Pubblico come infrastruttura: “Apprezzata Fetali” sogno di Elia S.

Riprendiamo “il sogno” narrativo proposto dall’architetto Maurizio Cilli sul concetto di pubblico come infrastruttura, uscito su cheFare.
Ringraziamo l'editore per la possibilità concessa.

di: Maurizio Cilli

Il tema su invito è il pubblico come infrastruttura, il mio racconto ricerca un grado zero con un espediente “letterario” uno spiazzo di una città come tante, europea, mediterranea, uno spazio pubblico generato per successive stratificazioni, ciascuna delle quali testimonianza di un epoca precisa. Un luogo si immaginario che ben descrive valori universali di cosa debba essere uno spazio pubblico abitato dal desiderio e dal senso di appartenenza a una comunità. L’idea che tutto questo nasca oggi dal sogno è una metafora di quanto questi valori siano completamente disattesi dalle procedure con le quali oggi si progettano gli spazi pubblici. Ultima delle preoccupazioni di una trasformazione, realizzato in economia a scomputo degli oneri di urbanizzazione. impianti spaziali generici arredati a catalogo. Cose che conosciamo ormai tutti benissimo. Lo spiazzo del racconto è un’infrastruttura fragile che si adatta al contesto ambientale e ai comportamenti dei cittadini. Il garbo, la grazia, la cura dei cittadini sono la vera infrastruttura di un’architettura sociale.


In apparenza le giornate di Elia S., erano tutte uguali, in verità, impiegava il suo tempo in faccende molto diverse fra loro: scrivere articoli per il bollettino dell’associazione cartografi, rispondere alle lettere della rubrica “la posta del fegato”, pubblicata ogni giovedì sul catastrofico almanacco dei frati svestiti dell’ex Abbazia del Pianto degli Angeli, disegnare con puntuale dovizia di dettagli i percorsi, le formazioni e le simbologie dei rituali di tutte le processioni pagane del mondo conosciuto. Questi non sono che gli impegni ai quali dedicava il suo tempo con costanza, andrebbero di fatto sommati un numero imprecisato di occupazioni sporadiche, tra le quali occorre segnalare: una collezione misteriosa di odradek, una monumentale raccolta di ritagli e immagini, ordinate senza un apparente criterio in scatole di fortuna, con i quali si riprometteva di assemblare collages che non avrebbe mai realizzato e un corposo registro sul quale annotava meticolosamente tutti gli argomenti al mondo a cui sono stati dedicati dei documentari. Si ha notizia di studi recenti in psicomagia e tecniche per ricordare il contenuto dei sogni.   Il sabato, lontano dal suo tavolo di lavoro, ingombro di qualunque cosa, si dedicava alla spesa e a cucinare il cibo per tutta la settimana, per sé e per il suo gatto Baal: più spesso bollito con patate lesse a pranzo, minestrone a cena.

Nessuno saprebbe definire il dominio delle sue ricerche, né tanto meno quanti anni avesse. Il 23 febbraio del 1977, Mercoledì delle Ceneri, gli cadde, inavvertitamente, il portafoglio di nabuk scuro a pochi passi dalla vetrina della macelleria Rebuffo, fortuna volle che a trovarlo fosse la signora Bianca, cassiera scrupolosa che, riconosciuto Elia S. dalla foto del suo documento, ebbe il gentile scrupolo di restituirglielo. Oggi solo lei saprebbe svelare il luogo e la sua data di nascita. Un omone dalla corporatura pingue, la chioma di una gorgone e il volto ricoperto da un cespuglio di Spirea irsuta. L’insieme potrebbe far pensare a un uomo prossimo ai settant’anni, tuttavia, per la sua pelle senza rughe in molti gli avrebbero dato non più di 55 anni.

All’alba del sabato 2 agosto 2003, sant’Eusebio da Vercelli, l’indomani del giorno più caldo del secolo, Serhiy il senza tetto kazako, dal capo sempre adornato di trionfi che ricordano le luminarie di Scorrano, lo trovò esanime, riverso su un lato con gli abiti abbrustoliti, seduto sulla panchina della fontana nel parco dei ruderi dello zoo. Quella notte, poco prima delle tre, non lontano da quel punto, un fulmine, seguito da un tuono spaventoso, squarciò il monumentale platano del chioschetto.  

I frati svestiti si occuparono delle esequie e dello svuotamento delle cose che occupavano la sua casa: circa seicento tra plichi, involti e faldoni di scritti e documenti, novanta scatole, tutte diverse, di ritagli e fotografie, una biblioteca di cinquemila libri e un universo infinito di oggetti. Di Ball, il suo gatto, nessuno ebbe più notizie.

