di: Cornelius Castoriadis
È impossibile comprendere cosa sia stata e cosa sia la storia umana, al di fuori della categoria dell’immaginario. Nessun’altra categoria permette di riflettere su queste domande: che cosa pone la finalità senza la quale la funzionalità delle istituzioni e dei processi sociali resterebbe indeterminata? Che cos’è che, nell’infinità delle strutture simboliche possibili, specifica un sistema simbolico, stabilisce le relazioni canoniche prevalenti, orienta in una delle innumerevoli direzioni possibili tutte le metafore e le metonimie astrattamente concepibili? Non possiamo comprendere una società al di fuori di un fattore unificante che fornisca un contenuto dotato di significato e lo intrecci con le strutture simboliche.
Questo fattore non è il semplice “reale”, ogni società ha costituito il proprio reale (non ci preoccuperemo di specificare che questa costituzione non è mai totalmente arbitraria). Non è neanche il “razionale”, e basta un controllo anche molto sommario della storia per dimostrarlo, e, se fosse così, la storia non sarebbe stata veramente tale, ma sarebbe un accesso istantaneo a un ordine razionale o, al massimo, una pura evoluzione nella razionalità. Ma se la storia contiene incontestabilmente l’evoluzione nella razionalità – e torneremo su questo punto – non può essere ridotta a quest’ultima. Nella storia compare, fin dalle origini, un senso che non è un senso del reale (riferito al percepito), e che non è neanche razionale o positivamente ir-razionale, che non è né vero, né falso, e che, tuttavia, è dell’ordine della significazione, essendo la creazione immaginaria propria della storia, ciò all’interno del quale, e grazie al quale, la storia si costituisce innanzitutto.
Non dobbiamo quindi “spiegare” come e perché l’immaginario, le significazioni sociali immaginarie e le istituzioni che le incarnano si autonomizzino. Come potrebbero non autonomizzarsi dato che sono ciò che da sempre era là “all’inizio”, ciò che in qualche modo sta sempre là “all’inizio”?
A dire il vero la stessa espressione “autonomizzarsi” è chiaramente inadeguata in questo caso; non abbiamo a che fare con un elemento che, dapprima subordinato, “si distacca” e diventa autonomo in un secondo tempo (reale o logico), ma con l’elemento che costituisce la storia in quanto tale. Se c’è qualcosa che pone dei problemi sarebbe piuttosto l’emergenza del razionale nella storia, e soprattutto la sua “separazione”, la sua costituzione in momento relativamente autonomo.
Se fosse così, sorgerebbe un problema immenso già sul piano della distinzione dei concetti. Come si possono distinguere le significazioni immaginarie dalle significazioni razionali nella storia?
Abbiamo definito già, precedentemente, il simbolico razionale come ciò che rappresenta il reale, oppure che è indispensabile per pensarlo o per agirlo. Ma lo rappresenta per chi? Pensarlo come? Agirlo in quale contesto? Di quale reale si tratta? Qual è la definizione del reale implicata qui? Non è forse chiaro che corriamo il rischio d’introdurre in maniera surrettizia una razionalità (la nostra) per farle avere il ruolo de la razionalità?
Quando, nel considerare una cultura di altri tempi o di altri luoghi, noi qualifichiamo come immaginario un certo elemento della sua visione del mondo, o questa stessa visione, qual è il punto di riferimento? Quando ci troviamo, non di fronte a una “trasformazione” della terra in divinità, ma davanti a un’identità originaria della Terra-Dea madre per una cultura data, identità inestricabilmente intrecciata per tale cultura, con il suo modo generale di vedere, pensare, agire e vivere il mondo, non è forse impossibile qualificare questa identità nient’altro che come immaginario? Se il simbolico-razionale è ciò che rappresenta il reale, o è indispensabile per pensarlo e per agirlo, non è forse evidente che questo ruolo è anche ricoperto, in tutte le società, da alcune significazioni immaginarie?
Il “reale” non comprende forse, e per ogni società in maniera inseparabile, questa componente immaginaria, se ci riferiamo a ciò che riguarda sia la natura, sia soprattutto il mondo umano? Il “reale” della natura non può essere colto al di fuori di un quadro categoriale di principi organizzativi del dato sensibile, che non sono mai – neanche nella nostra società – semplicemente equivalenti, senza eccesso o difetto, al quadro delle categorie fatto dai logici (e del resto continuamente rimaneggiato). Quanto al “reale” del mondo umano, non è categorizzato solo come oggetto possibile di conoscenza, ma lo è in modo immanente, nel suo essere in sé e per sé, dalla strutturazione sociale e dall’immaginario che questa significa; relazioni fra individui e gruppi, comportamenti, motivazioni, non sono solo incomprensibili per noi, sono impossibili in sé al di fuori di questo immaginario. Un “primitivo” che vorrebbe agire ignorando le distinzioni di clan, un indù del passato che decidesse di trascurare l’esistenza delle caste, sarebbero molto probabilmente pazzi, o lo diventerebbero rapidamente.
Parlando d’immaginario, dunque, bisogna guardarsi dal fare scivolare all’interno della società presa in esame l’attribuzione di una capacità razionale assoluta che, presente fin dall’inizio, sarebbe respinta o ricoperta dall’immaginario. Quando un individuo, cresciuto nella nostra cultura, scontrandosi con una realtà strutturata in modo preciso, immerso in un controllo sociale perpetuo, “decide” o “sceglie” di vedere in ogni persona che incontra un potenziale aggressore, e sviluppa un delirio di persecuzione, possiamo qualificare la sua percezione degli altri come immaginaria, non solo in modo “oggettivo” o sociale – in base ai punti di riferimento stabiliti –, ma in modo soggettivo, nel senso che lui “avrebbe potuto” forgiarsi una visione corretta del mondo; la forte prevalenza della funzione immaginaria nel suo sviluppo richiede una spiegazione a parte, dato che altri sviluppi sarebbero stati possibili e sono stati realizzati dalla gran parte degli uomini.
In qualche modo imputiamo ai nostri pazzi la loro follia, non solo nel senso che è la loro, ma anche nel senso che essi avrebbero potuto non produrla. Ma chi può affermare che i Greci sapevano benissimo, o che avrebbero potuto sapere, che gli dei non esistono e che il loro universo mitico è una “deviazione” in relazione a una visione sobria del mondo, deviazione che richiede di essere spiegata come tale? Questa visione sobria, o pretesa tale, in poche parole è la nostra.
Le presenti osservazioni non sono ispirate da un atteggiamento agnostico o relativista. Sappiamo che gli dei non esistono, che gli uomini non possono “essere” dei corvi e non possiamo dimenticarlo volutamente quando esaminiamo una società di altri tempi o di altri luoghi. Tuttavia incontriamo qui, a un livello più profondo e difficile, lo stesso paradosso, la stessa antinomia dell’applicazione retroattiva delle categorie, della “proiezione all’indietro” del nostro modo di cogliere il mondo, che abbiamo rilevato prima a proposito del marxismo; antinomia che, lo abbiamo già detto, è costitutiva della conoscenza storica.
Avevamo allora constatato che non è possibile, per la stragrande maggioranza delle società pre-capitaliste, mantenere lo schema marxista di una “determinazione” economica della vita sociale e delle sue diverse sfere, ad esempio del potere, perché questo schema presuppone un’autonomizzazione di tali sfere che esiste pienamente solo nella società capitalista; in un caso così vicino a noi nello spazio e nel tempo, come quello della società feudale, per esempio (e anche di tutte le società burocratiche attuali dei paesi dell’est), le relazioni di potere e le relazioni economiche sono strutturate in modo tale che l’idea di “determinazione” reciproca è priva di senso.
Più profondamente, il tentativo di distinguere nettamente, al fine di articolarne il rapporto, il funzionale, l’immaginario, il simbolico e il razionale, in società diverse da quelle occidentali degli ultimi due secoli (ma anche da alcuni momenti della storia della greca e romana), si scontra con l’impossibilità di dare a questa distinzione un contenuto rigoroso, che sia davvero significativo per le società considerate, cioè che abbia realmente presa su queste.
Se le potenze divine o le classificazioni “totemiche” sono, per una società antica o arcaica, dei principi categoriali organizzativi del mondo naturale e sociale, come effettivamente lo sono, che cosa significa l’idea, dal punto di vista operativo (per la comprensione e la “spiegazione” di queste società), che tali principi rientrino nell’immaginario nella misura in cui si oppone al razionale? È questo immaginario che fa sì che il mondo dei Greci o degli Aranda non sia un caos, ma una pluralità ordinata, che fa sì che vi si possa predisporre il diverso senza schiacciarlo, che fa emergere il valore e il non-valore, che traccia per queste società la demarcazione fra il “vero” e il “falso”, ciò che è permesso e ciò che è vietato – senza di cui esse non potrebbero esistere neanche per un secondo.
Questo immaginario non ricopre solo la funzione del razionale, ne è già una forma, lo contiene in una non distinzione prima e infinitamente feconda, e vi si possono discernere gli elementi che la nostra razionalità presuppone.
Pubblicato il: 14.12.2022
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita