di: Federica Timeto
Nessun essere vivente esistente in natura è naturale nel senso tradizionale del termine, non solo perché mette in atto “tecnologie” attraverso cui entra in comunicazione con gli altri e con le parti di cui si compone, ma perché in queste composizioni manifesta il proprio essere sociale, dal momento che solo associandosi con altri viventi attua le proprie capacità. Per Haraway, la natura è sociale, è una questione di composizione. “Gli organismi sono ecosistemi di genomi, consorzi, comunità, cene parzialmente digerite, mortali formazioni di confine”1.
La vita si fonda su continue relazioni interspecie, situate e dinamiche, rispetto alle quali “i processi di incorporazione andrebbero ripensati come verbi piuttosto che come sostantivi”2, e queste relazioni rendono vano riferirsi alla specie come categoria fondante dell’analisi. Le creature che compongono la moltitudine eterogenea del vivente, dagli umani ai non umani, dagli animali ai microbi, appaiono “sempre aggrovigliate in relazioni piuttosto che ordinate in precise tassonomie”3, e rispetto a questo groviglio infinito, indefinitamente esteso ma anche infinitesimale, la specie è un’etichetta che può essere applicata solo retroattivamente4.
Simpoiesi5 è il nome del divenire in comune del mondo: sono simpoietiche quelle configurazioni condivise, più o meno estese, che oltrepassando il principio di autosufficienza dei sistemi viventi presuppongono la parzialità, piuttosto che la totalità, dell’essere; i soggetti e gli oggetti, la cultura e la natura, si co-costituiscono in intra-azioni6 in cui “i partner non esistono prima dei nodi”7 e ognuna delle quali conta perché materializza [matters] il mondo8. Le associazioni simpoietiche sono naturalcuturali: il sociale è sempre anche materialmente “ambientato”, e viceversa non esiste una natura che non sia anche già dotata di agentività e in grado di stabilire e modificare le relazioni sociali. La socialità della natura non è, però, soltanto quella osservabile ad occhio nudo: gli attanti più prolifici della biosfera sono infatti i batteri. I “minuscoli compagni”9 che vivono dentro di noi10 formano il microbiota (microbioma è il loro patrimonio genetico), le cui alterazioni influiscono sulla nostra condizione psicofisica, dai livelli di serotonina ai cambiamenti di peso, alle alterazioni del sistema nervoso ed endocrino, dunque anche sui nostri comportamenti.
Seguendo il divenire naturalculturale del mondo, Haraway adotta una prospettiva sempre più radicalmente molecolare11: “‘divenire-con’ è ‘divenire mondeggiando’ [becoming worldly] […] Una volta che ‘noi’ ci siamo incontrati, non possiamo più essere ‘gli stessi”12. Se l’appartenenza di specie è molare, il divenire può essere soltanto molecolare (non ci può “essere” un divenire, sarebbe un ossimoro); come suggeriscono Deleuze e Guattari, è forse soltanto nel molecolare che può emergere un divenire-animale13 – nel senso molto ampio di divenire vivente – effettivamente indipendente dalla prospettiva umana: il molecolare è infatti inter-esse a-soggettivo, attraversamento, movimento continuo in sé impercettibile.
Anche se il regno dei microrganismi nella classificazione di Linneo non era differenziato da quello vegetale e animale, oggi i microrganismi – tutti quegli organismi invisibili a occhio nudo – compongono tre dei cinque regni dei viventi14, per quanto li attraversino tutti15. I batteri, microrganismi procarioti (unicellulari e le cui cellule mancano di nucleo) che appartengono al regno delle monere, sono stati le prime forme di vita a evolvere tre miliardi e mezzo di anni fa; essi hanno con l’ambiente il rapporto più “intimo” di tutti gli altri viventi, e creano e sostengono continue relazioni simbiotiche comportandosi, secondo Hird che parafrasa ed estende la definizione di “specie compagne” di Haraway, come compagni non per specie16.
I batteri convertono le sostanze da cui dipende la vita di tutti i viventi17. Dotati di una “intelligenza sociale” in grado di riconoscere l’alterità (la comunicazione avviene infatti anche tra comunità di batteri differenti), hanno sviluppato complesse strategie comunicative in sistemi distribuiti che ne regolano la “divisione del lavoro” e i mutamenti genetici. I batteri possiedono una memoria collettiva, ricordano e comunicano: i plasmidi, geni che si muovono da un batterio all’altro, sono in grado di riprogrammare i batteri riceventi che ne accolgono le informazioni, e questo comportamento “altruistico” della coppia ospite/ricevente influisce sulle modificazioni genetiche della discendenza18; in caso di condizioni ambientali estreme, come una carenza di nutrienti, i batteri formano delle spore che ne rallentano il metabolismo quasi a zero, ma ciò avviene dopo un processo di “consultazione” in cui si stabilisce collettivamente il livello di stress della comunità, un esempio di “parlamento delle cose”19.
Come le monere, possono associarsi in comunità pluricellulari anche i protisti, microrganismi unicellulari ma eucarioti, cioè aventi cellule dotate di nucleo. Tra questi, i cosiddetti funghi mucillaginosi, in realtà amebe, sono chiamati anche amebe sociali perché quando hanno disponibilità di cibo si comportano come amebe individuali, se invece le risorse di cibo scarseggiano si aggregano formando assemblaggi multicellulari, di consistenza gelatinosa simile a quella delle lumache: anch’esse sono dotate di capacità di apprendimento e memoria pur se prive di sistema nervoso, come dimostrato da diverse ricerche20 . Il fatto che gli zoologi le classifichino come animali, i botanici come piante e i micologi come funghi mostra che le amebe sociali confondono la natura dell’identità e i binarismi propri di una prospettiva antropocentrica e specista, scatenando il panico da invasione21. E tuttavia, l’alto livello di cooperazione e relazionalità delle amebe sociali negli articoli scientifici è descritto spesso in termini morali, cosa che finisce per rinforzare la separazione tra natura e cultura e confermare i privilegi dell’umano22: cosa succederebbe se, invece, seguissimo fino in fondo l’agentività non umana e non identitaria delle amebe, il loro comportamento queer, e iniziassimo a immaginare la natura stessa come “una zecca rossa, una perversa, una queer?”23.
Anche i funghi (composti da cellule isolate raggruppate in filamenti, che possono costituire strutture pluricellulari complesse, e che comprendono lieviti e muffe) – sono nostri compagni naturalculturali, anzi, il concetto di simbiosi si riferisce inizialmente proprio ai licheni24, simbionti derivanti dall’associazione di un fungo e di un cianobatterio: quest’ultimo aziona il metabolismo con la fotosintesi, mentre il fungo consente ai licheni di vivere in condizioni ambientali anche estreme. I funghi formano associazioni simbiotiche mutualistiche con le piante, entrando nelle loro radici (micorrize) nutrendosi e fornendo alle piante i minerali di cui hanno bisogno. Essi formano anche una rete tra piante di specie diverse, oltre a garantire a certi microbi la possibilità di viaggiare attraverso le loro connessioni, tanto che si è parlato delle reti di micorrize come di un vero e proprio Wood Wide Web25.
Quando la simbiosi26, cioè la vita in comune fra organismi diversi, comporta modificazioni evolutive per gli organismi ospiti e ospitanti (comparsa di nuove specie o nuovi organi) avviene la simbiogenesi – ossia la stabilizzazione della simbiosi che porta alla comparsa di un nuovo fenotipo. La teoria della simbiogenesi, elaborata nei primi anni del Novecento dal botanico russo Konstantin Mereschkowski e resa nota e approfondita da Lynn Margulis a partire dalla fine degli anni Sessanta, afferma che gli organismi eucarioti si sono evoluti dalla fusione simbiotica con organismi procarioti, in particolare batteri e archei27. Gli organismi che divengono insieme, gli olobionti (termine che in Margulis indica l’associarsi di bionte ospite + bionte ospitante) o, nella definizione di Haraway, oloenti (usato per includere anche composizioni tra viventi e non viventi) sono dunque formazioni liminari, nodi di relazioni intra-attive – osservabili già a partire dal livello microbiologico –, simbionti l’uno per l’altro che rendono in ultima istanza priva di senso la distinzione fra ospite e ospitante28.
“Essere uno è sempre divenire con molti” compagni, anche minuscoli29. Il divenire-con rende “capaci” di risposta, ovvero in termini harawaiani repons-abili, i partner coinvolti nella relazione: in questo senso, simbiogenesi significa divenire insieme responsabilmente, in contrasto con “la matematica della competizione”30 della sintesi moderna, che considera l’evoluzione come accumulazione graduale e lineare di piccole mutazioni favorevoli a partire dalle unità individuali genetiche e in vista delle unità di specie31. Piuttosto che attribuire centralità ai geni – questi feticci della tecnoscienza che mappano la vita in forme stabili elidendone la reticolarità situata e mutevole, su cui Haraway incentra buona parte di Testimone Modesta – come fa il neoevoluzionismo, la simbiogenesi privilegia i mutamenti epigenetici, cioè le modificazioni del fenotipo che non coinvolgono direttamente cambiamenti nel DNA32.
La teoria della simbiogenesi non intende contrapporre il vocabolario della cooperazione a quello del conflitto33, ma evidenziare come l’evoluzione non sia una questione di filiazione e riproduzione dello Stesso, bensì l’esito di trasformazioni trasversali, di assimilazioni, digestioni e deiezioni; l’evoluzione si ripiega continuamente su se stessa in topologie non euclidee34. Haraway rimane sempre ben consapevole del caos che caratterizza i processi simpoietici, non necessariamente orientati a convergenza ed ecumenismo, dell’alternarsi di composizione e decomposizione nel vivere e morire condiviso35, del carattere allo stesso tempo inclusivo ed escludente dei processi di differenziazione e delle asimmetrie in cui le intra-azioni hanno luogo. Non è detto, insomma, che tutte le “conversazioni” con gli ospiti trasformino questi ultimi in “parenti adottivi”, nel lungo periodo36.
1 D. Haraway, WSM, p. 31.
2 Ivi, p. 249.
3 Ivi, 33n, p. 330.
4 Il darwinismo è la più grande umiliazione della specie umana, sostiene T. Morton in Thinking Ecology. The Mesh 1, 2009, https://www.youtube.com/watch?ime_continue=75&v=R-mWCPa9y3c. Il DNA, per esempio, non contiene un “sapore” di specie, ma neppure di DNA! Nelle sequenze di DNA, infatti, non si può distinguere quale linea è “genuina” e quale invece è un inserto “virale”. Per una lettura virale della figurazione cyborg vedi J. Schneider, Haraway’s Viral Cyborg, in “Women’s Studies Quarterly”, vol. 40, n. 1, 2012, pp. 294-300.
5 Un termine coniato in origine dalla studentessa di Haraway, Beth Dempster, alla fine degli anni Novanta.
6 K. Barad (Meeting the Universe Halfway, cit.), cui si deve l’espressione, definisce l’intra-azione come una relazione in cui i termini correlati non preesistono alla relazione, a differenza che in una interazione, che mette in comunicazione identità preesistenti.
7 D. Haraway, CH, p. 28. Nell’edizione originale il termine usato da Haraway è knotting, annodarsi, con una sfumatura più processuale. Anche “il femminismo non preesiste i suoi relazionamenti” scrive M. Puig de la Bellacasa in ‘Nothing Comes Without its World’: Thinking with Care, in “Sociological Review”, vol. 60, n.2, 2012, p. 200.
8 K. Barad, Meeting the Universe Halfway, cit., p. 353.
9 D. Haraway, WSM, p. 4.
10 Il nostro corpo contiene dieci trilioni di cellule umane e cento trilioni di cellule microbiche di circa duemila tipi diversi, pari a un peso corporeo di circa 1,5-2 kg. Vedi anche E. Thacker, Criptobiologie, in M. Filippi ed E. Monacelli (a cura di), op. cit.
11 Già il suo primo libro, Crystals, Fabrics and Fields. Metaphors that Shape Embryos (North Atlantic Books, Berkeley 1976), tuttavia, s’incentra sulle metafore dell’embriologia.
12 D. Haraway, WSM, p. 287.
13 L’espressione “si diviene animale solo molecolarmente”, usata da G. Deleuze e F. Guattari (in op. cit., p. 205) è un buon punto di partenza per comprendere la critica all’animale antropomorfizzato elaborata da Deleuze e Guattari e ripresa nella critica di Haraway, in CSM e in WSM.
14 Monere, protisti, funghi, piante e animali.
15 Per un approfondimento sulle diverse classificazioni, vedi M.J. Hird, The Origins of Sociable Life. Evolution After Science Studies, Palgrave Macmillan, New York 2009, p. 36 e ss.
16 “[C]ompanion with not-species”, Ivi, p. 135.
17 Per esempio, sono fondamentali per il ciclo dell’azoto, perché lo fissano e nitrificano in modo che sia assimilabile per le piante (si vedano per esempio i rizomi simbiotici delle radici delle leguminacee, per questo usate in agricoltura come rigenerante delle sostanze del suolo per ristabilirne i livelli di nitrogeno), e poi lo denitrificano nuovamente liberandolo nell’atmosfera. E forse possiamo iniziare a pensare che siano anche fondamentali anche per il “ciclo della plastica”, dato che esistono batteri, da poco scoperti, che emettono un enzima noto come PETase in grado di rompere i legami chimici del polietilentereftalato (Pet).
18 E. Svoboda, Can Microbes Encourage Altruism?, in “Quanta Magazine”, 29 Giugno 2017, https://www.quantamagazine.org/can-microbes-encourage-altruism-20170629/?fbclid=IwAR1he8hy43-y5I1n5LCMCVBKfnjRAi2pomc7cAH6hfDPycLK2G6qseJxLzA
19 L’espressione è usata da B. Latour, Nous n’avons jamais été modernes, Editions La Dècouverte, Paris 1991; tr. it. di G. Lagomarsino, Non siamo mai stati moderni, elèuthera, Milano 2009.
20 K. Barad, La performatività queer della natura, cit.; K. Moskvitch, Slime Molds Remember. But Do They Learn?, in “Quanta Magazine”, 9 Luglio 2018, https://www.quantamagazine.org/slime-molds-remember-but-do-they-learn-20180709/
21 Con evidenti connotazioni politiche, come evidenzia Barad, Ivi. Vedi anche M. Glick, op. cit.
22 Nell’ontologia “quantistica” di Barad (Meeting the Universe Halfway, cit.), le differenziazioni natura/cultura e umano/non umano producono effetti di materializzazione (ogni taglio agentivo risolve localmente l’indeterminatezza ontologica). Per diventare produttive, queste differenziazioni devono però essere sganciate dalla fondazione identitaria quale punto di partenza.
23 K. Barad, La performatività queer della natura, cit., p. 70.
24 A. Tsing, Unruly Edges: Mushrooms as Companion Species, in “Environmental Humanities”, vol. 1, 2012, p. 142. Anche i virus, organismi acellulari e parassiti obbligati, sulla cui definizione di vita si dibatte, ma che tuttavia evolvono e si riproducono, stabiliscono relazioni evolutive con i loro ospiti eucarioti e possono funzionare come simbionti, piuttosto che come patogeni, come dimostra una ricerca sui trasferimenti genici orizzontali dei grandi virus nucleo-citoplasmatici a DNA, o NCLDV, da cui emerge che i genomi virali consentono alle cellule infettate di diventare più efficienti nel procurarsi energia soprattutto quando i nutrienti scarseggiano: Schulz, F., Roux, S., Paez-Espino, D. et al., Giant Virus Diversity and Host Interactions through Global Metagenomics, in “Nature”, n. 578, pp. 432-436, 2020, https://doi.org/10.1038/s41586-020-1957-x
25 Che recentemente è stato anche mappato: C. Marshall, Wood Wide Web: Trees’ Social Networks are Mapped, in “BBC News”, 15 Maggio 2019, https://www.bbc.com/news/science-environment-48257315
26 Termine introdotto alla fine dell’Ottocento dal botanico H.A. de Bary, a sua volta ispiratosi allo zoologo P.J. Van Beneden.
27 La teoria dell’endosimbiosi sostiene che i mitocondri e i cloroplasti presenti all’interno delle cellule sono evoluti inglobando batteri rispettivamente in grado di respirare ossigeno e praticare la fotosintesi.
28 Haraway, CH, pp. 90-91.
29 Id., WSM, p. 4.
30 Id., Anthropocene, Capitalocene, Chthulucene: Staying with the Trouble, trascrizione della talk alla conferenza Anthropocene: Arts of Living on a Damaged Planet, Institute of the Arts and Sciences, University of Santa Cruz, 5 Settembre 2014, http://opentranscripts.org/transcript/anthropocene-capitalocene-chthulucene/.
31 L. Margulis invece sottolinea come, potenzialmente, sono maggiori differenze (e grossi cambiamenti in periodi di tempo circoscritti) a evolvere in taxa più elevati: L. Margulis, Symbiogenesis and Symbionticisms, in R. Fenster e L. Margulis (a cura di), Symbiosis as a Source of Evolutionary Innovation. Speciation and Morphogenesis, The MIT Press, Boston, 1991, pp. 1-14. Si veda anche la critica della sociobiologia articolata da Haraway in PV.
32 F. D’Abramo e H. Landecker, Anthropocene in the Cell, in “Technosphere Magazine”, 20 Marzo 2019, https://technosphere-magazine.hkw.de/p/Anthropocene-in-the-Cell-fQjoLLgrE7jbXzLYr1TLNn Così secondo la biologia evolutiva dello sviluppo (abbreviata in Evo-Devo, o Eco-Evo-Devo, da Evolution and Development Theory), più volte richiamata da Haraway, soprattutto in CH.
33 Vedi anche J. van Loon, Parasite Politics: On the Significance of Symbiosis and Assemblage in Theorizing Community Formations, in C. Pierson e S. Tormey (a cura di), Politics at the Edge. The PSA Yearbook 1999, MacMillan Press; Sr, Martin’s Press, London-New York 2000, pp. 241-253.
34 D. Haraway, Encounters with Companion Species, cit. p. 113. Per Haraway, però, la simbiogenesi non è compatibile con l’idea di autopoiesi dei sistemi che Margulis invece mantiene (vedi D. Haraway, CH, 43n, pp. 210-211; vedi anche M. Hird, op. cit), e che l’ipotesi Gaia di J. Lovelock amplifica: vedi M. Tola, Composing with Gaia: Isabelle Stengers and the Feminist Politics of the Earth, in “PhoenEx”, vol. 11, n. 1, pp. 1-21; M. Hird, op. cit., p. 123 e ss. Richiamandosi al pensiero di Stengers, Haraway è piuttosto interessata alle interferenze che influiscono sulle trasformazioni continue dei sistemi viventi. Vedi anche infra, capitolo seguente.
35 Per quanto diversa negli esiti rispetto alla simbiogenesi, la struttura parassitica dell’evoluzione secondo Michel Serres (Le parasite ̧ Grasset, Paris 1980; tr. ingl. di L. R. Schehr, The Parasite, The Johns Hopkins University Press, Baltimore and London 1982) presenta diversi punti di contatto con la visione harawaiana (come nota anche Snyder, op. cit., e un trait-d’union è certamente Latour), in particolare per quanto riguarda la relazionalità dei sistemi, mai totalmente chiusi. I parassiti, nella teoria di Serres, funzionano come operatori che creano catene di mediazioni, relazioni piuttosto che cose; nessuna composizione collettiva è mai un’addizione di identità distinte, cosicché “il ‘noi’ è meno un insieme di ‘Io’ che l’insieme degli insiemi delle sue trasmissioni”: M. Serres, Ivi, p. 228. Una ripresa della teoria di Serres per analizzare l’infrastruttura delle reti è in M. Pasquinelli, op. cit.
36 L. Margulis e D. Sagan cit. in D. Haraway, OTH, p. 184.
Pubblicato il: 12.10.2020
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita