di: Andrea Pagnes
Quando discuto di performing arts, penso automaticamente a processi, obiettivi, risultati, valutazioni. Ragiono sul ruolo fondamentale del pubblico, a come riceverà il lavoro presentato, se lo approverà o meno, quali potrebbero essere le reazioni, anche in virtù della sua appartenenza/provenienza culturale. Indubbiamente si possono ricevere risposte e feedback diversi nel presentare una stessa performance a Pechino, piuttosto che a New York, Milano o Belgrado.
Prima del COVID-19, non avevo idea né potevo prevedere che avrei dovuto trasformarmi in un Internet-based performer. Per poter continuare a lavorare mi sono consegnato alla rete nel tentativo di dar forma al vuoto che si viene a creare quando pratiche artistiche come quelle in cui milito, la Live art1 e la body-based performance art, vengono private di ciò che le definisce e le caratterizza, ovvero il corpo del performer in prossimità fisica a quello dello spettatore.
Con la pandemia, quello che si è verificato nell’ambito delle performing arts è stata una sorta di cesura: un’interruzione, una specie di frattura mobile (più che una pausa) che ha causato uno spostamento nei consueti rapporti performer e pubblico. Come quando nella terminologia medico-chirurgica un fattore accidentale provoca la separazione delle parti di un organo funzionante fino a pochi momenti prima, creando appunto una dis-funzionalità. Altrettanto come accade in geologia, quando una fessura, un taglio o una crepa diventano causa dell’interruzione della continuità della roccia, in quanto la scompongono.
Per le misure adottate nel tentativo di arginare la diffusione del coronavirus, gli eventi pubblici di arte venivano cancellati. Le date non erano più valide. Gli spazi istituzionali, alternativi e privati dai quali emergono le pratiche delle arti performative venivano chiusi, diversamente regolamentati, anche snaturati, nell’attesa di essere ridefiniti altrimenti.
Ora, riprese le attività la domanda sulla quale rifletto non è tanto cosa presentare al pubblico della performance nuovamente in live mode, ma se un pubblico per la performance e la Live art esiste ancora e semmai come attirarne di nuovo.
È impossibile sottovalutare l’impatto che la tecnologia digitale ha avuto sulle arti performative, le arti in generale e sul come comunicarle, a maggior ragione durante il periodo della pandemia. Dal modo in cui gli artisti organizzano, producono e realizzano il proprio lavoro, al modo in cui viene fruito in rete. È stato senz’altro un qualcosa di rivoluzionario e che ora continua ad evolversi.
In termini di opportunità create sia per gli artisti che per le istituzioni culturali, uno degli effetti del recente u-turn digitale avvenuto in periodo Covid è stato il cambiamento nelle relazioni con il pubblico. Ci si è resi conto che il potenziale pubblico virtuale di un’opera d’arte contemporanea ora include anche le persone che vivono a pochi metri dalla porta di casa dell’artista che ha realizzato quell’opera, o che magari la propria porta di casa non l’hanno mai varcata per andare a vedere una mostra o una performance dal vivo perché non la ritenevano cosa per loro. Oppure persone che s’interessano di arte e performance, ma che vivono dall’altra parte del pianeta e pertanto non possono fruire di quell’opera fisicamente, in prossimità, perché geograficamente lontane.
Negli ultimi due anni, la promozione, l’offerta esponenziale e la conseguente fruizione dell’arte attraverso Internet, ha permesso a diverse organizzazioni culturali di incrementare le relazioni con il proprio pubblico, allo stesso tempo assumendone sempre più la gestione. Coinvolgere gli utenti in rete fornendo risposte veloci e dirette alle loro richieste, si è rivelata un tipo di strategia vincente sia per testare nuove forme di mercato, sia per espandere e approfondire le connessioni tra operatori culturali, artisti e fruitori.
Senz’altro, un coinvolgimento efficace di un’audience online si ottiene quando gli strumenti digitali vengono usati con competenza per promuovere relazioni significative con appassionati e consumatori che possono, a loro volta, contribuire a portare un pubblico più ampio e diversificato. Tuttavia, con così tante piattaforme, con così tanto gergo in materia d’arte già esistenti online e metodi e sistemi di comunicazione sempre più sofisticati per ottenere visibilità in rete, si può correre il rischio ottenere l’effetto contrario e risultare poco efficaci.
Come e perché incrementare e gestire la propria audience virtuale, trovare un nuovo pubblico di destinazione online attraverso la disseminazione dei propri contenuti digitali, veicolare il proprio messaggio là fuori, in rete, misurarne l’impatto per poi accrescerlo, è attività che richiede tempo, capacità, costanza. Prevede un investimento di risorse e energie che non tutti si possono permettere.
Oltretutto, non è da trascurare il fatto che con la diffusione e l’aumento delle opportunità digitali disponibili, i modelli di curatela e ricerca basati sulla frequentazione, la reciprocità e la cura dei rapporti interpersonali, paiono destinati a essere sempre più emarginati, poiché l’interazione con il pubblico online sembra prevalere sempre più, diventando fattore prioritario nell’organizzazione di eventi culturali. Non è un caso, infatti, che, sempre più spesso, per ottenere fondi istituzionali per realizzare eventi d’arte performativa, nella stesura di un progetto da sottoporre è necessario spendere pagine e pagine su come attirare l’audience, ma assai meno dedicarne alla descrizione di contenuti e concetti che rappresentano la struttura portante e la specificità del progetto.
Ma cosa intendo per pubblico online?
Quando pronuncio la parola “pubblico”, penso ancora automaticamente al pubblico fisico: persone che siedono in un teatro o in un cinema, visitano una mostra, assistono a un concerto in una piazza, partecipano ad una manifestazione per strada o si organizzano per riunirsi in assemblea in un luogo qualsiasi.
Eppure, tanta parte delle istituzioni culturali e moltissimi artisti hanno anche un pubblico virtuale, sia che si tratti delle persone che acquistano i biglietti tramite un sito Web, che mettono mi piace a un post su Facebook o Instagram su un evento imminente, ne leggono il programma online o guardano una breve intervista video con uno degli artisti partecipanti.
Questo secondo tipo di pubblico che frequenta la rete potrebbe anche sovrapporsi al pubblico fisico, incrementandolo numericamente, quasi a creare una sorta di binario a doppio scambio, ma potrebbe anche permanere come fenomeno a sé stante, forse anche più potente per quanto virtuale, poiché il suo coinvolgimento e le sue interazioni online potrebbero risultare l’unico modo con cui valutare la risposta all’offerta, ovvero alla qualità di un progetto culturale e dell’organizzazione o dell’artista che lo promuove.
In effetti, vi sono istituzioni culturali sempre più portate a vedere nei possibili “visitatori” online un gruppo di destinatari principale, di conseguenza pensando a strategie su come rendere la “visita virtuale” tanto esperienziale quanto lo sarebbe lo scoprire e venire a contatto ravvicinato con opere e contenuti in uno spazio fisico e reale.
È possibile che tanta parte di questo pubblico online non venga poi mai fisicamente nello spazio in cui avviene l’evento, per motivi di distanza geografica, possibilità economiche o altri problemi che rendono difficili gli spostamenti. Pertanto, i contenuti digitali, che si tratti di un’intera performance trasmessa in live streaming, il percorso virtuale di una mostra magari nello stesso giorno dell’inaugurazione, ma anche di comunicati, articoli e recensioni letti su altri siti Web partner, post Facebook, Instagram o Tweet che diventano virali, funzionano come finestra sul prodotto (e sul processo e il lavoro che hanno portato al prodotto), e quindi diventano un modo per ampliarne la portata.
Su come incrementare la propria audience online sembrerebbe sufficiente presentare il proprio lavoro in rete evidenziando quei contenuti più accattivanti per certi gruppi target, introducendolo sulle piattaforme che quei gruppi frequentano maggiormente, attirandoli con toni giusti.
Tuttavia, mi chiedo quanto ne valga la pena. Mi chiedo quale sia il grado di attenzione e partecipazione al proprio lavoro da parte di un ipotetico, sconosciuto, pubblico online, con il quale spesso si costruiscono i rapporti attraverso colpi di mouse e tastiera. E se anche ci fossero attenzione e partecipazione, quanto possono durare, con tutte le occupazioni-distrazioni che popolano la rete?
Se fino a poco prima del propagarsi della pandemia il concetto di presenza era fondamento dell’attività del performer così come quella del pubblico che fisicamente vi assiste dal vivo, mi sono detto che per ripartire da una situazione imprevedibile come quella accaduta (dove la presenza non aveva più luogo), forse dovevo ripensare alla nozione di assenza. Dovevo reinterpretare il mio stesso corpo come forza motrice che accetta il confronto con questa specie di vuoto che si era venuto a creare, intendendolo quale realtà potenzialmente attiva, nel senso di vuoto vivo, inseritosi con prepotenza nelle vite di tutti e di conseguenza anche nel processo delle dinamiche creative dell’arte della performance.
Ho pertanto cominciato a rispondere a questo vuoto, muovendomi al suo interno nel tentativo di renderlo palpabile anzitutto attraverso un lavoro di immaginazione. Ho cercato di dargli forma tangibile esprimendolo con parole, testi, suoni, immagini video e montaggi audio, anche assemblando contributi collaborativi di amici colleghi, per continuare ad esprimere le mie urgenze, tuttavia trasferendo tutto il lavoro nella rete, l’unico spazio pubblico dato, in quel momento, dove poterlo renderlo visibile e attuare.
Nell’abitare e frequentare sempre più lo spazio cibernetico per necessità, ho ripensato a cosa significhi limitare l’accesso agli spazi di produzione della conoscenza artistica che, sebbene per molti non siano essenziali alla propria vita, sono certamente sistematicamente rilevanti, poiché, in senso più ampio, si rapportano a spazi ben più importanti, quelli sociali, dove l’accesso, spesso, non solo è limitato, ma negato.
Esplicitare la necessità degli spazi fisici, sociali e discorsivi che venivano chiusi, significava per noi performer ripensare a come salvaguardarli con maggiore cura, scambiandoci informazioni su come inventarne di nuovi una volta finita la pandemia. In questo senso, durante i mesi più difficili della pandemia, il lavoro di networking intrapreso da alcune piattaforme indipendenti di performing arts è stato esemplare nel creare dibattito, connessioni e opportunità in rete: una sorta di respiro planetario catalizzante dove il performer era creatore e pubblico allo stesso tempo.
Anche nell’era digitale, noi performer abbiamo comunque bisogno del nostro corpo, di oggetti e materiali concreti funzionali per dar vita al nostro lavoro, nonché di situazioni laboratoriali dove avvengano incontri fisici e creativi in spazi condivisi. Così come, allo stesso modo, nella vita di ogni giorno, l’essere umano non può ancora prescindere dal rapporto col proprio corpo, lo spazio fisico e l’incontro con l’altro per dare sostanza alle proprie esperienze.
Dico questo, perché interpreto le esperienze personali come filamenti di tempo che ci collegano gli uni agli altri e che pertanto sono condivisibili e integrabili tra loro. Se presi e uniti insieme, questi filamenti appartengono alla psiche collettiva. Se intrecciati tra loro, il corso degli eventi in evoluzione.
Al contrario, nello spazio virtuale, le esperienze vissute è come se si trasformassero in particelle di tempo esploso destinate a dissolversi come polvere. È come se sospingessero il passato verso il presente e facessero rimbalzare indietro il futuro, in modo da disintegrarsi e disabituarci all’intensità dell’incontro con la realtà.
Per quanto si possa definire il tempo come la più persistente illusione creata dall’essere umano, la pandemia ci aveva imbottigliati in un presente pre-occupante che non sembrava lasciare spazio a più potenti visioni tali da risolvere il peso dell’insicurezza nei confronti di un futuro di difficile previsione, e pertanto capaci di trasformare quel peso in rigenerativo anziché degenerativo.
Nei giorni dell’isolamento forzato, paradossalmente facevamo tutti parte di uno stesso pubblico. Un pubblico di migliaia e migliaia di individui confinati nei loro spazi domestici. Un pubblico connesso virtualmente, ma momentaneamente impotente: pubblico in attesa che la calamità avesse fine.
Timothy Morton usa il termine hyperobjects per spiegare oggetti così massicciamente distribuiti nel tempo e nello spazio che trascendono la localizzazione, come i cambiamenti climatici, la natura, e anche Internet.
L’imponderabile accaduto di recente, una volta di più ci ha riportato a dover accettare che la realtà in continuo divenire non è soggetta ai nostri voleri, scelte, libero arbitrio, ma si attua attraverso forze dinamiche di cui siamo sì partecipi, ma che non comprendiamo del tutto, né possiamo controllare completamente.
Ripensare radicalmente al modo con cui relazionarsi alla realtà nel suo insieme e all’altro da sé e provare a ridefinire cosa sia “un pubblico”, significa anche chiedersi perché ambienti da abitare vengono gradualmente sostituiti da ambienti dai quali ci si può assentare in quanto la presenza umana è inutile, e pertanto quali sono le implicazioni politiche e sociali che ne conseguono. Fabbriche, istituti bancari, centri di distribuzione automatizzata che creano assenza attraverso la sostituzione del lavoratore umano con un robot. Anche i teatri possono diventare spazi simili, così come qualsiasi spazio dove performare.
Vi sono già state performance in cui il corpo del performer, considerato obsoleto (per usare un’espressione cara a Stelarc) è stato sostituito da macchine e parafernali non umani, attivando scenari in cui la performance si compie in assenza di pubblico in presenza. Diventava, questa, una possibile strategia delle arti performative contemporanee per creare riflessione sul decentramento e sulla possibile scomparsa dell’essere umano.
Romeo Castellucci ha concepito spettacoli in cui l’essere umano rimane presente, ma in uno spazio e in uno stato spettrale dell’essere, sostituito da macchinari performanti, in un certo senso come succede nella trilogia di Matrix, dove il concetto di assenza si scontra e collide continuamente con presenze fantasmatiche, virtuali e digitali.
Venendo a mancare la fisicità di performer e pubblico nello spazio performativo, ma mantenendovi comunque la performance, questa assenza dell’essere umano può essere letta come riflessione critica all’antropocentrismo e al rapporto essere umano e tecnologia, ma anche come un invito a superare le convenzioni dualiste con le quali ci definiamo per abitudine.
Riflettere sul concetto di assenza permette di spostare la visione antropocentrica per concentrarsi maggiormente sull’analisi degli aspetti discriminatori e violenti dell’attività umana, i conseguenti conflitti e successive interazioni e riassestamenti ovunque questi si verifichino.
L’idea del teatro senza spettacolo di Carmelo Bene è stata senz’altro pionieristica in questo senso: “rivelazione di un mondo apocalittico di quanto accade senza mai essere cominciato, senza mai essersi ripetuto, e che facendo della rappresentazione la storia di un non-luogo, provoca il non-luogo della storia.” (KLOSSOWSKY et al., 1990, p. 11)
La performance e lo spazio dove questa si compie sono intrinsecamente effimeri e temporali. Una volta privati della presenza del performer, si trasformano in milieu dove riflettere sulla possibile finitudine dell’umanità, pertanto sui concetti di partecipazione e sparizione di un pubblico sempre più situato tra l’euforia della tecnologia da un lato e i timori dovuti al costante clima di crisi e precarietà globali che sono diventati la consuetudine.
La macchina in sostituzione del performer è il performer senza scena, privato di ogni atto possibile. Maurizio Grande aveva già felicemente intuito più di trent’anni or sono che “la macchina disarma lo spazio scenico come posizionamento del soggetto e proiezione dello spettatore.” (KLOSSOWSKI et al., 1990, p. 120)
La macchina, occupando la scena, la trasforma in un luogo che se prima esprimeva vita ora la fa apparire impossibile perché l’umano è assente. I processi di transfer, identificazione, affettività performer-pubblico vengo neutralizzati e sostituti da automatismi e parossismi estetici che l’artificio tecnologico porta con sé.
Siamo in uno scenario in cui sempre più consumiamo digitalmente prodotti, media ed eventi di qualsiasi tipo. Con la situazione venutasi a creare con la pandemia, durante la stagione NBA 2020, un pubblico virtuale selezionato veniva mostrato tifare all’interno dei palazzetti, con le reti televisive che spesso zoomavano sugli schermi video collocati intorno al rettangolo di gioco per rivelare e soffermarsi sui volti di chi era collegato. L’evento sportivo si trasformava così in un stay-at-home meeting digitale, con la differenza che l’energia che può dare al giocatore il tifo reale sul parterre, era sostituita da una versione surrogata di faccine festanti a cristalli liquidi.
Nell’ambito delle performing arts, uno dei modi per rappresentare visualmente l’assenza o la presenza fantasmatica del performer è dato dall’uso dell’ologramma. La proiezione olografica offre un’impressione sensoriale di una cosa reale attraverso un’immagine impalpabile che la sostituisce. L’immagine olografica è un’ombra luminosa, verosimile alla cosa reale, una traccia di luce che restituisce la cosa reale in contorni e forma eterei, ma non è la cosa reale, se non la copia di qualcosa che esiste o esisteva già, e che, sostituendosi all’originale, ne diventa a sua volta simulacro.
In alcuni eventi musicali e anche politici, l’applicazione dell’immagine olografica serve a definire una presenza che fisicamente non c’è. Diventa pertanto gesto decostruttivo paradigmatico e testimonianza di un’assenza, di una mancanza, di un’insufficienza, di una privazione, di uno scompenso, di una sparizione.
Audience virtuali e performer olografici producono uno straniamento, anche inquietante, poiché potrebbero rappresentare il punto d’esaurimento dell’immagine della cosa reale, dell’originale. Sostituendosi all’originale rendendolo del tutto immateriale, lo svuotano delle sue caratteristiche e qualità intrinseche. Lo trasformano in una creatura interposta, provvisoria, una specie di zombie avatar, uno spettro transitorio che complica la linearità di quel filo sottile che collega la vita alla morte e che ne traccia il confine, che però ora risulta ancora più opaco, offuscato.
C’è una sorta di fascinazione in tutto questo. Tuttavia, a guardare bene, anche il mondo industrializzato e della globalizzazione economica ha cominciato ad assomigliare sempre più a un maniero abitato da spettri che si affidano alle nuove tecnologie per escogitare modi via via più articolati di meta-realtà e realtà virtuali tali da ispirare meraviglia, ma anche preoccupazione.
In “Relatività” (1953) di Maurits Cornelis Escher, viene raffigurato uno scenario che sfugge alle leggi di gravità. La struttura architettonica (così come quelle virtuali dell’ormai desueto Second Life o del nuovo Metaverso) appare come il contenitore di una comunità apparentemente idilliaca. Si muovono tutti con una certa disinvoltura, ma casualmente. Paiono come intenti a svolgere le loro attività in luoghi collegati da rampe di scale tutte uguali che riconducono a se stesse. Solo una coppia è pochi passi da quello che sembra un giardino, per quanto parte dell’architettura stessa. Eppure lì, tutti gli abitanti sono quasi identici. Hanno teste a bulbo senza fisionomia particolare. Alla fine, a guardarli, ti rendi conto che nessuno di loro ha una via d’uscita se non ripetere all’infinito lo stesso identico percorso che li illude otticamente, così come illude chi li osserva. Un po’ come quando l’unico affaccio sul mondo risulta essere il proprio schermo a cristalli liquidi che tutto uniforma, ma senza il quale si ha la sensazione di essere tagliati fuori da tutto.
Se una fabbrica come luogo di produzione si basa solo sulla tecnologia in sostituzione della presenza di persone fisiche che lavorano, ne risulta un luogo vuoto, inquietante, distopico. Allo stesso modo, un teatro, un museo, qualsiasi spazio performativo, se privo di veri e propri interpreti in azione e di un pubblico reale che in qualche modo vi assiste o partecipa, appare desolante, sprecato.
Il virtuale, il digitale e l’olografico sono artifici e dispositivi anch’essi performanti, ma quello che riescono a fare è creare una situazione fenomenologica, di dichiarata apparenza, dove l’illusione diventa paradossalmente più persuasiva delle cose che sono, in questo modo alludendo alla loro possibile, definitiva assenza e quindi anche dell’umanità, non solo nei luoghi di produzione industriale e culturale, ma anche nel mondo.
Quando le qualità e gli sfondi umani vengono sostituiti o sacrificati alla tecnologia, si delineano contesti post-organici e post-umani dove le interazioni tra persone sono ridotte a un ammasso di dati, filtrati e manipolati da algoritmi.
Forse il concetto di assenza non porterà mai ad una forma alternativa di conoscenza, ma può stimolare a ripensare in modo creativo il processo del divenire.
Senz’altro l’intelligenza artificiale consente di scoprire qualcosa che prima era sconosciuto. La scoperta crea soddisfazione, ma la soddisfazione crea anche dipendenza e distacco dalla realtà, implicando aspetti cognitivi, culturali e sociali. Può portare alla convinzione che solo attraverso essa è possibile rispondere e trovare soluzione alle proprie necessità. Se con l’intelligenza artificiale si possono ricreare ambienti o inventarne di nuovi virtualmente, dove sperimentare possibilità di relazione tra pubblico e performer, si corre il rischio di bloccare pezzi di informazione che l’individuo incorpora solo attraverso le esperienze dal vivo.
In un futuro non lontano, si calcola che oltre il cinquanta per cento dei lavori esistenti sarà svolto non da persone, ma da macchine e software. Queste previsioni suscitano domande che hanno a che fare con il senso ultimo della nostra esistenza. Perché tendiamo a renderci superflui creando cose che sono in grado di sostituirci? Che spazio avremo? Cos’è che non ci piace davvero dell’umano, la sfera emotiva? La comunicazione diretta e l’empatia saranno del tutto inutili? Avrà ancora senso parlare di “pubblico”?
Perdere la capacità di porsi nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona provoca l’estensione della distanza, innescando un processo di disaffezione dall’altro da sé e, di conseguenza, prima o poi anche verso se stessi, non potendo fare altro che registrare i detriti che ci si lascia alle spalle.
A volte, la sensazione che ricevo nel guardare una performance in rete è che lo schermo del mio pc o dello smartphone diventino l’esoscheletro digitale del performer, operatori funzionali di un’entità non umana più autorevole. Nella realtà, a performance conclusa, si finirebbe con l’applauso. Di fronte allo schermo, per l’assenza di vivacità e fisicità reale, si digita semplicemente un tasto per navigare subito altrove.
Nel frequentare spazi virtuali dedicati alla performance (sia che performi io stesso, sia che partecipi a un evento online di performance come spettatore), finché li abito ho come la sensazione di trovarmi sospeso temporalmente. Una volta finita la performance e chiuso il pc, la sensazione è come se invece il tempo si fosse esaurito di colpo. È un qualcosa di completamente diverso dal performare dal vivo di fronte a un pubblico reale, o assistere ad una performance in presenza.
Ad esempio, nel qui e ora della performance dal vivo, lo spettatore può elencare con precisione lo caratteristiche dello spazio nel quale la performance avviene, muoversi al suo interno per percepirne meglio le misure, altezza, larghezza, profondità; oppure osservare il performer da più punti di vista, qualora la performance avvenga non in un teatro, ma in uno spazio che permette al pubblico un certa circolarità di movimento. C’è pertanto una sorta di partecipazione attiva anche nel semplice atto di guardare. All’interno dei confini di uno schermo a cristalli liquidi, lo spazio reale, qualsiasi esso sia, si riduce, appare freddo, asettico, inghiottito in un’atmosfera d’immobilità. E così, altrettanto, si riduce l’empatia e lo slancio partecipativo di chi guarda.
Sono un performer. Capisco con il corpo. La perfomance è un’arte che prevede corpi in prossimità: incontri, condivisione, collisioni. Certamente ho il vantaggio di potermi affidare anche a tecniche digitali, più o meno efficaci, per promuovere il mio lavoro a un ipotetico pubblico là fuori. Tuttavia, ho anche la sensazione di quanto queste tecniche mi limitino e mi costringano a confrontarmi quotidianamente con l’atmosfera capricciosa della rete, dovendosi sempre tastare il polso e misurarsi la temperatura.
Dai social, si fa presto ad evincere quanto certi tipi di pubblico disprezzino lo sforzo di raggiungere l’altro; o quante informazioni vengano spesso liquidate come semplice divulgazione di poco interesse, in casi fortunati ridotte tutt’al più ad una sorta di bonus, un extra opzionale.
Eppure, il pubblico conta. Coinvolgere pubblico per chi fa un lavoro come il mio è una sfida continua. La rete è il mondo “diretto dall’altro” della società moderna, in cui coloro al di là del proprio schermo sono i radar vaganti dai quali raccogliere i segnali. Riuscire ad accrescere e rendere decisivo il numero di follower è senz’altro di conforto al proprio lavoro.
Convocare, invitare, attirare pubblico continua ad essere una condizione essenziale delle arti performative e dell’arte in generale, ma con lo sviluppo della tecnologia digitale pare si stia perpetuando sempre più come mito piuttosto che come fatto sociale.
La vita delle persone è cambiata radicalmente. I dispositivi elettronici di proprietà personale portano l’individuo ad allontanarsi gradualmente dalle aree pubbliche e a pensare in modo diverso e per certi versi più indipendente. La rete consente di ricevere le informazioni in modo più rapido e tempestivo.
Studiosi della comunicazione come Sonia Livingstone investigano come si sia passati dal pubblico di massa ad un pubblico prevalentemente formato da utenti di media interattivi e quanto la natura di questo nuovo pubblico sia mutevole. Le comodità e i cambiamenti forniti dalla tecnologia ci rendono un pubblico di pensatori attivi con le proprie idee, riluttanti a recitare il ruolo di ricevitori passivi, ma desiderosi di essere noi stessi creatori di informazione. La tecnologia ci ha reso spettatori più emancipati (RANCIÈRE, 2008) rispetto ai concetti di pubblico in passato che lo definivano come destinatario singolare e passivo nel processo di comunicazione dell’informazione.
Ora interagiamo e c’intersechiamo alla comunicazione stessa che non è più un modello lineare fornitore-consumatore e pertanto non più a senso unico (LIVINGSTONE, 1999).
Acquisire una migliore comprensione di cosa sia un ‘pubblico’ e di cosa sia ‘audience’, significa acquisire una migliore comprensione del problema centrale della comunicazione nei confronti dell’altro e, in definitiva, di noi stessi.
‘Pubblico’ implica un orientamento verso azioni collettive consensuali tali da essere valutate come efficaci. ‘Audience’ si riferisce a una comprensione condivisa o inclusione in discorsi d’interesse comune. (LIVINGSTONE, 2005)
Oggi, i processi di convergenza e diversificazione simultanea dell’informazione in Internet ci trasformano sempre più in individui “mediati”, ma ci spingono anche a essere un pubblico selettivo che utilizza le informazioni scelte e le decodifica, diventando a sua volta ri-produttore dell’informazione. (HALL, 2021)
Ripubblicare e condividere contenuti offre la sensazione di essere connessi e collegati agli altri, ma sono anche azioni che confondono i confini tra creatore-diffusore di informazioni e contenuti e ricevitore. Se il concetto di pubblico non è più un concetto fisso, risulta difficile decifrarne l’identità poiché questa è già di per sé mutevole, fluida, liquida, come lo è tutta la modernità. (BAUMAN, 2000 e 2005)
Sulle piattaforme di social media, il pubblico potrebbe essere solo l’osservatore o il destinatario dell’informazione un momento prima, ma subito dopo trasformarsi nel redattore di quella stessa informazione e diffonderla a sua volta, modificando così anche la propria identità rapidamente e a piacimento.
Nell’ambito delle performing arts, i dispositivi digitali possono essere utilizzati al fine di creare comunità artistiche temporanee online, innescando processi sia di co-creazione sia di partecipazione (quantomeno simbolica) che, a loro volta, possono determinare atti di ri-posizionamento socio-politico dei soggetti coinvolti. Questo tipo di comunità artistiche online sono spesso modelli sociali non gerarchici, i cui legami tra individui si rafforzano attraverso un’elaborazione collettiva del significato (BISHOP, 2006).
Poiché ci si è abituati a essere sempre più attivi in rete e a viaggiare per mondi virtuali a portata di mouse, vengono costruite nuove narrazioni che uniscono il pubblico e le arti dello spettacolo. Queste nuove forme di performance non solo portano il pubblico e gli artisti in una nuova prospettiva, ma ci ricordano anche dell’importanza di tenere uniti i fili che creano comunità e senso di appartenenza.
Nuove modalità di partecipazione alla sfera pubblica create attraverso questo tipo di performance si aprono a un pubblico non più passivo, ma a un audience invitata a collaborare, interagire e partecipare attivamente alla creazione di significato della performance, della narrazione e del suo svolgimento, compiendo scelte personali e deliberate.
La performance immersiva nel virtuale è diventata uno strumento per concettualizzare nuove forme di presenza performativa che infrangono le regole della narrativa lineare, percepita passivamente attraverso la vista e l’udito di un pubblico inattivo. Questo tipo di performance suggerisce nuove soggettività e definizioni per i ruoli di performer e pubblico attraverso l’immersione nello spazio performativo appositamente creato.
Il digitale, pertanto, può risultare utile come strategia a fini di implementare metodologie di intervento e connessione e pratiche artistiche democratiche, collaborative e inclusive per creare nuove comunità o rafforzare quelle esistenti, anche in un’ottica di percorribilità progettuale sostenibile. Tuttavia, resta ancora da capire quanto ricorrere al digitale soddisfi il performer e allo stesso modo il pubblico nella destinazione ultima del lavoro.
La mia posizione personale di performer e live artist è che l’esperienza del pubblico in presenza resti comunque fondamentale e insostituibile per gli artisti che operano nelle arti performative. Proprio le pratiche della Live art si sono rivelate sin qui particolarmente adatte a investigare la complessità dei valori del contemporaneo, mettendone in discussione i presupposti e allo stesso tempo sfidando le aspettative e gli interessi di chi va a vedere una performance.
Una performance di Live art è una di quelle rare occasioni in cui il pubblico che vi assiste si rende conto di aver vissuto qualcosa che non potrà mai essere ripetuto, ma che non può mai essere dimenticato, poiché è stato condiviso da coloro che l’hanno vissuto in modo analogo.
Le pratiche della Live Art sono influenzate e a loro volta influenzano nuove forme di resistenza sociale e resilienza creativa. Sono risolute e radicali. Si collocano spesso vicino ai movimenti per il cambiamento ambientale, le politiche queer, il femminismo, i processi di decolonizzazione, i diritti umani. Sono sinonimo di artivismo quando esemplificano il pensiero progressista spingendosi oltre i confini delle convenzioni per offrire alternative e immaginare diversi modi di vivere.
Per sua natura inclusiva, accessibile, contraria a qualsiasi forma di ableismo e a sostegno delle minoranze nella sfera sociale, la Live art ha anche la straordinaria capacità di condizionare la cultura mainstream quando sfida le tradizioni, contrasta le definizioni, non scende a compromessi, pone domande, infrange le regole su come fare arte, chi le detta e per quale pubblico.
È uno spazio dove si creano nuovi mondi e dove vita e arte sono inseparabili perché si plasmano a vicenda. In quest’ottica, è da considerarsi una strategia culturale, un motore di ricerca e una forza generativa che fa spazio a processi sperimentali ed esperienziali, a corpi e singolarità che potrebbero altrimenti essere esclusi dai contesti artistici tradizionali. Per questo, è da intendersi anche come una forma di cura del sé in senso sia individuale che collettivo.
Offre un luogo a quegli artisti il cui lavoro non è conforme alle restrizioni delle designazioni usuali per conferivi legittimità all’interno della cultura contemporanea. In questo modo, li stimola a confrontarsi con le politiche della differenza per favorire la varietà di idee e identità. Li invita a correre rischi formali, concettuali, espressivi per indagare in profondità le possibilità e i limiti dell’azione concepita per favorire l’incontro, il dialogo e le relazioni con l’altro.
Che si tratti di performance a per uno o pochi spettatori per volta, o performance collettive a carattere partecipativo, la Live art si occupa di ogni tipo di intervento e di ogni tipo di interazione con il pubblico nella sfera del sociale. Si svincola dalle politiche della rappresentazione per aprirsi a diverse modalità di coinvolgimento e condivisione in modo da connettere persone, luoghi e idee. È dunque una forma di costruzione di comunità e implementazione culturale quando riesce a veicolare nuovi messaggi e significati fondanti.
Qualunque cosa possa sembrare, e ovunque si svolga, la Live art esplora sempre le possibilità dell’evento dal vivo e i modi in cui possiamo viverlo.
Per un live artist, che siano uno o cento, nel qui e ora c’è un solo pubblico. Non c’è che performare nel mostrarsi vulnerabili.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
KLOSSOWSKY, Pierre, et al. Carmelo Bene Il Teatro Senza Spettacolo. Venezia: Marsilio, 1990.
RANCIÈRE, Jacques. Le spectateur émancipé. Paris: Fabrique, 2008.
LINVINGSTONE, Sonia. “New Media, New Audiences?” In: New Media and Society, 1(1) p. 59-66, 1999, SAGE Publications. DOI: https://doi.org/10.1177/1461444899001001010
LINVINGSTONE, Sonia. Audiences and Publics: When Cultural Engagement Matters for the Public Sphere. Bristol: Intellect, 2005.
HALL, Stuart. Selected Writings on Media. Durham: Duke University Press, 2021.
BAUMAN, Zygmunt. Liquid Modernity. Cambridge (UK): Politi Press, 2000.
BAUMAN, Zygmunt. Identity. New York: Wiley, 2004.
BISHOP, Claire. Participation. Cambridge (MA): The MIT press, 2006.
Immagini estratte da The Poetics of Relations
Dopo i dialoghi tra Derrick de Kerckhove e Francesco Monico, tra Michele Cerruti But e Filippo Barbera e tra Paolo Naldini e Ezio Manzini che hanno introdotto il Convegno di ricerca Public! a cura di Francesco Monico, Paolo Naldini, Michele Cerruti But presso Accademia Unidee (il racconto del convegno nel reportage di Marco Liberatore) ora apriamo una serie di approfondimenti sul concetto e sulle declinazioni di “pubblico”. Dopo un’analisi e un’interpretazione dell’intellettuale pubblico del filosofo Federico Campagna, dopo “il sogno” narrativo proposto dall’architetto Maurizio Cilli sul concetto di pubblico come infrastruttura, e dopo il concetto di pubblico come innovazione della pratica a cura dell’urbanista e attivista Elena Ostanel, un saggio sul rapporto con il pubblico visto dal punto di vista di un perfomer
Pubblicato il: 05.12.2022
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita