Vita umana e non-umana – Timothy Morton

La vera «vita» occupa una zona intermedia abbandonata. Ciò che chiamiamo «vita» è un’esitazione tra due diverse forme di morte: la macchinazione cieca e la completa inesistenza.

di: Timothy Morton

Pubblichiamo un estratto dal libro Humankind. Solidarietà ai non umani, di Timothy Morton, edito da Nero Edition nella collana NoT. Ringraziamo l’editore per la possibilità concessa.

 

 

Sono… Oh, qual è la parola?
È così profonda, così complicata.
E tanto triste.
Doctor Who, La moglie del dottore
(La parola è «viva»)

 

Dobbiamo farla finita con il letale concetto di sopravvivenza.
Una rapida occhiata a Se questo è un uomo di Primo Levi mostrerà che la forma di cultura della morte più violenta traccia una linea di demarcazione rigida ma sottile tra vita e morte. La parola chiave è sopravvivenza: il semplice atto di «andare avanti», al cui interno è però contenuta una separazione tra il cercare di non morire e l’attesa del morire stesso (i «Muselmänner»).
Tale separazione è un artefatto della violenza industriale inferta alle vittime. Quando la logistica nazista incontra persone reali, tutta una serie di possibili esseri perturbanti comincia a manifestarsi «tra» le rigide categorie di vita e morte.

Alla logica questo non è molto gradito, poiché essa non ama le ambiguità. Nella logica tradizionale non c’è spazio per zone intermedie, il tipo di luoghi che si incontrano nella «vita» ordinaria. Eppure, la vera «vita», in opposizione alla Vita con la V maiuscola, occupa proprio questa zona intermedia abbandonata. Ciò che chiamiamo «vita» è un’esitazione tra due diverse forme di morte: la macchinazione cieca e la completa inesistenza. La vita in quanto tale non può essere contrapposta alla disabilità: un arto è sempre una protesi, un occhio è sempre artificiale. Il motore dell’evoluzione è una serie di mutazioni casuali tale per cui è impossibile predire quando una nuova forma di vita si manifesterà come variazione o come mostruosità.

La logica, però, con il suo «principio» di non contraddizione e il conseguente principio del terzo escluso, proibisce proprio quelle sfumature di grigio che caratterizzano la vita (con la v minuscola) in quanto tale. Cosa ci dice tutto ciò riguardo alla logica? Che è, come affermò Nietzsche, un prodotto dell’era agricola (quella in cui viviamo è solo una nuova versionedella Mesopotamia), con i suoi patriarcati e le sue caste. Il genere umano dev’essere pensato tramite questo terzo escluso, questo regno spettrale che attraversa due tipi di morte, non certo come una qualche sostanza vivente idealizzata. La vita umana diventa così meno spettacolare, meno grandiosa e vitale: si fa più ambigua, più inquietante, più onnicomprensiva. Solo a questo punto si può pensare a un genere umano estraneo alle logistiche che hanno portato al capitalismo neoliberista. Distingueremo dunque questa concezione di vita da altre definizioni minimali come, per esempio, quella proposta dall’utilitarismo o quella contenuta nell’idea della mera sopravvivenza o dell’«sopra-vivere». Non si tratta di contrapporre la mera sopravvivenza a una forma di vitalità salubre, ricca ma insipida.
In quanto categoria ontologica, la fragilità è una categoria ecologica di base. Se una cosa è esattamente ciò che è – sebbene non sia mai come appare – vuol dire che è danneggiata dall’interno. Esistere è essere disabili: ogni arto è una protesi. La creatività si manifesta proprio a partire da (non certo malgrado) questa disabilità ontologica. La sopravvivenza è una trama continuativa, sottile ma continuativa. La vita creativa è un miracolo che può essere operato solo dai disabili. Il genere umano è irriducibilmente disabile.

La Vita (con la V maiuscola) è ostile alle forme di vita realmente esistenti. Ciò è dovuto all’ontologia standard, un’ontologia della sostanza radicata nello spazio sociale. Essa implica che l’esistere sia sempre un essere qualcosa-o-qualcos’altro, presente al di sotto, al di là o a dispetto delle apparenze: laggiù all’orizzonte, l’idea di Natura apparve in funzione di un sistema basato sull’agricoltura.

Un algoritmo non è nient’altro che una ricetta: sbatti due uova e versale in un pentolino caldo con del burro, cuocile per qualche minuto… e voilà, una deliziosa porzione di uova strapazzate. Stabilisciti in dimore permanenti circondate da campi, impara a riconoscere e a eliminare erbacce e parassiti, aumenta al massimo la resa dei chicchi del tuo grano a dispetto dei fiori… Basta lasciare che l’algoritmo funzioni per un tempo sufficientemente esteso e si potrà assistere al fatto che la sua ultima versione sia riuscita a innescare la Sesta Estinzione di Massa. Poiché gli umani vollero evitare il piccolo surriscaldamento globale del primo Olocene, i loro algoritmi finirono per generare un surriscaldamento globale di gran lunga peggiore. Poiché vollero trascendere la rete del destino e la struttura circolare e ansiogena dell’esistenza, il regno paleolitico del trickster mitologico, gli umani rincararono la dose e finirono per imbrigliarsi ancor di più in questa rete.
Non è questa, d’altra parte, la trama di ogni tragedia? Non c’è da sorprendersi, poiché la tragedia è una soluzione che gli umani hanno escogitato per elaborare la logistica agricola… la computazione ha necessariamente dei limiti, in quanto sintomo dell’agrilogistica, la logistica di una precisa modalità agricola (quella della Mesopotamia) dotata di una sua specifica struttura logica. La logistica definisce il modo in cui le cose sono organizzate e attuate; questa organizzazione ha una logica implicita che è spesso nascosta. Forse questa differenza è simile a quella tra l’agire e l’essere consapevoli.

Un rapido esame al modo in cui il fosforo – uno degli elementi chimici più importanti in agricoltura – abbia influito sulla biosfera sarebbe sufficiente a convincere chiunque dei problemi dell’agrilogistica. La modalità tragica in cui siamo intrappolati rispetto all’emergenza climatica contemporanea è un prodotto estetico proprio di quell’algoritmo che ha dato origine all’emergenza.
Come trovare una via d’uscita da questa tragedia? Questa è una domanda che, ampliando il contesto, significa: come possiamo trovare una via d’uscita dal contesto agrilogistico, che per essere mantenuto in funzione richiede ormai tutta un’industria e delle sofisticate protesi informatiche? La vita in quanto tale è un concetto tragico. Pensate al povero Edipo, inchiodato sul fianco della montagna: un piccolo bambino, vivo a stento. Vita significa essere vivi a stento.

L’agrilogistica è stata efficace fin dai suoi esordi: trasformi i pascoli in deserto, poi ti sposti altrove. In men che non si dica, il patriarcato si è sviluppato come diretta conseguenza del funzionamento dell’agrilogistica. Emerse rapidamente una gerarchia sociale fortemente oppressiva, con i suoi re – Edipo è vittima di una sindrome associata a padrimonarchi incompetenti che potremmo chiamare «complesso di Laio». In sostanza, la storia della civiltà assomiglia a una costante fuga da conseguenze indesiderate. Il fatto bizzarro è che alcuni esseri umani (gli «occidentali») hanno felicemente lasciato che il programma girasse per molto, molto tempo, e questo a prescindere dai risultati; la cosa diventò estremamente spiacevole già poco dopo i primi esordi. È addirittura possibile che il lieve riscaldamento del primo Olocene fosse esso stesso conseguenza dell’agricoltura su larga scala, il che suggerirebbe dunque che l’Antropocene abbia avuto due fasi. Vero o meno che sia, ciò che si intende per Natura non è altro che la regolare periodicità del Sistema Terra nell’Olocene: un’opera artificiale generata almeno parzialmente dagli esseri umani o una felice congiuntura che ha permesso l’edificazione del teatro operativo antropocentrico, fornendo uno sfondo non umano abbastanza confortevole affinché il programma agrilogistico potesse partire salvo poi farsi dimenticare.

Il confine, rigido ma sottile, tra vita e non-vita è una componente chiave del mondo creato dal programma agrilogistico ed è stato stabilito dal suo funzionamento. Se non ci piace ciò che è stato creato, dovremo trovare un concetto diverso per quella che definiamo forma-di-vita. Dovremo ammorbidire il confine tra vita e non-vita. L’utilitarismo di base inscritto nello spazio mesopotamico contiene un assioma implicito: la quantità dell’esistente è sempre preferibile rispetto alla sua qualità. Ciò genera alla lunga il paradosso della popolazione, la cui messa in discussione è un tabù anche per gli studiosi di mentalità più aperta che abitano lo spazio mesopotamico. Secondo questo paradosso, trilioni di umani che vivono in condizioni simili a quelle dei Muselmänner di Primo Levi sono preferibili a bilioni di umani che vivono in uno stato di estasi assoluta.

Il fatto che, quando lo fai esplodere a questa scala, questo utilitarismo di base risulti del tutto assurdo dovrebbe fungere da monito: nell’era degli iperoggetti – con la consapevolezza di aver creato esseri massicciamente distribuiti, dei quali, in un dato momento, possiamo percepire solo piccole porzioni spaziotemporali – esso non è più applicabile. Non lo era in realtà sin dal principio. Ora però il programma è attivo da così tanto tempo che siamo in grado di analizzarlo nei dettagli attraverso il microscopio, oppure ingrandendolo su scala planetaria – e, sfortunatamente, di soffrire a causa sua.

Il controllo delle nascite e dei corpi fertili e l’assoggettamento delle donne sono connessi all’ontologia sostanzialista di fondo e al suo correlato, l’utilitarismo per l’esistenza-a-tutti-i-costi. Il patriarcato si intreccia con lo specismo e l’antropocentrismo. I non-umani, la cui totalità viene chiamata Madre Terra, sono trattati come sostanze infinitesimamente e infinitamente malleabili; nella versione post-kantiana di questo concetto, queste sostanze non sono nemmeno tali, almeno fino a che non viene loro conferita una certa forma dagli esseri umani.
Sottesa al desiderio di più esistenza a tutti i costi ritroviamo quell’ontologia della sostanza per la quale gli oggetti sono meri grumi di estensione decorati di accidenti. Molto tempo prima che questa visione fosse formalizzata (da Aristotele o dal riduzionismo atomista), e migliaia di anni prima della formalizzazione dell’utilitarismo (all’inizio dell’Antropocene), l’ontologia della sostanza venne codificata direttamente nello spazio sociale. Disfarsene significa smantellare lo spazio sociale. Il progetto ontologico che mira allo smantellamento della metafisica della presenza e della definizione antropocentrica del non-umano come unità estesa e manipolabile è un progetto politico, se considerato su questa scala temporale, quella del riscaldamento globale e dell’estinzione.
Mary Daly aveva ragione: viviamo in una cultura della morte, una cultura della distruzione – la pulsione di morte freudiana è sempre un meccanismo di distruzione – laddove i confini sfumati di cellule vegetali e animali si trasformano in quelli rigidi e regolari della plastica, dopo essere diventati petrolio. Irrigidiamo incessantemente le pareti delle cellule sociali, quasi fuor di metafora: utilizziamo cellule di piante e animali fossilizzati per produrre petrolio e poi plastiche come il Mylar o il latex, quelle stupende e lisce membrane protettive da BDSM. La pulsione di morte è esattamente la rassicurante modalità di sopravvivenza dell’agrilogistica, ed è a essa che dobbiamo il concetto di Vita. L’incessante ricerca di una vita incessante non è altro che morte e sterminio. Il concetto capitalista di crescita, per esempio, è una specifica istanza di questa ricerca.

L’arte e la sessualità umana sono tra i pochi luoghi rimasti sulla Terra in cui ancora si possa giocare con la logica della morte, piegarla, sovvertirla, parodiarla. La selezione sessuale è perfino più kantiana di Kant – non c’è assolutamente alcuna ragione di tipo utilitario per la riproduzione sessuata. La selezione sessuale ha dei costi assurdi dal punto di vista del DNA ed è operata senza alcuna ragione utilitaria. Gli argomenti per cui bellissime elitre iridescenti dovrebbero essere la prova della virilità di una forma di vita si rivelano circolari, o petizioni di principio. Se essere vivi riguardasse soltanto l’andare avanti, e al diavolo le apparenze, tutte le forme di vita non farebbero altro che clonarsi. Altro che un paio di belle elitre: ci sarebbero innumerevoli modi molto più efficaci per sfoggiare potenza. Le stesse forme di vita rifiutano la logica che vorrebbe strappare l’apparenza dall’essere.

Lo spazio sociale mesopotamico ci mette di fronte a una scelta radicale tra due tipi di morte: la vita che si ripete in modo rigido (lo si vede bene nell’apparentemente interminabile «dibattito» sull’aborto legato al controllo dei corpi delle donne) e l’assoluta non-esistenza. Si può scegliere tra il possedere un grumo di estensione a cui fare, sadicamente, qualsiasi cosa o assolutamente nulla.
La «vita», in realtà, si colloca proprio tra questi due tipi di morte. È un tremolio o uno scintillio in assenza di input meccanici, tale per cui gli oggetti si muovono da soli senza che sia necessario l’intervento di una forza esterna. Non da molto, questo tremolio è osservabile in oggetti minuscoli ma pur sempre molto più grandi di quelle particelle subatomiche al cui ordine di grandezza il modello correlazionista standard aveva confinato questo comportamento irregolare. In altre parole, la motilità intrinseca delle cose implica che apparenza ed essere siano inestricabili, anche se differiscono in modo bizzarro, a dispetto dell’operatività agrilogistica, che ha dato origine anche al «principio» logico di non contraddizione, un principio mai formalmente dimostrato poiché apparentemente così ovvio all’interno dello spazio sociale agrilogistico.

Ibn Sina, meglio noto come Avicenna, è il filosofo persiano che, all’apice della sua fama (verso il 1000 d.C.) va dritto al punto e corazza il principio di non contraddizione con una vera e propria minaccia di tortura: questo è lo spirito giusto! Pressappoco come quando Samuel Johnson imitò il suono di un calcio e lo usò come argomento a riprova dell’esistenza di cose «calciabili» o come quando, in modo un po’ più violento, la Santa Inquisizione costringeva gli imputati a confessare di non credere in una certa dottrina salvo poi arderli vivi.

Il movimento avviene poiché apparenza ed essere scivolano l’una sull’altro, sono distinti eppure la stessa cosa, come se l’essere fosse il loop e l’apparenza la torsione di quel loop che lo rende un nastro di Möbius. Non si capisce dove inizi, quella torsione. Non ci sono linee tratteggiate o mura cittadine, o siepi o concetti di «interno» e di «esterno» che servano a delinearla. Un nastro di Möbius è una superficie non orientabile, un concetto topologico che indica l’assenza di un interno e di un esterno, di un davanti e di un dietro, di una cima e di un fondo. Una forma di vita è esattamente questo tipo di entità non orientabile: se, allo zero assoluto, minuscoli specchi nel vuoto possono emettere raggi infrarossi senza essere stimolati meccanicamente, si potrà avere una bella elitra senza alcuna particolare ragione e la si potrà trovare sexy a prescindere. La non-concettualità del bello kantiano si estende fino a comprendere coleotteri, farfalle e pesci.

Non ci piace proprio per niente che alcune entità luccichino in assenza di un input meccanico. Perfino la teoria quantistica standard circoscrive il discorso a oggetti su una scala non superiore ai 10 -17 centimetri di diametro. Nello spazio sado-tanatologico dell’agrilogistica, lo scintillio intrinseco dell’essere – uno scintillio congiunto all’apparenza – viene trasmesso come uno spettrale ed empio segreto esoterico, accessibile solo a coloro che sono riusciti a farsi ammettere nel privé VIP delle religioni agricole come l’induismo o il cristianesimo. Una volta che questa scalata alla vetta ti ha reso inoffensivo, ti viene propinata una versione fortemente mediata in cui ti si racconta che tu stesso sei dio e non ti serve far altro se non rendertene conto. È divertente come un’elitra iridescente. La religione dell’Era Assiale non può fare a meno di far germinare esotici fiori esoterici in cima ai gambi di una presunta ragionevolezza.

In uno spazio non agrilogistico, altrimenti noto come «Paleolitico» (un termine dispregiativo e reificante) o «indigeno», quello scintillio si chiama magia. Pertiene a tutti gli oggetti, siano essi vivi o meno stando agli standard mesopotamici. Per i popoli indigeni un’entità può essere morta o viva, ma è impossibile dichiararlo con certezza.
A noi mesopotamici è proibito metter piede fuori dallo spazio di pensiero mesopotamico: si verrebbe bollati come folli o stupidi; per esempio, si può essere accusati di essere dei primitivisti o di appropriarsi di culture non-occidentali.

Tutto quel parlare di esseri non umani con spiriti che vi scintillano attorno è confinato a un passato remoto o a coloro che i francesi chiamano «aliens» (i pazzi), un termine significativo per indicare esseri che oltrepassano il confine tracciato della dimora agrilogistica. Farsi beffa o meravigliarsi di fronte all’idea che qualcuno si nutra con noci e bacche è una reazione che dissimula un tentativo di soppressione dello scintillio ontologico. In assenza di preconcetti è impossibile determinare se un’entità scintillante sia viva oppure morta. La distinzione tra vita e non-vita diventa impossibile da sostenere; tutti gli esseri sono più facilmente concepibili come non-morti (undead) piuttosto che come animati o inanimati.

[…] Un essere scintillante, non-morto, spettrale – un elettrone, un topo, un grattacielo, un movimento sociale – è un essere-X, intrinsecamente dotato di superpoteri. Possiamo comprendere quest’idea proprio attraverso quella X che Kant usò per descrivere l’unica cosa a cui concesse il lusso di potersi ritrarre: i giudizi sintetici trascendentali a priori, che il filosofo definisce «incognite X». Ora però liberiamoci del copyright intellettuale antropocentrico che governa questo superpotere: facciamo in modo che possa appartenere non solo alla matematizzazione dell’estensione dello spazio e del tempo, non solo alle proposizioni logiche e agli altri fenomeni ideali come il pensiero, la speranza, il desiderio, l’odio (Husserl); e non solo agli umani, nella loro modalità di ek-sistenza descritta da Heidegger e Lacan, ma a qualsiasi sorta di entità, sia essa un’idea, un fiore, una parola, una poesia, una raganella, la biosfera.

C’è un termine adatto per designare questo tremolante, misterioso potere-X: il termine è male. Poiché l’arte si occupa di ombre e di spettri che eccedono ciò che sembra contenuto nel programma agrilogistico, e ciò che da esso emerge, la filosofia agricola ha spesso pensato all’arte come a un dominio del male, come a una caverna platonica di sogni paleolitici dimenticati. Nella trilogia Queste oscure materie, di Philip Pullman, la religione cerca di separare gli spiriti animali, o «daemon», dai bambini a cui sono legati, come famigli che fluttuano attorno alla propria strega. La religione patriarcale è esattamente un dispositivo per asportare il potere-X delle cose e il loro essere adombrate, infestate da future versioni di se stesse in costante movimento, demoni appollaiati sulle spalle. Ciò è dovuto al fatto che la religione patriarcale è diretta conseguenza di una macchinazione ancora più efficiente, la cui spietata oblazione di spettralità è conosciuta al giorno d’oggi con il nome di Sesta Estinzione di Massa. In nome delle forme di vita, è arrivato il momento di liberare questo scintillio apparentemente malvagio e spettrale dalla sua prigionia nel regno dell’arte e di permettere anche a cetacei e a esseri umani di poterne godere.