fra tosse e sputi, lottando per rimanere chi pensavo di essere, ignara di quanto l’evoluzione abbia già inscritto in me?
Mi sembra di essere in acque troppo profonde per me, ma in realtà come faccio a saperlo?
La dura amorevolezza materna della foca di Weddell ci insegna la differenza tra ciò che è carino e ciò che è necessario.
Ciò che è stato e ciò che potrebbe essere. E sono grata a tutte le mie madri, biologiche, elettive e ancestrali, mammifere e non (come il serpente testa di rame che mi ha salutato l’altra sera), che mi spronerebbero a riconoscere le mie capacità, fidarmi dei miei polmoni più di quanto pensassi di poter fare. Respirare in modi in cui non ho mai respirato prima.
Conoscere il mio sangue come non l’avevo mai conosciuto.
Crescendo, la foca di Weddel perde il pelo, diventa elegante. E allora si sentirà completamente a casa in quell’oceano che aveva temuto. Vedrà e sentirà cose che nessun altro mammifero ha sentito. Ora però tossisce e sputa mentre si aggrappa a ciò che ha conosciuto. Le sembra di affogare, ma in realtà si sta solo incontrando, di nuovo, per la prima volta.
Il mio amore a tutti i miei genitori e alla spinta dell’universo per aver riso di me. Grazie a chi si è già spinto oltre questi portali, anche oltre la vita stessa. Possiamo muoverci tra mondi. Grazie a chi di voi vive e si evolve: la vulnerabilità della vostra rinascita è un esempio per tutti noi.
Grazie a chi mi chiede conto di chi sono, aspettandosi che diventi chi devo diventare. Grazie di ignorare le bugie che mi racconto su me stessa. Anche quando faccio resistenza, vi sono grata. Per l’amore che mi insegnate, profondo, Nero e pieno. Per la cura, la spinta, l’esempio. Per ciò che avete imparato dalla vostra morte. Ciò che avete appreso annegando è il mio respiro.*
Nel momento stesso in cui ho messo piede sulla spiaggia di Bridgehampton una balena è salita in superficie e ha emesso un fiato.
Da dove mi trovavo, su una terra occupata sacra al popolo Shinnecock, non potevo vedere se si trattasse di una
balena comune o di una megattera, ma in cuor mio ho pensato che forse, forse poteva essere una balena franca nordatlantica.
La balena franca, la balena più rara dell’oceano, cacciata quasi fino all’estinzione per illuminare (letteralmente) il progetto coloniale. Grasso e luce.
Un tempo una balena franca poteva respirare per un secolo. Ora non succede più. È raro che arrivino a cinque anni senza cicatrici causate dalle eliche o ferite per le reti aggrovigliate del commercio. E non è necessario. Le barche potrebbero cambiare rotta o rallentare senza problemi.
Sapete invece cosa è necessario? Il respiro. Il loro più del nostro, a dire il vero. Ieri ho scoperto che il respiro delle balene è cruciale per il nostro stesso respiro e per il ciclo del carbonio del pianeta quanto le foreste della terraferma.
Stando alle ricerche, se le balene tornassero ai numeri precedenti alla caccia commerciale, il loro gigantesco respiro immagazzinerebbe tanto carbonio quanto 110.000 ettari di foresta, ossia di una foresta delle dimensioni del Rocky Mountain National Park.
Oggi come un tempo, gli Shinnecock, tra cui alcuni miei antenati, sono legati da un vincolo sacro alla balena franca nordatlantica. Un ascolto che si estende nei secoli.
Una volta, una balena franca spiaggiata era un’offerta all’intera comunità. Nutrimento e luce. Rifugio e calore. Ma quel giorno sulla spiaggia, la poetessa Kathy Engel, che lì era cresciuta, mi disse che in sessant’anni non aveva mai visto una balena, fino a quell’estate. Le hai chiamate con la tua scrittura?, mi ha chiesto online.
Sì. Vi chiamo da sempre. Col sangue e il respiro. Mi ricordo di quello che ci avete dato. E ci avete dato tutto. Luce, casa, i nostri affetti. L’amore, il calore e noi stesse. Quando respiro canto il vostro nome. Posso respirare solo grazie a voi. Avete ancora cento anni di fiato? Se no, che cosa mi resta?
La casa è leggera, ma la perdita è pesante. Non posso vivere senza di te. Perché dovrei vivere senza di te? Custode dei secoli, trasformatrice dell’aria, attendo paziente il vostro messaggio, il mio compito. In debito e grata, nella fiducia e nella marea. Ti vedo, vi sento. Lo so. Dedico il mio respiro alla profondità che mi avete insegnato. Che mi insegnate.
* #docjosephriseinpower
Pubblicato il: 21.12.2023
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita