Antropocene ed esposizione – Stacy Alaimo

Praticare l’esposizione, il mettersi allo scoperto, come atto etico e politico, significa fare i conti con l'antropocene e confrontarsi con i particolari intrecci di vulnerabilità e complicità che implica

di: Stacy Alaimo

Pubblichiamo un estratto del libro di Stacy Alaimo Allo scoperto. Politiche e piaceri ambientali in tempi postumani, c cura di Angela Balzano, traduzione di Laura Fontanella, collana POSTUMAN3 di Mimesis Edizioni che qui ringraziamo. Le sue ricerche sono inscritte nell’ambito nel nuovo materialismo femminista. Il suo lavoro esplora le intersezioni tra approcci letterari e artistici, l’ecologia politica e le pratiche della vita quotidiana. Stacy Alaimo svolge attività di docenza e ricerca su teoria critica, scienze umane ambientali, animali e, più di recente, sulle discipline umanistiche oceaniche. È Direttrice degli Studi Universitari per l’Inglese all’Università dell’Oregon.
Con Allo scoperto, Alaimo ci invita a immaginare e praticare insieme forme di protesta che siano al contempo forme di cura e di piacere tra tutte le specie viventi che ci aiutino a vivere meglio qui e ora. Ridere, godere, protestare: fare tutto ciò insieme e farlo allo scoperto. Al cospetto di riscaldamento globale e antropocene l’obiettivo del libro è quello di far proliferare alleanze politiche in cui la vulnerabilità funzioni come catalizzatore di resistenze. Il testo è un antidoto contro l’eco-ansia. La vulnerabilità, intesa come la capacità di “sentirsi esposti”, è uno strumento etico e politico per affrontare i disastri insostenibili, dolorosi e inaccettabili dei tempi postumani.

 

 

L’Antropocene non è il momento in cui si possono sistemare le cose. Rendersi conto che l’attività umana ha alterato il pianeta in una scala equivalente a un’epoca geologica, ci costringe a sfumare i confini di quell’assunto comune secondo cui il mondo esisterebbe come mero sfondo su cui far risaltare il soggetto umano. I nuovi materialismi, insistendo sull’agentività e sul significato della materia, sostengono che anche o soprattutto nell’Antropocene la sostanza di quel che un tempo veniva chiamata “natura” stia agendo, interagendo e persino intra-agendo attraverso, intorno e dentro ai corpi e alle pratiche umane.

Cosa può significare essere umani in quest’epoca in cui all’umano corrisponde un qualcosa che si è sedimentato nella geologia del pianeta? Quali forme etiche e politiche possono nascere dalla sensazione d’essere creature incarnate, esposte, allo scoperto e persino composte dalla stessa materia che costituisce un mondo materiale in rapida trasformazione? Esporre la carne umana, il loro corpo nudo, facendo spazio alla vivacità di altre specie, può disperdere e destituire l’eccezionalismo umano? Le soggettività queer, femministe e ambientaliste, quali modalità di protesta e quali piaceri organizzano, improvvisano, e mettono in campo? […]

L’Antropocene non è il momento in cui tracciare mappature trascendenti e definitive, non è il momento in cui delineare saperi trasparenti o solide epistemologie. Senz’ombra di dubbio, tutto questo ci ha condotto a questa situazione, in cui il presunto controllo, esercitato sulla “natura” esterna, ha preso una deriva anche fin troppo arrogante, dando luogo a conseguenze tanto inaspettate quanto indesiderate.

Questo non significa che io sostenga gli incontri fenomenologici o le epistemologie interamente locali, radicate in un dato luogo. L’immediatezza della fenomenologia, ad esempio, non consente di effettuare una mappatura delle reti di rischio, di danno, della consapevolezza e della responsabilità che coinvolgono le persone, cittadine e consumatrici, secondo un’ottica trans-corporea.

Mentre alcune forme dell’attivismo e delle performance artistiche che verranno discusse in questo libro intendono sottolineare l’immediatezza che scaturisce dal contatto diretto, nudo, tra corpo e luogo, queste drammatizzazioni vengono messe in scena all’interno di un contesto più ampio di mediazione e all’interno della cornice delle conoscenze scientifiche.

Ursula K. Heise in Sense of Place and Sense of Planet: The Environmental Imagination of the Global scrive: “Oltre alla valorizzazione dell’esperienza fisica e della percezione sensoriale, quindi, un approccio eco-cosmopolita dovrebbe valorizzare anche quei tipi di sapere e di esperienza astratti e altamente mediati che danno un supporto uguale, se non maggiore, alla comprensione della connessione biosferica”1. Heise articola in modo estremamente lucido questo doppio confronto tra il locale e il globale, tra l’immediato e ciò che è altamente mediato, cruciale per l’ambientalismo. Heise conclude aggiungendo che “i modelli di connettività globale, compresi quelli creati dall’ampliamento degli scenari di rischio, sono in costante aumento”2. Come darle torto.

Le crisi ambientali esigono indagini scientifiche; tuttavia, il tipo di scienza che viene continuamente proposta, così come il modo in cui quest’ultima viene costantemente applicata, è a sua volta profondamente influenzata sia dalle forze sociali che da quelle economiche e politiche, questione su cui gli studi sulle scienze e sulle tecnologie hanno a lungo insistito.

Questo progetto, dunque, non è uno studio sulla scienza in sé, ma intende analizzare molte opere di scrittura scientifica indagando le modalità con cui le persone comuni e coinvolte nell’ambito dell’attivismo e dell’arte si interfacciano con i dati e le prospettive scientifiche. Sebbene la scrittura scientifica divulgativa, ossia quella che riscontriamo in libri, riviste, siti web o sui social media, sia cruciale per l’ambientalismo, viene, piuttosto trascurata dalle scienze umane ambientali, dagli studi eco-culturali e dagli studi scientifici.

[…] Come sostiene Ulrich Beck, vivere nella “società del rischio” significa fare quotidianamente i conti con il sapere scientifico. Eppure, l’abitante della società del rischio, spiega Beck, subisce il cosiddetto “doppio shock”: lo subisce non solo nel momento in cui apprende certe notizie, come quelle riguardanti le tossine presenti negli alimenti, ma anche nel momento in cui sperimenta la “perdita di sovranità sulla valutazione dei pericoli a cui si è sottoposti”3. Sebbene Beck non l’abbia mai sostenuto, io vorrei riformulare questa perdita di sovranità, che erode il soggetto individuale e sovrano, trasformandola in un invito all’intersoggettività o alla trans-soggettività; il mio invito è quello di abbracciare una concezione postumanista o contro-umanista del sé capace di dischiudersi dinanzi a un mondo materiale più ampio, un sé penetrato da ogni genere di sostanza e agentività materiale, siano queste registrabili o meno.

L’eccezionale lavoro di Adriana Petryna, intitolato Life Exposed: Biological Citizens after Chernobyl, definisce il soggetto biopolitico in termini di esposizione assoluta: “La profonda intrusione della malattia nelle vite personali ha favorito un tipo di violenza che andava oltre il limite di ciò che poteva essere controllato. Non esisteva alcun luogo che garantisse una naturale immunità da queste forze tecniche e innaturali. Al contrario, proprio l’immunità era completamente assente. Questa totale mancanza di protezione costituiva una linea a partire dalla quale le persone cercavano di rimodellare sé stesse (così come i loro corpi) rendendosi quei soggetti da proteggere dal regime biopolitico in cui ora vivevano”4.

Sebbene sia sbagliato adottare la percezione di questa esposizione come se si trattasse di uno “stato di totale mancanza di protezione” – considerato che per gli scenari, l’attivismo e le posizioni che verranno analizzate nei capitoli successivi, poiché non sono emersi in seguito a catastrofi come quella di Chernobyl – un’etica e una politica dell’esposizione possono essere intraprese, da qualsiasi persona informata ed empatica, proprio nei confronti di questo genere di catastrofi che punteggiano il nostro orizzonte.

Le esposizioni possono essere disomogenee, impari, incommensurate; tuttavia, praticare l’esposizione, implica un’intuizione o la convinzione filosofica che l’impermeabilità del soggetto umano occidentale non sia più sostenibile.

Praticare l’esposizione, il mettersi allo scoperto, come atto etico e politico, non significa sconfessare ma fare i conti con questi eventi orribili e confrontarsi con i particolari intrecci di vulnerabilità e complicità che si irradiano dai disastri ambientali e dalla loro connessione disgiuntiva con la vita quotidiana del mondo industrializzato.

Occupare l’esposizione, come atto di vulnerabilità dal carattere insurrezionalista, significa generare alleanze materiali, e non astratte, e significa abitare una agentività politica che emerge da quella perdita, fortemente percepita, dei confini e della sovranità.

La perdita di sovranità di cui parla Beck diventa non solo epistemologica ma anche onto-epistemologica quando procede a partire da una visione materiale e femminista dell’umano come innegabilmente corporeo. È questo il soggetto trans-corporeo di cui parlo. Molti dei saggi che vengono citati tra le pagine di Allo scoperto delle occupazioni femministe di una soggettività trans-corporea, in cui i corpi sconfinando nei luoghi e in cui i luoghi influenzano profondamente i corpi.

Mediante la drammatizzazione del sé in un luogo si arriva a criticare, quindi, la presunzione del soggetto occidentale razionale, disincarnato e soprattutto padrone, o almeno la sua presunta oggettività, che si crede sia dovuta al soggetto a partire dal suo completo distacco dal mondo. Il soggetto esposto, allo scoperto, è sempre già penetrato da sostanze e da forze di cui non può rendersi adeguatamente conto: l’etica e la politica devono procedere proprio a partire da questo punto. E se il termine “penetrazione” suggerisce una pratica sessuale, in questo caso, tanto meglio, poiché molti dei saggi che verranno citati descriveranno forme di protesta e di performance che coinvolgono proprio l’esposizione e altri piaceri, occupando la scena politica in modi che sconfinano nella sfera sessuale e nel queer.

Queste performance incarnano quella crisi della razionalità che il femminismo ha indicato e dimostrato più volte. Ma anche il piacere, il desiderio, la sensualità e l’erotismo possono pulsare attraverso le soggettività esposte, allo scoperto, intessute a un luogo, permeando l’etica e la politica ambientalista e diventandone fonte d’ispirazione, energia, catalizzatori. Tuttavia, non intendo ridurre queste performance a un ambientalismo queer o femminista unico e coerente; voglio lasciare, invece, che le strade intraprese da alcuni capitoli rimangano aperte, divergenti, tenendo sotto controllo il desiderio di procedere verso una mappatura teorica completa.

Da tempo ritengo che l’umiltà epistemologica possa essere una valida modalità etica ambientale in quanto la reputo capace di rifiutare le modalità utilitaristiche del controllo umano; pertanto, accolgo con favore il recente discorso riguardo al “disimparare” e persino quello che porta alla luce il “fallimento” dei circoli accademici5.[…]. Sostengo che gli animali non umani e “queer” riescano a sfuggire alle modalità di categorizzazione, evocando un senso etico-epistemologico: improvvisamente, il mondo non solo è più queer di quanto ci si sarebbe mai aspettati, ma è anche incredibilmente più autentico.

Tuttavia, di fronte all’esuberante piacere di poter(si) pensare e di poter(si) sentire parte di un mondo incontenibile, abbondante e queer, si contrappongono elucubrazioni e posizioni molto meno allettanti. Fare i conti con l’Antropocene, con il cambiamento climatico, con la sesta estinzione di massa6, con il divario crescente tra la popolazione ricca e quella povera, dentro e tra le nazioni, con la precarietà imposta dal neoliberismo, con la ripresa negli Stati Uniti di violente manifestazioni razziste e, su scala minore, con le minacce rivolte alla vita intellettuale e alle istituzioni accademiche, significa che c’è ancora molto da disimparare.

 

stacy alaimo

 

 

1 U.K. Heise, Sense of Place and Sense of Planet: The Environment Imagination of the Global, Oxford University Press, New York 2008, p. 62.

2 Ivi, p. 210.

3 U. Beck, Risk Society: Towards a New Modernity, tr. ingl. da Mark Ritter, Sage, London 1994, p. 54 [mia traduzione N.d.T]. Si veda La società del rischio, trad. it. W. Privitera, Carocci, Roma, 2000.

4 A. Petryna, Life Exposed: Biological Citizens after Chernobyl, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2022, p. 216.

5 Si veda, ad esempio, la conferenza The Pedagogics of Unlearning, organizzata da Eamonn Dunne, Aiden Seery e Michael O’Rourke; L’“Irrationale” pubblicato sul sito web della conferenza afferma: “Per poter mantenere una certa fedeltà all’apprendimento è necessario rimanere fedeli al richiamo della stupidità, adottare una posizione di umiltà epistemologica e pedagogica, essere umili di fronte all’alterità, perché semplicemente non la si conosce”: http://www.unlearningconf.com/irrationale/. [Al momento della pubblicazione di questo volume, i sei video della suddetta conferenza sono disponibili sulla piattaforma YouTube, cercando nella barra di ricerca: The Pedagogics of Unlearning. N.d.T.].

6 La sesta estinzione, detta anche Olocene o Antropocene, non ha un chiaro punto di origine, ma è ovvio che il tasso di estinzione ha subito un’accelerazione nel XXI secolo e che queste estinzioni sono in gran parte di origine antropogenica. Un esempio, per comprendere la sua incredibile estensione: un milione di specie, ossia tra il 30 e il 50% di tutte le specie viventi, si prevede che si saranno estinte entro il 2050.