L’impero di curiosità e conoscenze di Elia S. si disperse gradualmente, nessuno dei frati ebbe in cuor suo la volontà di preservare e ordinare e custodire l’intero fondo. Diverso tempo dopo in un magazzino dell’Abbazia, all’interno di un baule di metallo scuro, furono ritrovati alcuni plichi, tra questi, il frate incaricato di fare spazio decise di conservarne uno per sé, più sottile degli altri, dal cartone rosso acceso, con una scritta cubitale che campeggiava sul fronte dell’involto:

“Apprezzata Fetali” * sogno ricorrente di Elia S. 

Circa una cinquantina di fogli di velina battuti a macchina, con numerose cancellature e correzioni vergate a mano con l’inchiostro e qualche disegno. Uno scritto ordinato secondo la modalità di un diario, ad ogni data corrisponde una notte, ad ogni notte un sogno.

questa la sua parziale trascrizione di cinque sogni su sette:

sogno della notte del 7 febbraio 

Ciò che non ricordo è l’insieme delle circostanze: cosa stessi facendo e il modo con il quale ci sono arrivato. Sono seduto ai piedi di una basilica, su una panca di pietra bianca, forse Lessinia. La superficie è levigata, al tatto graffiata, ai piedi della seduta la sorreggono tre tozzi verticali sagomati, uno solo dei quali termina con le zampe scolpite di un grande felino. A giudicare dal contenuto angolo delle ombre è un momento imprecisato del primo pomeriggio, ho perso il conto dei rintocchi della campana. Ciò che vedo è un campo allungato, né stretto né largo, lungo circa quanto uno sferisterio, circondato da edifici tutti diversi. C’è una luce riposata nonostante il sole accecante. Una corrente piacevole quasi continua, aliti freschi che spezzano l’insostenibile canicola. Si direbbe uno spazio congegnato per convogliare e trattenere vortici d’aria. Davanti a me all’altro capo del campo un palazzo si contrappone al timpano con rosone della basilica. Ha una facciata composita, un basamento di bugnato dallo spacco grossolano, un fregio sommitale dal quale si stagliano verso il cielo quattro figure femminili. Le due architetture, pur espressione di forze opposte, sono due argini gentili di pietra chiara che fissano l’equilibrio apparente di un dialogo pacificato. Nessuno degli altri edifici, ordinati sui due lati, visibili dal mio punto di vista, sembra contendere il loro primato.

Planimetria non attendibile dello “Spiazzo” desunta dalle descrizioni dei sogni di Elia S.

sogno della notte del 16 marzo  

Di nuovo qui, ci sono tornato? O sono sempre stato qui? Riesco a percepire un senso di confortevole consuetudine, comprendo di essere in uno spazio dal quale i miei sensi traggono beneficio. Cammino in lunghezza, è mattina, il sole già alto, c’è un gran movimento di commissioni e colazioni, tavolini affollati ovunque, sfilo lungo diverse bancarelle di bouquiniste, le devanture degli empori espongono all’aperto piante, verdure e frutti. Cammino in lunghezza sul lato opposto al sole, gli edifici più bassi di un paio di piani sono coronati da una sequenza di terrazzi. È uno spazio ampio all’ombra delle chiome di un filare di Lecci. Gli alberi sono disposti a una distanza tale, l’uno dall’altro, in modo da ottenere una fascia d’ombra costante. Successive potature mirate hanno innalzato e sagomato le chiome in moda da non interrompere lo sguardo verso il lato opposto dello spazio. Questo lo ricordo bene lo spazio ha un solo filare su un lato, posato a dimora esclusivamente per ottenere l’ombreggiatura necessaria contrapposta all’arco solare. Sull’altro lato ci sono solo due alberi che non riconosco, isolati, alla stessa distanza del filare dall’altro fronte di edifici più alti. Questo luogo e l’opera sofisticata e ingegnosa di una comunità evoluta, ogni singolo elemento che compone questo scenario di vita pulsante è un’entità con precise ragioni e significati per l’insieme di intenzioni di un’architettura sociale.

sogno della notte del 23 aprile

Ci sono tornato e ho vissuto ancora momenti d’incanto. Continuo a trovare risposte dall’attenta osservazione di dettagli. È il suolo con le sue semplici gerarchie ad attirare la mia attenzione: il rettangolo allungato è ripartito in lunghezza da tre fasce distinte, due superfici lapidee laterali, lievemente pendenti verso li centro dello spazio e una fascia dalla lieve sezione a schiena d’asino, ampia almeno il doppio delle laterali, con una superficie compatta di terra finissima dai riflessi ocra chiaro. Tra le fasce di pietra chiara, lievemente venate di ossidi, e il campo di terra, ci sono due segni scuri continui, una stretta caditoia di bronzo per la raccolta delle acque. La ripartizione delle tre fasce si interrompe a circa trenta passi dalle facciate di testa della basilica e del palazzo bugnato con due sagrati dalla geometria prossima al quadrato. Le due cortine laterali di edifici si interrompono circa a metà dei quadrati a formare quattro aperture dell’interno spazio verso l’esterno. Sono questi ambiti di maggior quiete, dal flusso diradato quasi a voler generare due aree di silenzio. 

Sezioni non attendibili dello “Spiazzo” desunta dalle descrizioni dei sogni di Elia S.

sogno della notte del 29 aprile

Tardo mattino, giorno di mercato, forse martedì, c’è confusione eppure il frastuono pare ovattato dall’incombere dello spazio, trovo rifugio nell’unico tavolino disponibile a ridosso della vetrina, sotto l’aggetto della pantalera, del caffè pasticceria sul lato senza alberi, alle mie spalle una vetrofania della pubblicità di un liquore all’anice, di fianco a me un carretto per le spremute governato da un cameriere azzimato con baffetti a pennetta. Hanno montato delle bancarelle di legno, i loro montanti affondano all’interno di buche cilindriche disposte lungo le fasce laterali a ridosso della caditoia di raccolta delle acque. Al termine del mercato, il suolo viene lavato accuratamente e le buche per i pali vengono chiuse da appositi tappi: delle borchie leggermente bombate, di bronzo dorato, che tanto avevano alimentato la mia curiosità nei sogni precedenti. Il cameriere azzimato, mi serve un bicchierino di bianco mangiare e una caraffa di spremuta di limone ghiacciata, gli chiedo: “Dove sono i furgoni degli ambulanti” e lui con il sorriso intenerito dall’ingenuità della mia domanda risponde fiero: “No Signore, è assolutamente vietato, i furgoni vengono lasciati al parcheggio del cimitero e le merci portate allo Spiazzo con un servizio di carretti a mano”

Quel luogo di grazia che da settimane abito in sogno con sorprendente regolarità ha un nome “lo Spiazzo” mi convinco abbia anche un toponimo più aulico che devo ancora scoprire.  

sogno della notte del 19 maggio*

Ci sono stato la scorsa notte ma non ricordo quasi niente, alcuni dettagli degli edifici, alcuni volti, un insieme piacevole di scoperte di cui non ricordo più nulla, salvo aver dato un significato alle quattro figure femminili del frontone del palazzo bugnato: 

sono le allegorie del buon governo: Giustizia, Liberalità, Magnanimità e Abbondanza

C’è un fattore magico e misterioso che mi lega a questo angolo di mondo sospeso nel tempo, un’architettura priva di retorica, senza alcun bisogno di affermare la propria monumentalità attraverso vacue simmetrie della forma. Un impianto urbanistico cresciuto in modo incrementale; eppure, così potente da risultare pianificato secondo i principi di un’autoregolamentazione fondata sull’intelligenza e il buon senso civico di una comunità. La vita quotidiana che osservo nei miei sogni, durante le mie incursioni inconsce, restituisce a frammenti valori civici preziosi e universali il primato del desiderio sul bisogno e del simbolico sullo spazio. Questo mi fa pensare che in mancanza di una piena consapevolezza di una comunità nei propri desideri viene meno il nutrimento culturale del progetto e l’energia che proietta su un luogo specifico la volontà di essere abitato. Queste possono essere delle buone definizioni dell’architettura, e dell’arte fare Città: l’espressione di una struttura sociale animata dal desiderio di costruire una visione stabile di futuro.

nota scritta a mano al sogno della notte del 19 maggio

Da settimane lo Spiazzo non abita più i miei sogni inquieti, forse è giusto così, mi ha insegnato ciò che dovevo capire e imparare. Dei sogni puoi trattenere solo quello che ricordi. Mi mancheranno i momenti di ozio gentile, di grazia assoluta e di pace. Mi è stato concesso il privilegio di vivere attimi di vita in lentezza in un luogo forse mai esistito del quale non dimenticherò il garbo, la cura e il senso di appartenenza che lo abitano. Un luogo immaginario che ora appartiene soltanto all’universo inconscio dei miei desideri.  

*“Apprezzata Fetali” è l’anagramma di “La Piazza Perfetta”


Dopo i dialoghi tra Derrick de Kerckhove e Francesco Monico, tra Michele Cerruti But e Filippo Barbera e tra Paolo Naldini e Ezio Manzini che hanno introdotto il Convegno di ricerca Public!  a cura di Francesco Monico, Paolo Naldini, Michele Cerruti But presso Accademia Unidee (il racconto del convegno nel reportage di Marco Liberatore) ora apriamo una serie di approfondimenti sul concetto e sulle declinazioni di “pubblico”. Dopo un’analisi e un’interpretazione dell’intellettuale pubblico del filosofo Federico Campagna, la serie prosegue con “il sogno” narrativo proposto dall’architetto Maurizio Cilli sul concetto di pubblico come infrastruttura