La nonviolenza come principio morale e politico – Leonardo Lovati

La nonviolenza è un’apertura a molte possibilità, un modo per affermare la propria volontà senza imporla a nessuno, una ricerca della verità. Ed è anche una scelta comunicativa, di linguaggio

di: Leonardo Lovati

Ultima. Resistenza nonviolenta o estinzione esprime una visione situata di alcuni movimenti che si battono contro l’emergenza climatica. Leonardo Lovati, autore del testo, edito da AgenziaX, è attivista per il clima e ha scritto questo libro per infondere coraggio e determinazione in quanti hanno a cuore il destino del mondo, per divulgare le idee e le tattiche di mobilitazione in un pianeta sulla via dell’estinzione, ma anche per far capire a disfattisti, giornalisti e politici che è giunta l’ora di mobilitarsi per trasformare un mondo tossico in un mondo ecologico, dove ognuno abbia cura dell’altro e del mondo in cui vive e da cui è vissuto. Il brano che riportiamo si concentra sui fondamenti etici e morali delle pratiche di resistenza civile e nonviolenta. Ringraziamo l’editore per la possibilità concessa.

 

 

La maggior parte delle volte in cui si parla di nonviolenza si pensa subito a una pratica frutto di un principio morale, un volontario abbandono di tutti quegli atteggiamenti che possono danneggiare l’altro, sia fisicamente sia psicologicamente. Allo stesso tempo però è un complesso mosaico di pratiche sostitutive a quelle fondanti della nostra società, definite dai teorici della nonviolenza come intrinsecamente violente perché basate sul dominio e lo sfruttamento.

Come principio morale la nonviolenza è come un’apertura a molte possibilità, una manifestazione per affermare la propria identità o la propria volontà senza imporla a nessuno, una ricerca della verità, un sentirsi in contatto con un senso sociale più ampio, in connessione con Dio o la natura e coerenti con i propri desideri e valori. È anche una scelta comunicativa, propriamente di linguaggio, che prevede la sintonia tra gli interlocutori, ovvero la possibilità di sentirsi ugualmente valorizzati, nell’identità, nelle emozioni e nei bisogni.

La scelta da parte di una massa di utilizzare la nonviolenza per un fine politico di ribellione o rivolta si chiama resistenza civile mentre le sue declinazioni particolari sono la disobbedienza civile e l’azione diretta nonviolenta. È stato Gandhi a coniare il termine resistenza civile dopo il 1915, quando tornò in India dopo aver vinto la sua prima campagna contro il Black Act imposto dagli inglesi in Sud Africa (una serie di leggi di apartheid nei confronti degli indiani). Il termine “resistenza passiva” è stato abbandonato ormai quasi universalmente perché non coglieva l’aspetto attivo della pratica nonviolenta. La distinzione invece tra disobbedienza civile e azione diretta nonviolenta è più recente e serve in realtà a distinguere la pratica di disobbedienza civile in senso specifico dal resto delle pratiche all’interno di una campagna di lotte.

Il termine disobbedienza civile è stato coniato la prima volta da Henry David Thoreau (1817-1862), maestro del “rinascimento americano”, intellettuale che si rifiuta per circa vent’anni di pagare una tassa per finanziare la guerra in Messico e la schiavitù delle persone nere. Il testo Disobbedienza civile scritto nel 1848 poco dopo la sua breve reclusione a Concord, è incredibilmente denso ma è sufficiente soffermarci su alcuni punti. Per Thoreau è la morale individuale che deve prevalere su un sistema di leggi che non la rispettano: la legge spesso non ha a cuore la persona, la sua dignità, piuttosto è interessata solo al suo corpo, che viene recluso, studiato e utilizzato. In uno stato in cui le leggi sono ingiuste, giustizia e legge si separano.

Di fronte a uno stato che gestisce i corpi in maniera puramente economica, con lo scopo di farli lavorare e pagare, Thoreau rivendica la capacità di ognuno di noi di pensare e agire coerentemente, al di fuori da ogni dogmatismo, sia religioso sia legislativo.

Non è auspicabile che l’uomo coltivi il rispetto della legge nella stessa misura di quello per ciò che è giusto. Il solo obbligo che ho il diritto di arrogarmi è quello di fare sempre e comunque ciò che ritengo giusto. […] La legge non ha mai reso gli uomini più giusti, neppure di poco; anzi, a causa del rispetto della legge, persino le persone oneste sono quotidianamente trasformate in agenti dell’ingiustizia.

 

Perciò Thoreau chiama a una rivolta nonviolenta verso lo stato per dare più spazio all’autonomia, alla dignità delle persone, più spazio all’educazione e alla costruzione personale del sé e delle proprie comunità, al rapporto con la natura che ci sta attorno (tema che emergerà però nel suo Walden ovvero la Vita nei boschi, precursore di un pensiero ecologico). Famosissima la frase con cui si apre il libro sulla disobbedienza civile:

Di tutto cuore faccio mia l’affermazione: “Il migliore dei governi è quello che governa meno”, e vorrei vederla messa in pratica nel modo più rapido e sistematico. Se attuata, essa conduce a quest’altra affermazione, di cui sono altrettanto convinto: “Il migliore dei governi è quello che non governa affatto”, e quando gli uomini saranno pronti, sarà questo il tipo di governo che avranno.

 

Questa affermazione non va chiaramente intesa nel senso anarco-capitalista, dove lo stato deve smettere di esistere così da lasciare spazio alle multinazionali di poter fare quello che più desiderano con il corpo delle persone, sia perché rispecchierebbe lo stesso (se non peggiore) grado di dominio sia perché di fatto le grandi compagnie non puntano ad altro che a sostituirsi allo stato mantenendo però il potere. Erano altri tempi e il potere delle grandi imprese non era così forte (a parte poche eccezioni come la Compagnia delle Indie Orientali, dismessa proprio dalla monarchia inglese perché tentò di sostituirlo). Thoreau però si volle distanziare anche da altre frange politiche, come scrive:

Tuttavia, per parlare in termini pratici e da cittadino, non chiedo, a differenza di quelli che si definiscono anarchici, che si abolisca immediatamente il governo, ma chiedo immediatamente un governo migliore. Che ogni uomo renda noto quale tipo di governo farebbe nascere in lui il rispetto: sarà il primo passo per riuscire ad averlo.
Il secondo punto che emerge nel testo è che lo stato funziona solamente grazie alla collaborazione e all’obbedienza dei suoi cittadini. Se le persone si organizzassero per vivere diversamente da come le istituzioni impongono, sia quelle culturali sia quelle repressive, lo stato non avrebbe forza a sufficiente per contenere quella che di fatto è una rivolta pacifica.

 

Forse troppo speranzoso negli esiti, visti anche i risvolti di alcune rivolte nonviolente, Thoreau ha però aperto a una serie di esperimenti di disobbedienza civile che spesso hanno funzionato, ma soprattutto è riuscito a capire cosa sia l’autonomia e la capacità di lottare per ciò che è giusto come esseri umani.

Non è stato certo il primo a notare che il rifiuto verso un ordine avesse dentro di sé una forza incredibile di rivalsa. Già Étienne de La Boétie nel suo Discorso sulla servitù volontaria (redatto probabilmente nel 1549, il testo originale non è mai stato trovato) notava come i nostri capi fossero uomini mitizzati ed elevati a esseri intoccabili, ma allo stesso tempo molto fragili.

Chi vi domina in tal misura ha soltanto due occhi, ha soltanto due mani, ha soltanto un corpo, e non ha nulla in più dell’ultimo uomo del grande infinito numero delle vostre città, tranne il privilegio che gli concedete per distruggervi. Dove mai prenderebbe i tanti occhi con cui vi spia, se non foste voi a fornirglieli? Come disporrebbe mai di tante mani per colpirvi, se non le prendesse da voi? E i piedi con cui calpesta le vostre città, dove mai li troverebbe, se non fossero vostri? Come farebbe ad avere potere su di voi, se non gli provenisse da voi stessi? Come oserebbe mai attaccarvi, se non d’intesa con voi? Cosa potrebbe mai farvi, se voi non foste ricattatori del bandito che vi deruba, complici dell’assassino che vi uccide e traditori di voi stessi? Seminate i vostri campi, perché lui ve li devasti; arredate e addobbate le vostre case, perché ve le saccheggi; crescete le vostre figlie, perché lui abbia di che soddisfare la sua lussuria; crescete i vostri figli, perché nel migliore dei casi, li mandi alle sue guerre, li conduca al macello, ne faccia i ministri delle sue bramosie e gli esecutori delle sue vendette; vi schiantate di fatica, perché lui possa godersi le sue delizie e sguazzare in piaceri sudici e volgari; vi stremate, perché diventi più forte e sicuro nel tenervi corta la briglia; e di tante indegnità, che neppure le bestie riuscirebbero a immaginare o sopportare, o voi potreste liberarvi se provaste non a liberarvene, ma soltanto a volerlo fare. Decidetevi a non servire più, ed eccovi liberi. Non voglio che lo abbattiate o lo facciate a pezzi: soltanto, non sostenetelo più, e allora, come un grande colosso cui sia stata tolta la base, lo vedrete precipitare sotto il suo peso e andare in frantumi.

 

Il tema della disobbedienza a un’autorità temporale in nome di una legge più alta (divina, umana, morale) è però tanto antico quanto le prime civiltà. La tragedia Antigone scritta da Sofocle e presentata nelle Grandi Dionisie del 442 a.C. rappresentava la storia della disobbedienza della figlia di Edipo, Antigone, alla legge del nuovo re di Tebe, Creonte, considerata lontana dalla legge degli dèi; ma anche l’atto socratico di prendersi in carico la punizione emessa dal tribunale ateniese per testimoniare la giustizia del suo atto, bevendo la cicuta. Questa tragedia ci narra le possibili forme di rivendicazione di una giustizia conforme alla propria ragione.

Ci sono delle caratteristiche della nonviolenza che vorrei approfondire, partendo proprio dalla figura di Antigone. Antigone si costituisce a re Creonte dopo aver disobbedito al suo ordine di non seppellire il fratello Polinice e denuncia con il suo gesto l’arbitrarietà e l’interesse politico di Creonte che vuole mantenere il potere. Antigone non solo pone la domanda cara a ogni teorico del senso morale, “quale legge seguire?” ma incarna tutte le caratteristiche della nonviolenza, dell’amore, della ricerca della verità, di apertura al confronto fino al conflitto.
Nel momento in cui Antigone parla con la sorella Ismene si capisce come il suo gesto possa portare alla luce una giustizia in linea con la propria ragione:

Ismene: Ma se le cose stanno così, mia infelice sorella, che cosa posso io fare o non fare?
Antigone: Puoi dividere con me il peso dell’azione…
Ismene: Quale azione? A che pensi?
Antigone: …e aiutarmi a sollevare il corpo…
Ismene: Vuoi seppellirlo? Anche se è proibito? […]
Antigone: Lui non può separarmi dalle cose che amo. […]
Ismene: Almeno non parlare con nessuno, nascondi il tuo piano. Sarò muta anch’io.
Antigone: Gridalo invece a piena voce, vallo a proclamare davanti a tutti; ti odierò molto di più, se taci.

 

Nella tragedia di Antigone sembrano già ritrovarsi tutti i concetti morali esposti in precedenza: la nonviolenza come capacità di affermare ciò che si ama, dandogli dignità, come azione di denuncia contro una legge violenta, come affermazione della giustizia morale e di coerenza ma anche come desiderio di avere voce su una questione personale.

È l’amore però, come descritto nella tragedia, a essere il verbo che muove dalla razionalità alla follia il figlio di Creonte, Emone, ma anche quello che muove il gesto di Antigone. Se prendiamo la definizione di Socrate di amore, cioè di quella divinità nata dalla ricchezza e dalla povertà, sempre alla ricerca di qualcosa che la soddisfi, ma, più universalmente come l’essenza stessa della ricerca, allora ecco l’unione di principio morale e azione. Queste non possono essere percepite come separate: l’innamorato è colui che, attraverso un atto coraggioso, fa del suo principio una domanda, un atto. In termini più concreti, pensiamo alla nostra azione nonviolenta come un atto di ricerca: non sappiamo se funzionerà ma, nel momento di incontro con l’altro soggetto, gli permettiamo attraverso la nostra passività attiva di essere se stesso, di esprimersi nel mondo in cui si trova in quel momento. L’innamorato chiede all’oggetto del desiderio di riempirsi, affermarsi, di presentarsi per come è, cercando di porre un freno al giudizio, dando quindi lo spazio al soggetto di essere tale, un soggetto.