di: Mckenzie Wark
Al momento, la strategia generale del postcapitalismo è di rendere il linguaggio (tutto ciò che significa qualcosa) astratto e quindi facilmente manipolabile.
Kathy Acker
Che dea del punk rock sei? Io sono Kim Gordon. O meglio, lo ero. Insoddisfatta della risposta, ho ripetuto il quiz online un po’ di volte, fino a quando non mi è uscita Patti Smith. Non so quale azienda abbia creato quel test, ma ho accettato di darle accesso a una quantità di informazioni in cambio del privilegio di giocarci, in modo da scoprire qualcosa che so già, che somiglio più a una Patti Smith che a una Kim Gordon.
Il test ha catturato la mia attenzione abbastanza a lungo da permettermi di sfuggire alla noia, e mi ha dato qualcosa da postare sui social, presumibilmente per catturare l’attenzione degli altri. Alcune persone hanno paura degli algoritmi che sembrano sapere tanto di noi, ma io ho sempre pensato che la privacy fosse un concetto borghese. A essere distopica, in questo caso, non è tanto la condivisione di informazioni quanto l’asimmetria di questa condivisione. Se i mezzi di comunicazione di cui usufruisci sono gratuiti, questo di solito significa che il prodotto sei tu. Se l’informazione non ti viene venduta, allora sei tu il prodotto in vendita. È dall’era del broadcasting che chi lavora nei media studies lo insegna agli studenti e lo ribadisce al pubblico. A quei tempi era tutto molto semplice. Ascoltavi la radio gratis o guardavi gratis la televisione. Tra un programma e l’altro o tra le canzoni c’era la pubblicità. E tu eri il prodotto che veniva venduto dal broadcaster agli inserzionisti. O meglio: quello che vendevano era la tua attenzione. In un’epoca in cui la quantità di informazione era in crescita, e ne crollava il costo, l’unica cosa ancora rara e di valore era (ed è) la tua attenzione.
Nell’era del broadcasting era difficile sapere di chi catturasse l’attenzione un programma e se un particolare tipo di pubblicità funzionasse. Il guru dell’advertising, David Ogilvy, raccontò che uno dei suoi clienti aveva dichiarato che la metà delle sue inserzioni funzionavano e l’altra metà no, ma non sapeva quali. Ci vuole ancora ben più di qualche trucchetto per convincere i committenti che i pubblicitari sono dotati di magici mezzi di persuasione che accentreranno l’attenzione della gente, conficcheranno il brand nella memoria, e indurranno le persone a desiderare di comprare il prodotto o – ed è la stessa cosa – di votare per il candidato.
La genialità malvagia dei media nell’era del postbroadcasting sta nel fatto che non solo tengono alta la nostra attenzione, ma la registrano pure. Sono in grado di estrarre molte più informazioni su chi siamo, cosa ci piace e quale dea del punk rock vogliamo essere. Buona parte dei consumatori rimane sconvolta quando si rende conto di quante informazioni su se stessi stanno cedendo, e gratis. Sono stati ingannati, convinti a trattare i media postbroadcasting come se fossero una specie di servizio pubblico gratuito, un’illusione che certe imprese perpetuano di buon grado con gli utenti ma di certo non con gli investitori.
Agli investitori raccontano ben altra storia: che offrendo quello che sembra un servizio gratuito sono in grado di estrarre più informazioni di quante ne forniscano, e di monetizzare questa asimmetria. Le vecchie industrie culturali hanno capito come trasformare il tempo libero in merce. I movimenti sindacali hanno lottato duramente perché chi lavora avesse quel tempo. Il capitale è stato costretto a scendere a un compromesso, ma ha trovato il modo di mercificare il tempo libero così come quello lavorativo. Le vecchie industrie culturali almeno dovevano creare prodotti che attirassero la nostra attenzione. Nell’era del postbroadcasting, le industrie culturali sono state soppiantante da industrie avvoltoio. Non si preoccupano nemmeno di fornire intrattenimento. Sta a noi intrattenerci a vicenda, mentre loro riscuotono l’affitto, e lo riscuotono su tutto il tempo passato sui social media, che sia pubblico o privato, che sia per lavoro o per piacere e (se tieni il Fitbit al polso) persino durante il sonno. Il che dà un nuovo significato allo slogan inventato dai surrealisti belgi: «Ricordate che state dormendo per il padrone!».
Al di là del lavoro, al di là del tempo libero, qualcos’altro viene mercificato qui: la nostra sociabilità, la nostra normale e quotidiana vita insieme, quello che si potrebbe addirittura definire il nostro comunismo. Certo, non si tratta di una versione utopica del comunismo, ma di una versione banale e quotidiana, del nostro amore per la condivisione di pensieri e sensazioni, per la connessione con gli altri. Eppure, buona parte delle persone sembra piuttosto allarmata all’idea che il suo desiderio di condividere e stare con gli altri, di tenersi in contatto con gli amici, di scambiare foto di gatti, persino di litigare con gli sconosciuti, stia rendendo qualcun altro molto, molto ricco.
Che le persone che utilizzano internet siano monitorate e sorvegliate e trasformate in informazione è solo l’inizio. Se pensi che i tuoi social ti stiano spiando, prova a immaginare che tipo di informazioni ha su di te la tua banca. C’è tutta un’economia politica che funziona grazie alle asimmetrie dell’informazione come forma di controllo. Ci si potrebbe addirittura spingere a definirle un nuovo tipo di rapporto di classe. Certo, c’è ancora una classe di proprietari che possiede la terra sotto ai nostri piedi e una classe capitalista che possiede le fabbriche, ma forse ora c’è anche un altro tipo di classe dominante: quella che non possiede né terra né fabbriche ma il vettore lungo il quale si raccoglie e si usa l’informazione.
Di questi tempi, ogni persona o cosa è tracciata e sorvegliata e trasformata in informazione. Se ordini un pacco da un sito, puoi seguirne la consegna nelle sue fasi fino all’arrivo. È la versione a uso personale del monitoraggio dei movimenti di ogni cosa: animale, minerale e vegetale. A questo scopo, anche se ritieni di ricadere nella categoria degli animali, ti monitorano anche come se fossi una roccia. Il sandwich minerale che hai in tasca, il tuo telefono cellulare, genera informazioni su ogni suo movimento.
Da tutte queste informazioni sulle abitudini e i movimenti della gente e delle cose, si possono generare predizioni sui movimenti futuri. Be’, tu non puoi farlo: sebbene sia tu a produrle, queste informazioni finiscono per appartenere a una qualche azienda information-centric che ne fa un business.
Tu le produci, ma come una sorta di infoproletario non possiedi ciò che produci o i mezzi per monetizzarlo. Non trai benefici dal potere predittivo di queste informazioni, anche se probabilmente ne subirai le conseguenze se quelle previsioni si rivelassero imprecise. Poiché questo enorme, inaffidabile bene comune che deriva dalle numerose informazioni che tutti stiamo producendo è privatizzato, può essere molto difficile sapere quanto queste informazioni siano realmente accurate o utili. Se inserisci stronzate, ottieni stronzate. È ormai tristemente noto come gli algoritmi siano stati addestrati ad avere pregiudizi razzisti e sessisti sulle persone che dovrebbero osservare in modo neutrale. Dal punto di vista della profilazione dei consumatori è fastidioso, ma diventa ben altra cosa quando si tratta di controllo algoritmico. Si tratta comunque di una conversazione che spesso devia nella richiesta di un algoritmo più equo, come se potesse ancora esistere una terza parte neutrale al di sopra delle nostre differenze alla quale implorare che ci conceda uguale diritto di essere sfruttati dalle asimmetrie dell’informazione. Questi aspetti discriminatori dell’economia politica dell’informazione devono essere criticati e combattuti, ma senza perdere di vista il quadro generale. E questo quadro generale riguarda l’economia politica dell’informazione nel suo complesso.
Prima di concentrarci su ciò che le società che possiedono e controllano le informazioni ci stanno facendo, fermiamoci ad analizzare le particolarità delle informazioni stesse. Le informazioni sono una cosa piuttosto strana. Al contrario di ciò che comunemente si pensa, non sono né ideali né immateriali. L’informazione esiste solo quando c’è un substrato materiale di materia ed energia che la immagazzina, la trasmette e la processa L’informazione fa parte di un mondo materiale, ma ne fa parte in modo strano. La parola informazione non è per niente nuova, ma la scienza dell’informazione lo è, è una creazione del dopoguerra.
L’informazione è ormai una forza organizzativa talmente pervasiva da essersi infiltrata nel modo in cui vediamo le cose. Quando pensiamo all’informazione come «tecnologia» spesso intendiamo le tecnologie che la strumentalizzano. Si tratta di sistemi specifici che raccolgono, ordinano, gestiscono ed elaborano informazioni così che possano poi essere usate per controllare altre cose nel mondo. La tecnologia dell’informazione è una specie di metatecnologia, progettata per osservare, misurare, registrare, controllare e prevedere quello che cose, persone o altre informazioni possono fare o faranno o dovrebbero fare.
Queste tecnologie hanno reso l’informazione molto, molto scadente e molto, molto abbondante. Hanno generato uno strano tipo di economia politica, basato non solo sulla scarsità delle cose ma anche sull’eccesso di informazione. Ciò ha creato dei nuovi problemi per chiunque avesse (o aspirasse ad avere) potere: come mantenere forme di disuguaglianza di classe, oppressione, dominanza e sfruttamento, basandosi su qualcosa che al momento in teoria sovrabbonda.
In questo libro ipotizzo che risolvere questa contraddizione abbia dato vita a un nuovo modo di produzione. Non è più capitalismo, ma qualcosa di peggio. La classe dominante del nostro tempo non governa più grazie al suo possesso dei mezzi di produzione, come facevano i capitalisti. Né attraverso il possesso della terra, come facevano i proprietari terrieri.
La classe dominante del nostro tempo possiede e controlla l’informazione. In altri termini, la stranezza di queste circostanze si cancella rendendola semplicemente una variazione dei luoghi comuni sul Capitale. Basta aggiungere un modificatore: capitalismo della sorveglianza, capitalismo delle piattaforme, capitalismo neoliberale, capitalismo postfordista, eccetera. L’essenza è la stessa, cambiano solo le apparenze. Ma per dare sostanza a questa ipotesi, si deve quantomeno tentare l’esperimento mentale di pensare che non si tratti più di capitalismo. Stranamente, ogni tentativo di fare questo esperimento mentale incontra grosse resistenze. Persino la teoria critica sembra legata emotivamente alla nozione che il capitalismo persista.
[…] Che questo non sia più capitalismo, ma qualcosa di peggiore, è una possibilità che già da tempo ho suggerito a molti tipi di pubblico, in ambito attivista o accademico. Per alcuni è un’ipotesi in linea con la loro esperienza e appare ovvia, ma spesso incontra resistenze piuttosto tenaci. C’è uno strano bisogno di anticipare motivi per non pensarci.
Questo potrebbe essere il posto giusto per tentare di giocare al bingo postcapitalista, elencando le reazioni più frequenti anche solo alla possibilità di pensare che questo non sia più capitalismo.
Mi viene detto che mi limito a parlare di capitalismo finanziario e che non è una novità. (Scusate, ma l’informazione si è infiltrata nell’intero ciclo di produzione e riproduzione del valore). Mi viene detto che mi limito a parlare di circolazione. (Si veda la risposta precedente). Mi viene detto che le informazioni non sono che idee, il che è idealismo. Il materialismo pertiene alla materia. (Persino la scienza della metà del XX secolo aveva un concetto di «materialismo» più sofisticato di questo).
Mi viene detto che molte delle caratteristiche del presente somigliano ancora a quelle del capitalismo dell’età del vapore. (Certo, si può fare in modo che si somiglino, volendo, ma cerchiamo di concentrarci anche sulle differenze e di prendere in considerazione entrambe le cose). Mi viene detto che poiché il telegrafo esisteva già ai tempi di Marx, l’informazione non è niente di nuovo. (Ci sono sempre precedenti storici, e lunghe storie). Mi viene detto che parlare di informazione è assumere il linguaggio della Silicon Valley. (Perché lasciare che monopolizzino il pensiero sull’informazione, oltre all’informazione vera e propria?).
Mi viene detto (di solito da professori con incarichi di ruolo) che Marx ha già spiegato tutto in una qualche oscura nota a piè di pagina nel secondo volume del Capitale e che dovrei leggere la lunghissima esegesi che ne ha fatto proprio quel distinto professore. (Marx non era un professore, non aveva incarichi di ruolo e tentava di spiegare allo stesso tempo continuità e cambiamento nel suo periodo storico). O mi viene detto, come se non lo sapessi, che la manodopera viene ancora sfruttata. (Su questo siamo d’accordo, così come i fittavoli continuano a esigere gli affitti. Perfino la schiavitù non è ancora estinta. I modi di produzione coesistono e interagiscono tra loro. Mi sto solo interrogando sulla comparsa di un modo ulteriore, non mi chiedo se descriva la totalità).
Un’altra obiezione è che parlerei solo del mondo sovrasviluppato, dell’Europa, del Giappone e degli Stati Uniti. (L’informazione è ormai il mezzo per controllare le catene di distribuzione globali che raggiungono il cuore del cosiddetto mondo sottosviluppato). O che starei solo parlando del settore della tecnologia, che non coincide con l’economia «reale». (Mi sembra un’obiezione sempre più debole, visto che le principali aziende tech sono sempre più grandi, in termini di capitalizzazione azionaria).
E comunque non si tratta solo delle imprese tech. Per esempio, pensiamo a un’impresa che difficilmente è ritenuta una punta di diamante del settore, ma che è il datore di lavoro privato principale degli Stati Uniti: Walmart. In genere ritenuta una catena di negozi al dettaglio, Walmart è diventata famosa sia per la vendita di prodotti a buon mercato sia per lo spietato sfruttamento di lavoratori e fornitori. A un esame più attento si tratta piuttosto di una società di logistica che, anche grazie all’uso dell’informazione, è riuscita a organizzare i flussi di merci e manodopera attraverso il suo sistema di distribuzione. È stata tra le prime catene di negozi al dettaglio a informatizzarsi. Ha persino comprato un satellite per gestire i propri dati in modo più efficiente. In principio, il fondatore Sam Walton cercava le possibili location per i negozi andando in esplorazione con il suo aereo privato, ma presto questa modalità ha ceduto il passo a un approccio «data-dri-ven» (basato sui dati).
L’infrastruttura di Walmart segue un modello hub and spoke, con negozi raggruppati intorno a centri di distribuzione. Non tutti sanno però che Walmart possiede quasi tanti centri dati quanti centri di distribuzione, e che sono altrettanto grandi. Quello che il consumatore vede – i negozi, gli innumerevoli camion per strada – non è che un’espressione fisica di un sistema logistico informatizzato che determina dove saranno e cosa faranno. Per organizzare l’informazione ci vuole altrettanta infrastruttura che per organizzare la distribuzione degli oggetti fisici che finiscono sugli scaffali, e per una buona ragione: quei centri dati devono analizzare tutti i prodotti e la manodopera in movimento per predire, per tutte le possibili combinazioni, quale disposizione di merci e lavoro debba seguire, e in ogni momento.
Chi fa acquisti da Walmart genera una buona quantità delle informazioni che muovono l’azienda. È uno scambio asimmetrico. Il cliente guadagna un pacco di dodici rotoli di carta igienica scadente. Walmart aggiunge informazioni sulle sue azioni nel modello predittivo che regola le decisioni aziendali. Chi lavora per Walmart è sfruttato. Così come è sfruttato chiunque lungo la filiera, fino ad arrivare alle fabbriche e alle aziende agricole. E non solo: Walmart non si limita a estrarre il lavoro fisico dai corpi di lavoratrici e lavoratori, estrae anche informazioni da chi compra senza dare nulla in cambio. Ed è questo ulteriore processo – questo processo di estrazione delle informazioni – che mi interessa. A quanto pare non è caratteristico del settore «tech», ma è un «business model» sempre più comune, che i modelli classici di capitalismo non descrivono molto bene. Forse si porta appresso nuove forme di sfruttamento, disuguaglianza e asimmetria che si sovrappongono a quelle a cui siamo più abituati.
Proviamo a prendere in esame il secondo più importante datore di lavoro privato negli Stati Uniti: Amazon. Vende un prodotto chiamato Echo, che ti piazzi in casa perché possa spiarti coi suoi sette microfoni direzionali. Alcune persone storcono il naso, ma in qualche modo il brand Amazon ha convinto molti che questa sia una cosa normale. L’Echo ti collega ad Alexa, un’intelligenza artificiale il cui obiettivo è quello di imparare le tue abitudini, i tuoi bisogni, i tuoi desideri… e soddisfarli. Col tempo diventerà sempre più in grado di fornirti informazioni e prodotti, e aggiungerà quello che ha imparato da te alla matrice di quello che sa su tutti. Il tuo lavoro, per il quale non sei pagato, è addestrare una macchina a imparare cos’è l’«umano» visto esclusivamente come consumatore.
Echo e Alexa celano ai tuoi occhi anche tutto quello che si interpone tra la tua enunciazione di un desiderio e la sua soddisfazione da parte di Amazon. Echo è il livello superiore di quella che Benjamin Bratton chiama la pila. I tuoi desideri devono essere trasformati in una forma comprensibile dalla macchina; è il compito di questo livello di interfaccia. L’interfaccia ti mette anche in relazione con la macchina e col resto della pila come un particolare tipo di soggetto: sei un utente. Per esempio, sei un utente che vuole un libro. Dici: «Alexa, ordinami una copia del Capitale di Karl Marx». Una volta che avrai confermato che è quello che davvero vuoi, questa informazione passerà, come fosse un vettore, lungo una particolare linea, attraverso tutta una serie di livelli dell’infrastruttura a pila, che ti restituirà il prodotto, o immediatamente (se si tratta di un ebook) o nel giro di un giorno o due (se si tratta di un oggetto fisico). Ciascuno dei desideri così espressi diventa un vettore unico attraverso uno spazio stratificato che può soddisfare un numero pressoché infinito di desideri, a patto che questi prendano la forma di un utente che chiede a un’interfaccia di soddisfare una domanda con un prodotto. Non ti lascia spazio per essere o volere molto altro.
Pubblicato il: 29.06.2021
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita