di: Alison Harvey
Secondo il teorico degli studi culturali Stuart Hall (1995), la costruzione della razza nei media è legata a più ampie lotte ideologiche relative all’identità. Possiamo estendere la sua riflessione alla costruzione del genere, della classe e di altre forme di oppressione. I modi in cui soggetti e gruppi sono rappresentati nei media servono ad articolare le norme egemoniche a essi associate, presentandole come innate e di senso comune e diffondendole ad ampio raggio. La ripetizione di idee specifiche su determinati soggetti fa sì che queste diventino autoevidenti e naturali, facilmente riconoscibili dalle audience.
Per tale ragione, alcune interpretazioni e storie diventano insiemi di idee dominanti, come nell’esempio delle immagini che ritraggono le femministe come guastafeste arrabbiate e odiatrici di uomini. Più in generale, i media rafforzano e portano avanti idee sulla differenza e problematiche associate a gruppi razzializzati in un processo chiamato alterizzazione, di cui parleremo in maniera approfondita qui di seguito […]. In sostanza, si tratta del processo di esclusione di coloro che sono visti come esterni rispetto a un gruppo sociale dominante, un’azione che i media sostengono subordinando questi gruppi nella loro raffigurazione e caratterizzazione. In alcuni casi è un processo esplicito e facilmente identificabile come sessista, razzista, omofobo o in altro modo discriminante, ma nella maggior parte dei casi, per via delle norme egemoniche legate a questi gruppi e dei tradizionali dispositivi di narrazione, queste rappresentazioni appaiono prive di problematicità o legate al senso comune.
Per intendersi, è comune imbattersi in tropi familiari, ovvero dispositivi che consentono a chi guarda, chi legge, chi ascolta o chi gioca di identificarsi con i personaggi. Questi tropi sono culturalmente specifici e di conseguenza non hanno una risonanza a livello globale, per quanto, come vedremo, alcuni tropi di genere sono piuttosto ricorrenti. Ad esempio, un tropo familiare nei media occidentali è quello del nerd, solitamente un personaggio maschio bianco eterosessuale che è compatibile con idee stereotipate sulla mascolinità egemonica nella sua rappresentazione come mancante e insufficiente. Focalizzandosi sulle anomalie del nerd quanto ad abilità sociali o sportive e desiderabilità sessuale, questo tropo rinforza il concetto che una mascolinità appropriata sia fisicamente e socialmente aggressiva (Quail 2011).
Probabilmente non farete fatica a immaginare esempi di questo personaggio. È questo lo scopo dei tropi – aiutare il pubblico a intuire prontamente il ruolo narrativo dei personaggi e la loro relazione con gli altri. Da una prospettiva femminista sui media, è importante tenere in considerazione il potere costante dei tropi genderizzati e come quelli legati alle donne siano primariamente orientati alla loro disponibilità sessuale, al lavoro di cura o ad altre forme di relazione con uomini o bambini. Allo stesso modo, i media contribuiscono alla reificazione di idee circoscritte su un’unica mascolinità adeguata, concorrendo a definire un ordine di genere che normalizza la violenza, il distacco emotivo e il desiderio eterosessuale per uomini e ragazzi. Al contempo, questi tropi contribuiscono all’idea di differenze insolubili fissate nel corpo e a una gerarchia della mascolinità e della femminilità che subordina e marginalizza attributi associati alle donne e alla cura del sé e degli altri (Connell 2005).
Queste norme della rappresentazione sono informate da un fondamento storico, dal momento che i tropi possono essere correlati agli archetipi, ovvero forme dell’immaginario ricorrenti e più ampie, rintracciabili attraverso contesti storici e geografici in una vasta serie di narrazioni, tra cui figurano l’Eroe, il Cattivo e la Principessa. Nel suo studio dei racconti popolari russi, Propp (1968) identifica questi assieme ad altre quattro tipologie di figure come prevalenti nelle storie che analizza. Per chi si interessa del modo in cui vengono raccontate le storie, la presenza di una gamma così limitata di funzioni dei personaggi segnala la potenza di questi archetipi nell’esprimere temi e soggetti comuni.
Significativo per le studiose femministe dei media è come queste tipologie apparentemente universali siano genderizzate. La Principessa, ad esempio, funge da premio che motiva le imprese dell’Eroe, il cui ultimo e definitivo successo è poterla sposare. Dai famosi archetipi di Propp derivano due osservazioni cruciali: 1) il modo in cui narriamo le storie è profondamente condizionato da regole eteronormative e patriarcali in cui gli uomini sono gli attori principali e le donne sono oggetti da conquistare; 2) questi archetipi, nonostante piccole variazioni nel modo in cui vengono proposti, continuano a influenzare profondamente le raffigurazioni di genere nei media ancora oggi.
Un altro termine chiave spesso usato per trattare la rappresentazione nei media è stereotipizzazione. Uno stereotipo, diversamente dai tropi o dagli archetipi, non ha a che vedere con le strutture narrative, ma è un’immagine o un’idea riguardo certi “tipi” di persone che è ampiamente compresa, costruita socialmente ed eccessivamente semplicistica.
Gli stereotipi esistono oltre i media, ma qui circolano in un modo che è semplice da riconoscere e che perpetua ancor di più idee limitate su culture, comunità, gruppi e identità.
Quando uno stereotipo considerato negativo viene ribaltato in positivo diventa un controtipo, che a sua volta potrebbe evolvere nuovamente in uno stereotipo qualora circolasse a sufficienza, come vedremo più avanti nel capitolo parlando della figura del Personaggio Femminile Forte.
Complessivamente, possiamo interpretare questa stereotipizzazione e la generale scarsa presenza delle donne nei media come, nelle parole di Tuchman (1978), “l’annullamento simbolico delle donne”. Associandole prevalentemente ad attività domestiche, alla famiglia o a questioni private, anziché a posizioni di potere e autorità, i media socializzano una visione delle donne come dipendenti, inferiori e subordinate. Questo è ravvisabile nella predominanza, per le donne, di ruoli come la casalinga, la madre o la partner sentimentale, ma è anche osservabile nel modo in cui donne lavoratrici o in posizione di potere sono sistematicamente denigrate o ritenute infelici, non pienamente realizzate o comunque manchevoli perché hanno disdegnato la femminilità tradizionale.
Le norme della rappresentazione, piuttosto che essere comprese come un riflesso – puntuale o falso che sia – della realtà di gruppi o identità, dovrebbero essere intese come indicatori delle ideologie dominanti. Come per tutti i valori egemonici, queste norme non sono immutabili e possono essere tanto contrastate quanto rafforzate nella rappresentazione nei media. Come osserva Hall, la rappresentazione non può essere meramente intesa come espressione di un semplice pregiudizio codificato nei media da chi lo crea, o come un canale di espressione per una “classe dominante” smaccatamente sessista, razzista o in altri modi discriminatoria. Al contrario, per comprendere come la rappresentazione contribuisce alle norme ideologiche, abbiamo bisogno di intraprendere un’analisi più articolata della complessità di queste raffigurazioni nei loro contesti di produzione. A tale scopo, Hall rimarca la distinzione tra razzismo manifesto, in cui a prospettive e argomenti esplicitamente razzisti è data copertura favorevole nei media, e razzismo inferenziale,
quelle rappresentazioni apparentemente naturalizzate di eventi e situazioni legate alla razza, “reali” o “immaginarie” che siano, che hanno premesse e proposizioni razziste inscritte in esse come un insieme di assunti indiscussi. Queste permettono che affermazioni razziste vengano formulate senza che siano resi espliciti i predicati razzisti su cui si fondano (1995, p. 20).
Più che parlare degli stereotipi, in questa sua analisi Hall fa riferimento alla “grammatica della razza”, una prospettiva che possiamo impiegare anche per comprendere come le relazioni diseguali di potere perdurino a causa della circolazione, nei media, di raffigurazioni del genere molto limitate, in forma di archetipi, tropi e stereotipi o altre modalità – potremmo dire una “grammatica del genere”. Hall presenta tre figure razzializzate: la persona resa schiava (esemplificata dall’ingenua devozione di Mami alla famiglia O’Hara in Via col vento), la persona nativa (immagine di una persona primitiva, selvaggia e barbara, che costituisce una potenziale minaccia all’ordine sociale, illustrata dalla tribù Na’vi, simile a un’orda, in Avatar) e la figura del pagliaccio/intrattenitore (carattere poco serio, raffigurato come personaggio più fisico ed emotivo del personaggio bianco, razionale e intelligente, con cui è messa in contrasto). Hall sostiene che queste figure sono costruite per lo sguardo delle persone bianche e, nella loro ambivalenza (essendo associate sia a tratti positivi che negativi), sono usate per riflettere idee razziste della civiltà bianca e occidentale rispetto all’opposta primitività razzializzata. In questo modo contribuiscono all’alterizzazione delle persone razzializzate.
Queste tre figure continuano a circolare nei media, anche nei notiziari sulle proteste indigene e i conflitti in Africa, nelle Americhe e in Asia, e sono altresì visibili nei programmi di intrattenimento, nella rappresentazione dei cattivi, di contesti pericolosi e di ragazze caratterizzate come schiave, sessualmente disponibili ma insidiose. In alcuni testi si tratta di figure chiaramente negative e in altri di figure costruite come fantasie per il pubblico bianco, che rendono possibile l’appropriazione di simboli, pratiche e altri tratti culturali di gruppi oppressi da parte di chi li ha dominati. Johnson (2015) sottolinea l’importanza di esaminare i contesti e le dinamiche di potere quando si discute di questo tipo superficiale di “presa in prestito” – definita appropriazione culturale –, dal momento che si tratta di una pratica che sostiene, invece di sovvertire, gli stereotipi. Ne è un esempio la donna asiatica docile ed “esotica”, personificata dalla popstar americana bianca Katy Perry nella sua performance come geisha agli American Music Awards del 2013. Johnson osserva che mentre Perry potrebbe spogliarsi del suo costume e godersi i profitti della sua performance,
le donne asiatiche […] devono fare i conti con le norme sociali razziste e sessiste che Perry ha aiutato a perpetuare, che è quello che succede quando l’unica immagine mainstream della tua sessualità è uno stereotipo negativo rafforzato costantemente dall’appropriazione culturale (2015, n.p.).
Questa pratica insomma perpetua stereotipi razzializzati – inclusi quelli del magical negro, del teppista, dell’atleta, del ricco arabo malvagio, del terrorista, dell’asiatico bizzarro e dello scagnozzo – e per colpa dello squilibrio implicito nelle relazioni di potere di oggi e del passato non può essere visto come uno scambio paritario o un prestito inoffensivo. Assieme all’associazione delle persone non bianche con il crimine, sia nei ruoli di colpevoli sia come detective della polizia (Noriega 1999), tutte queste rappresentazioni normate rivelano la centralità del personaggio bianco maschile come figura eminentemente positiva nei media, e mostrano come il consumo dei prodotti mediali dal punto di vista dello sguardo bianco è un assunto dato per scontato.
Se prendiamo in considerazione gli aspetti intersezionali dei ruoli genderizzati e razzializzati così limitati, ci accorgiamo che le posizioni accessibili alle donne razzializzate sono molto ristrette. In una serie di testi che spaziano dai video musicali ai film di James Bond, le stesse sono presentate come badanti in famiglie bianche, regine dei sussidi, confidenti che ascoltano i problemi dei protagonisti bianchi e oggetti sessuali da usare e abbandonare – indistintamente da bianchi e neri. Come sottolinea Smith-Shomade (2002), questi ruoli dipingono regolarmente la donna nera come priva di soggettività e agentività, e Boom (2015) sostiene che questi ritratti limitanti sono indicativi della misogynoir predominante nei media.
Boom approfondisce quattro tropi dominanti, tra cui quello della “Sassy Black Woman”, che definisce l’ironia come unico tratto di personalità possibile per le donne – uno stereotipo che, afferma Boom, “ci disumanizza presentando ci come sagome di cartone senza profondità di sentimenti o emozioni” (2015, n.p.). C’è poi la “Hypersexual Jezebel”, che veicola l’idea di una costante diponibilità sessuale della donna nera, eredità della pratica diffusa dello stupro durante la schiavitù, e la “Angry Black Woman”, che si concentra sulla rabbia ingiustificata o sproporzionata e l’aggressività come tratti caratteriali più che come reazione comprensibile alle circostanze dettate dalla disuguaglianza istituzionale.
L’ultimo tropo, quello della “Strong Black Woman”, è incentrato ancora una volta su un singolo aspetto della personalità, e per quanto possa sembrare positivo, oscura anch’esso l’ampio spettro di emozioni che le donne nere provano e le motivazioni di quella che potrebbe essere una strategia di sopravvivenza in un mondo dominato dalla supremazia bianca.
Come dimostrano molti di questi concetti, i media tendono a proporre ritratti genderizzati più implicitamente sessisti rispetto a rappresentazioni esplicitamente denigratorie o discriminatorie. Tuttavia, questa subordinazione sottesa è diffusa e si può considerare insidiosa nel suo essere data per scontata come qualcosa di naturale e legato al senso comune, testimoniando quanto normalizzata sia la banalizzazione, la sessualizzazione e la denigrazione – a qualsiasi titolo – delle esperienze delle donne.
Pubblicato il: 04.07.2023
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita