di: Paolo Naldini
Discutere il significato del termine sviluppo vuol dire mettere in questione che il nostro agire abbia primariamente un fondamento utilitaristico di natura puramente economica; perché si crea o si comprano quote sociali o debito di un’impresa? Perché si produce un artefatto o un servizio e lo si offre al prossimo, mediante il mercato? Perché si innova? Perché si acquistano beni e servizi?
Per rispondere a queste domande senza rimanere all’interno del mito dell’homo oeconomicus bisogna considerare che le persone nutrono bisogni sociali che non possono essere esauditi interamente e sempre da beni materiali, come la partecipazione alla vita sociale, gli affetti, le gratificazioni derivanti dalle relazioni interpersonali e con la natura, l’esercizio delle facoltà del creare, la condivisione, l’apprendimento. Qualcuno (ad esempio il Rocky Mountain Institute) si spinge fino a ipotizzare che vi sia una correlazione negativa tra l’idea di prosperità fondata sull’economia e quella basata sulla salute o la felicità, basti pensare al rapporto tra orario di lavoro e tempo dedicato alla qualità dei rapporti famigliari o alla salute personale.
L’attuale crisi ha contribuito a dare un forte scossone a decenni di dibattiti dimostrando la tossicità del modello economico sociale associato al credo economicistico.
Sono ormai argomento corrente nelle conversazioni comuni le proposte di revisioni dei modelli di contabilità nazionale, il PIL, che implicano indici e misuratori di benessere e qualità della vita, democrazia e libertà civili; in questo senso seminale è il lavoro di Amartya Sen tra gli altri.
Psicologi, neuroscienziati, sociologhi ed economisti si occupano sempre più di felicità e sempre meno di crescita economica tout court; la ricerca di M. Nussbaum è illuminante in questo senso.
La stessa nozione di povertà va riconsiderata in relazione ad esempio agli effetti del fenomeno per cui essa viene sostituita dalla miseria, fenomeno che si dà persino in presenza di effettivi aumenti di beni di consumo, come ben raccontato da Rajid Rahnema, ad esempio.
È dunque ormai difficilmente difendibile l’idea che prosperare significhi soltanto incrementare i consumi, agiti o potenziali.
Per passare dallo sviluppo insostenibile alla prosperità sostenibile (come ampiamente descritta da Tim Jackson) occorre prima di tutto un esercizio di disautomatizzazione (B. Stiegler) e decolonizzazione dell’immaginario (S. Latouche). È un meccanismo culturale infatti quello che va attuato per conseguire questo slittamento dell’immaginario poiché secoli di effettivo progresso e di propaganda positiva hanno generato automatismi per cui tendiamo ad associare indissolubilmente i beni materiali alla felicità e alla stessa realizzazione della nostra umana natura.
La disautomatizzazione può accompagnare o innescare la transizione dalla condizione di automi a quella di autori. L’autore, a differenza dell’automa, coltiva la consapevolezza e pratica la creazione, ciò che è farmaco, o pharmakon. Consapevolezza e creazione ci offrono infatti la possibilità di disautomatizzare la nostra mente (anche passando attraverso il corpo, come sostenuto da Gurdjieff) e accrescere le possibilità di raggiungere una più piena realizzazione di sé, e dunque una prosperità libera da tossici pregiudizi.
Il passaggio da automa ad autore si realizza pienamente quando si comprende che la libertà del creare corrisponde alla responsabilità del creato. Il percorso dunque porta l’automa ad assumere la condizione di autore e contemporaneamente quella di soggetto responsabile.
La prosperità così è intrinsecamente connessa all’acquisizione di autonomia e di libertà dai condizionamenti e dagli automatismi culturali dominanti. E questo porta da una parte a estendere la nozione di prosperità oltre i confini economicistici; dall’altra, ad assumere piena responsabilità del proprio pensare ed agire. Dunque, qui si verifica l’incontro con la sostenibilità.
Adottando la definizione di prosperità sostenibile si opera uno spostamento dall’idea di sviluppo a quella di creazione non solo intesa come pura generazione, ma anche e soprattutto come rigenerazione, concetto capace di fondere il mistero della generazione di ciò che prima non esisteva, con la cura di ciò che già c’era.
Pubblicato il: 21.09.2020
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita