Oltre i muri dell’adeguazione – François Jullien

L'adeguazione “lega”, è soddisfacente, ma proprio per questo,non "lavora" bene, non si lascia più interrogare, si immobilizza nella conformità e si rovescia così nel suo opposto, ostacolando l’avvenire

di: François Jullien

François Jullien, tra i maggiori filosofi e studiosi contemporanei del pensiero cinese, anima da anni, attraverso il suo lavoro, il dibattito internazionale intorno al rapporto tra filosofia europea e filosofia cinese.Tra i suoi recenti libri, tradotti in tutto il mondo, si ricordano: Una seconda vita. Come cominciare a esistere davvero (2017), Il gioco dell’esistenza. De-coincidenza e libertà (2019) e L’apparizione dell’altro (2020).
Il brano qui riportato è tratto da Riaprire dei possibili. De-coincidenza, un’arte di operare, tradotto e curato da Rudi Capra per la casa editrice Orthotes che qui ringraziamo.
Questo libro è un invito a trasformarci, a non coincidere più con noi stessi, a “scollarci” dalle nostre abitudini, dalle nostre idee stereotipate, dalle nostre convinzioni e dalle nostre presunte verità.
Il termine “de-coincidenza” è un neologismo introdotto da Jullien nel 2017, ma già implicitamente presente nella sua produzione precedente. Questo neologismo condensa in sé una serie di temi che innervano le sue riflessioni e la sua esperienza sul significato del frequentare culture altre rispetto alla nostra, in un certo senso il senso stesso di ogni esperienza. Nella misura in cui ci porta a incontrare mondi nuovi e a trasformarci in questo incontro, ci porta a non coincidere più con noi stessi, a “scollarci” dalle nostre abitudini, dalle nostre idee stereotipate, dalle nostre convinzioni e dalle nostre presunte verità.
Quella della de-coincidenza è un’“arte di operare”. Parlare qui di un’arte sottolinea il carattere non metodico, non programmatico: l’arte rappresenta in modo emblematico un fare il cui scopo è mettere in discussione quanto è stato già fatto, già pensato, già detto, allo scopo di aprire nuove possibilità, nuovi modi di fare, di pensare, di dire. Per dirla nei termini qui proposti da Jullien, l’arte è, per definizione, il luogo di una de-coincidenza sistematicamente intrapresa e messa in opera.

 

 

 

I domani non cantano più1

Di recente, nel mondo, si è verificata una rivoluzione silenziosa, che cambia radicalmente il nostro rapporto alla politica. Facciamo sempre più fatica a proiettare nel futuro un piano della Città Ideale. Eppure, a partire dagli antichi Greci, è quello che abbiamo imparato a fare: teorizzare un’idea di migliore per tentare in seguito di realizzarla nella società.

La Storia in effetti, specialmente in Europa, si è rappresentata come trasmessa dall’idealità, ovvero una forma elaborata del Bene – ideale e con funzione di modello – e allo stesso tempo innestata sul nostro desiderio, eros: la nostra vita vuole dedicarsi a essa.

Ma ciò non è più possibile, innanzitutto per due ragioni congiunte. La prima è che, per modellizzare, bisogna innanzitutto poter isolare. Però, la natura specifica del mondo globalizzato dell’oggi è che niente è isolabile: tutto vi si trova “connesso”, collegato, sovrapposto e dunque “complesso”. Perciò la costruzione di un’idealità comune e condivisa si fa via via più difficile, quantomeno su un piano globale.

È anche il grande paradosso dei nostri tempi: noi procediamo per continue modellizzazioni e simulazioni tecniche, ma non siamo più capaci di modellizzare un Bene pubblico. L’Intelligenza artificale ottimizza tutti gli aspetti, ma non sa più delineare grandi piani per l’umanità. È vero che noi raccogliamo sempre più “dati”, via via più precisi e reticolari, ma questi non riusciranno mai a disegnare la forma del nostro Desiderio. Forse arrivano persino a ostruirlo e oscurarlo.

Ecco perché assistiamo a una smobilitazione nei confronti della politica, tanto che l’era delle grandi rivoluzioni pare essa stessa rovesciata;2 e perché ormai non conosciamo altro che allarmi, rigetti violenti o paure morbose, che si esprimono in rivolte sporadiche.

A ciò si aggiunge questo enorme fatto: noi ormai non crediamo più nel futuro. Eppure è proprio questo che ha tradizionalmente fatto procedere, almeno in Europa, le due cose di pari passo: noi marciamo verso un futuro che sarà migliore dell’oggi. L’idea religiosa che si camminava nella Storia verso un risultato, una salvezza – idea mai completamente laicizzata e che è culminata nell’ideologia del Progresso – non convince più: noi non siamo più sicuri oggi che il domani sarà “radioso”, o semplicemente più felice.

Noi non siamo più convinti, mentre il pianeta stesso brucia. Anche la “Natura” – quella in cui ci rifugiamo davanti ai grandi insuccessi della Storia, quel grembo in cui potevamo trovare protezione, che ci rassicurava nella perpetuità dei suoi cicli, nel rinnovamento delle stagioni attraverso la promessa dei suoi raccolti – non ci rassicura più. E se vaste regioni della Terra divenissero prossimamente inabitabili, come è già previsto? A dispetto della moltiplicazione via via più invadente, persino alienante, dei dati di tutti i tipi e degli algoritmi che servono a combinarli, il mondo ci appare globalmente sempre più instabile.

Non abbiamo mai esercitato tanta presa e tanto controllo sul mondo e allo stesso tempo provato così intensamente la sensazione che il mondo ci sfugga. Il nostro futuro nel mondo non si disegna più, e questo perché anche l’avvenire non ci parla più.3 Questa Storia umana che noi crediamo logicamente avviata verso una società più perfetta non impone più la sua razionalità al pensiero: i domani non “cantano” più…

Quindi non possiamo più proporre e progettare davanti a noi un “altro mondo” – che sia modellizzato, come nel pensiero della Rivoluzione, o anche solamente immaginato, come si contenta di fare l’Utopia. Perché non esiste più un avvenire sostanziale sul quale operare tale proiezione. Possiamo comunque, sfiduciati verso il futuro, ripiegarci sul presente, chiuderci nella propria bolla, ritirarci in un “presentismo” che non si cura più dell’avvenire? “Che fare?”… Rovesciare l’ordine attuale del mondo, prodotto com’è dal mercato globale e dall’impero della tecnica perennemente in espansione, ma chi ne avrebbe la forza?

Allo stesso tempo, a fronte di queste potenze alienanti, via via più ramificate e che sono diventate senza volto, o di cui i volti non sono altro che maschere, l’atto di denunciare evidentemente non basta più. In ogni caso, non fa rumore.

Si deve dunque “fare” altro. Una tale situazione esige evidentemente una strategia innovativa: che sia più obliqua, perché nello scontro diretto si schianta e si rivela impotente; che sia anche più discreta, che si astenga da lunghi discorsi, e faccia rapida presa dato che le parole stesse non hanno presa. Tanto basta dire che si tratterebbe, tornando alla situazione presente, di cercare – localmente, minimamente, lì dove si è – a rilevare più che a progettare: a scoprire cosa ostruisce il presente, cosa impone un blocco, in modo da “incrinarlo”, se così posso esprimermi; e, incrinandolo, “riaprirvi dei possibili”.

Dei nuovi possibili di cui non si sa in anticipo cosa saranno, se non che sono una specie di presente anticipato che precede anche la nostra modellizzazione. Ma che comunque possono dispiegare la loro capacità di “possibili”, o in altre parole, possono disporre di risorse ancora im-previste, per riaprirci un avvenire, e a partendo da questo stesso presente.

Se non si può più progettare allegramente l’avvenire come si è fatto finora, e dato che nella baraonda del mondo nemmeno il denunciare si sente più, ma se nemmeno accettiamo di rassegnarci allo stato attuale delle cose, allora bisogna senz’altro individuare ciò che “blocca” questo stato di cose: ciò che blocca questo stato presente nel dentro stesso del presente, e in questo modo romperlo. Se la situazione odierna del mondo è murata, e a maggior ragione dato che i muri che la rinchiudono sono invisibili, non è nella capacità di incrinare questo “immuramento” il punto della questione? – non si può soltanto lamentarsi di un “disincanto”.

Ma cosa blocca appunto una situazione, per cominciare a parlarne nella maniera più vaga, cosa la “immura” impedendole di dispiegarsi e di aprirsi un avvenire, se non che vi si fissa una forma di adeguazione alla quale si continua ad aderire, nella quale perciò la situazione è portata ad arenarsi fino a diventare impasse, e tutto questo senza che abbiamo cominciato a confessarcelo? Murandosi in questa adeguazione che non si distacca più da sé stessa, rimanendo quindi coincidente a sé stessa, la situazione si chiude, si blocca, e spegne da sé la sua capacità di rinnovarsi.4

Così bisognerà osservare localmente, qui e là, in tutti gli aspetti della nostra esperienza, queste forme di adeguazione, arenate nel loro conformismo senza che neppure l’abbiano notato: il fatto che, chiudendosi nel loro conformismo senza neanche averlo sospettato, bloccano da sé un possibile dispiegamento.

Oggi difficilmente vedo, tenuto conto del modo in cui si è ridotto il nostro margine di azione nel mondo, del modo in cui si è ristretta la nostra iniziativa, una politica più funzionale di questa. Si dirà certamente che, se vi è “adeguazione”, è positivo – conviene, “lega”: che perciò è soddisfacente. Ma proprio perché “lega”, è adeguata, adottata e adattata, è compiaciuta, essa non è più attiva e non lavora più.

Ecco perché bisogna disfare questa adeguazione auto-sterilizzante, per disincagliare questa situazione che si ostacola da sé, andando a incrinare la coincidenza uniforme, in altre parole “de-coincidere”, per rimettere il reale in cantiere; e riaprire un avvenire.

 

 

1 n.d.t.: il riferimento è all’autobiografia del giornalista e deputato comunista Gabriel Péri, Les lendemains qui chantent, pubblicata postuma nel 1947 dopo la sua uccisione a opera dei nazifascisti.
2 n.d.t.: il francese révolue mantiene più strettamente i significati di “finito”, “passato”, e “rivoluzionato”, “rovesciato”.
3 n.d.t.: Nella filosofia di François Jullien, futuro e avvenire non sono sinonimi. “Futuro” implica una proiezione, ciò che “deve essere” o “sta per essere”; mentre “l’avvenire” è semplicemente ciò che avviene, ciò che è “di là da venire”, dunque preservando una sfumatura libera e contestuale.
4 n.d.t.: “Adeguazione” traduce adéquation, a sua volta un calco dell’adaequatio di Tommaso d’Aquino, a sua volta presa di Isaac Israeli, che a sua volta descrive la filosofia aristotelica… in una lunga genealogia semantica che ritiene con sé una pregnanza filosofica memore di tutti questi usi.