di: Andrea Calciati
Redazione: partiamo dall’inizio, puoi raccontarci qualcosa di te?
Luz: Sono Luz J. – in arte kala.mitad – e sono un’artista/arte terapeuta italo-colombiana.
Questa mia dualità di origine è stata la spinta a partire cercandomi dall’altra parte del mondo, da sola per tre mesi. Per conoscermi meglio, per conoscere una terra che mi appartiene ma che fino ad ora non avevo mai realmente frequentato, né tanto meno capito, se non per un paio di brevi vacanze. Un sogno che si è realizzato per varie congiunzioni astrali.
Frequento l’ultimo anno di Arte per il Cambiamento Sociale dell’Accademia Unidee, della Fondazione Pistoletto e cogliendo l’occasione di dover sviluppare la mia tesi finale, mi sono fatta aiutare per mettermi in collegamento con la Colombia tramite conoscenze interne, per poter arrivare di là già con una base di progetto.
R: E cosa puoi dirci di questo tuo viaggio?
L: Le persone fondamentali per la realizzazione di questo mio sogno sono state tante ma in particolare Juan Sandoval – artista e direttore del Programma di Residenze UNIDEE – e, dall’altra parte Alejandro Vásquez – direttore della galleria d’arte del Centro Colombo Americano di Medellín che, senza questionare troppo, ha accettato la mia proposta.I mesi prima della partenza li ho dedicati a trovare un tema per la tesi, iniziando a svilupparlo ancora prima di partire, facendo tentativi e prove già in Italia.
Argomento: cibo come mezzo di comunicazione.
R: Ti eri fatta già un’idea prima ancora di partire quindi?
L: Mi sembrava tutto stupendo, soprattutto se immaginato “da italiana che vive in Italia”, dove il cibo per noi è tutto.
Ma quando sono arrivata dall’altra parte del mondo, la realtà che ho trovato è stata però differente.
Negli anni ho frequentato poco la Colombia, appena un paio di volte per delle vacanze di una ventina di giorni al massimo. Lì però ho ancora tutti i parenti e negli anni sentivo crescere questo desiderio di conoscere un po’ meglio la mia “big family sud americana.”
Ho deciso quindi di dedicare la prima parte della mia ricerca alla mia famiglia – questa semi-sconosciuta. Ho passato tre settimane a La Mesa – paesino di trentamila abitanti, dove vivono tutti i miei parenti, a circa un’ora e mezza da Bogotà (il tempo di percorrenza dipende da quanti camion trovi sulla strada) e ho effettivamente parlato di cibo e provato moltissimi piatti e sapori nuovi – che poi tanto nuovi non erano, solo che non li ricordavo.
Ho parlato con tutti, chiesto ricette personali, mi sono fatta preparare pranzi o portare nei loro posti del cuore. È stato bello!
Dopo quei giorni, dove ho potuto vivere e conoscere meglio la mia famiglia, mi sono spostata a Medellín per iniziare l’altra parte della mia avventura – che ancora faccio fatica a credere di aver vissuto.
R: cosa puoi dirci di Medellín ?
L: Arrivata lì, sentivo già che la mia ricerca stava cambiando, avrei voluto lavorare con i bambini come una sorta di continuazione di quello che già avevo iniziato in Italia.
Ho parlato di questo con Alejandro della galleria d’arte – che sulla base della mia idea iniziale era già pronto a mettermi in contatto con il ristorante al decimo piano del palazzo del Centro Colombo Americano, dove mi avrebbero aiutata nella creazione della performance culinaria che avevo in mente.
R: e invece?
L: Qualcosa non mi tornava, volevo scendere, non salire. Cosi, dopo una breve consultazione, Alejandro mi mette in contatto con varie realtà territoriali che lavorano principalmente in alcuni quartieri un po’ spostati dal centro, quartieri con molte difficoltà, in cui ci sono bambin* e ragazz* a cui si prova a trasmettere l’idea di un futuro diverso da quello di nascita.
Platohedro, la rete musicale di Manrique, e il lab maker del Centro Colombo Americano, sono alcune delle realtà che ho incontrato, che mi hanno permesso di vedere l’altra faccia della medaglia, mettermi in discussione, aiutando e creando dei laboratori ad hoc per i più piccoli.
Il fatto di essere artista e arte terapeuta ha facilitato la comunicazione tra le parti. Ho avuto l’opportunità di lavorare come artista tenendo dei laboratori di collage e di creazione magliette – che poi i ragazz* della rete musicale hanno usato come divisa ufficiale per il loro concerto.
R: cosa rappresenta l’arte, per te, a Medellín?
L: l’arte a Medellín è vissuta in modo diverso rispetto a qui, o almeno cosi l’ho percepita io. L’arte è diventata per loro uno strumento di rivalsa sociale ad alcune situazioni non facili. Il primo posto che ho incontrato lì, che ha utilizzato l’arte come via di sviluppo, è stato la COMUNA 13 – quartiere che negli anni ‘80 del secolo scorso, è diventato famigerato per le sue storie di droga e violenza.
Ora una parte è diventata turistica e sicura, ci sono gallerie d’arte, muralisti e tour dove le guide presentano cos’è stata tutta quella trasformazione sociale. Come ogni trasformazione urbana, ha i suoi pro e i suoi contro e l’essere diventato un quartiere così famoso, non aiuta le persone che quotidianamente vivono lì.
Alcuni turisti pensano che sia diventato un parco per adulti, portano dollari e pretendono che gli sia dato tutto ciò che desiderano – prostituzione (a volte anche con ragazz*minorenni) droga e sballo in generale – e inoltre non tutto il quartiere è diventato “super safe” e a volte questi turisti passano guai seri.
R: ma non tutto è naturalmente solo turismo o violenza?
L: un altro esempio sono i matinée di Platohedro che si svolgono a cadenza quindicinale il sabato mattina nel quartiere chiamato FARO – un posto sulle alture di Medellín un po’ dimenticato da Dio – dove vivono per lo più venezuelani migranti, dove manca acqua e servizi in generale e dove transitano tantissimi bambini.
Lì, in questi laboratori, si usa la creatività e l’ascolto. Due turni da un’ora e mezza ciascuno per un totale di un centinaio di bambini – ce ne sarebbero di più da inserire ma mancano le risorse.
Poi la rete musicale, che con la sua messa a disposizione di strumenti e lezioni gratuite, raccoglie e segue persone dai 3/4 anni fino all’età adulta, lasciando loro in mano una professione che va al di là del percorso scolastico canonico scelto.
Questi sono solo alcuni esempi delle realtà che ho incontrato e che qui accenno solo brevemente. L’esperienza è stata ampia, piena di emozioni e momenti difficili da descrivere. Ho potuto vedere realtà diverse, realtà che nonostante abbiano poche risorse, si prodigano per salvaguardare la sanità e il futuro dei più piccoli e non solo, dove l’arte appunto è vista come strumento e non come qualcosa da conservare e ammirare.
R: pensi che questa tua esperienza avrà un seguito?
L: Vorrei poter continuare il discorso in terra colombiana che ho appena iniziato, colta anche dall’entusiasmo delle persone con cui ho collaborato.
Persone che saranno poi le protagoniste del mio progetto finale per la tesi espositiva – che vi invito a venire a vedere il 21 settembre durante l’evento di Arte al Centro 2024 –
persone con cui alla fine ho parlato di cibo ma solo come strumento e mezzo di conoscenza delle parti e come “normalizzazione” di un terzo mondo che a noi bianchi europei risulta ancora molto poco conosciuto o spesso visto con pregiudizi e fraintendimenti.
Pubblicato il: 01.10.2024
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita