di: Sadie Plant
Così come testi singoli sono diventati filamenti di reti infinitamente intricate, le macchine digitali di fine Ventesimo secolo tessono nuove reti a partire da quelli che un tempo erano numeri, parole, musica, forme, odori, grane tattili, architetture, e infiniti altri veicoli ancora senza nome. I media diventano interattivi e iperattivi, e vanno a comporre una variegata zona immersiva che “non inizia con la scrittura; piuttosto, si ricollega direttamente alla tessitura di elaborati arazzi di seta”. Il telaio non è metaforico né letterale, è semplicemente fisico, un incontro di fili intrecciati e attorcigliati che attraversano la storia dei computer, della tecnologia, delle scienze e delle arti.
Dentro e fuori dai fori dei telai automatizzati, su e giù nelle epoche della filatura e della tessitura, avanti e indietro nella fabbricazione delle stoffe: spoletta e telaio, cotone e seta, tela e carta, pennelli e penne, macchine da scrivere, carrozze, cavi telefonici, fibre sintetiche, fili elettrici, filamenti di silicio, cavi in fibra ottica, schermi pixellati, linee telematiche, il World Wide Web, internet e le matrici future.
Prima che tu esca di corsa, considera due cose: il futuro è già stabilito, solo il passato può essere cambiato; e: se è valso la pena
dimenticarlo, non vale la pena ricordarlo.
Pat Cadigan, Folli
Quando nel 1984 fu pubblicato il primo romanzo cyberpunk, Neuromante di William Gibson, il cyberspazio che descriveva non era né un piano realmente esistente né uno fantastico e mitologico inventato dal nulla. Era una realtà virtuale che si faceva sempre più reale. I computer domestici stavano diventando ubiqui come i telefoni, era risaputo che le simulazioni militari e le telecomunicazioni sfruttavano tecnologie altamente sofisticate, e i videogiochi erano sempre più immersivi e creavano dipendenza.
Neuromante era un’opera di finzione, ma era anche un altro tassello del puzzle che avrebbe fatto confluire su un unico piano tutte le componenti. Nel corso del decennio successivo i computer persero il loro significato di calcolatori isolati in grado di processare numeri e parole per diventare nodi della vasta rete globale chiamata internet.
Video, immagini, suoni, voci e testi fusi nei multimedia interattivi ora sembravano destinati a convergere con i caschi e le tute sensibili della realtà virtuale, meccanismi di feedback sensoriale e connessioni neuronali, realtà digitali immersive contigue alla realtà. Qualsiasi cosa significasse ora “realtà”.
All’epoca era opinione comune che le macchine operassero su percorsi pressoché lineari. La fiction poteva speculare e magari fornire l’ispirazione per determinati sviluppi, ma non avrebbe dovuto sortire effetti così immediati.
Come ogni cambiamento culturale, lo sviluppo tecnologico avrebbe dovuto procedere un passo alla volta. Era questione di logica, dopotutto. Ma il cyberspazio ha cambiato tutto. Di colpo sembrava che tutte le componenti che ora confluivano in questa zona virtuale fossero state create a quello scopo prima ancora che la realtà virtuale avesse un nome; come se tutte le presunte cause e motivazioni che sottendevano il loro sviluppo avessero semplicemente fornito il pretesto per la nascita di una matrice che il romanzo di Gibson aveva ora collocato al suo posto; come se il presente venisse risucchiato in un futuro che da sempre aveva guidato il passato, assegnando un significato a strutture preesistenti del tutto inconsapevoli della sua influenza.
Neuromante non era né il primo né l’ultimo esempio della confusione tra fiction ed eventi reali, futuro e passato. Quando Gibson descriveva “reticoli luminosi di logica dispiegata attraverso quel vuoto incolore”, il suo cyberspazio non faceva che implementare opere di non fiction precedenti o successive: la macchina universale di Alan Turing aveva attirato gli apparecchi dei suoi tempi – calcolatrici e macchine da scrivere – in un sistema virtuale che si sarebbe connesso in rete durante la Seconda guerra mondiale; la Macchina Analitica di Ada, che prendeva le mosse dalle schede perforate del telaio Jacquard, che a sua volta nasceva dalle matasse di fili delle tessitrici, che a loro volta riprendevano i fili dei ragni e delle falene e le reti delle attività batteriche.
Prima del Diciottesimo secolo, quando furono introdotti i meccanismi che consentivano ai telai di selezionare autonomamente i fili, a un tessitore oc correvano “due o tre settimane per preparare il telaio al fine di realizzare un determinato disegno”. I nuovi congegni utilizzavano rotoli di carta forata, e in seguito schede perforate, grazie al quale il telaio diventò il primo macchinario automatizzato.
Fu Joseph Marie Jacquard, un ingegnere francese, a compiere il passo finale. “Jacquard ebbe l’idea di raggruppare i fili che devono spostarsi insieme e collegarli a una leva deputata esclusivamente a un dato gruppo; le leve sono a loro volta collegate a contrappesi cilindrici” mentre “una lastra di cartone rettangolare” scorrendo “porta con sé tutti i contrappesi di un gruppo, e di conseguenza i fili che sono attaccati a ogni contrappeso”.
Se questa lastra “invece di essere liscia fosse perforata, con un foro posizionato in corrispondenza dell’estremità di ogni leva, allora, siccome tutte le leve attraverserebbero i fori della lastra quando quest’ultima si muove, resterebbero tutte al loro posto. Vediamo dunque che è semplice posizionare i fori nella lastra di cartone in modo che, in ogni dato momento, ci saranno un certo numero di leve, e di conseguenza gruppi di fili, sollevati, mentre le restanti restano dove sono. Supponendo che il processo venga reiterato in accordo a una regola dettata dal disegno da eseguire, vediamo che questo disegno può essere riprodotto sulla stoffa”.
Essendo un sistema che “sottraeva di fatto il controllo del processo di tessitura ai lavoratori e lo trasferiva all’hardware della macchina”, il telaio Jacquard era “ferocemente osteggiato dai lavoratori, che interpretarono questa migrazione del controllo come se un pezzo del loro corpo venisse letteralmente trasferito alla macchina”.
È rimasto celebre l’episodio in cui i nuovi telai vennero distrutti dai rivoltosi Luddisti ai quali Lord Byron, nel suo primo discorso alla Camera dei Lord nel 1812, offrì il suo sostegno. “Con l’adozione di questa nuova specie di telaio” disse “un uomo solo svolgeva il lavoro di molti, e i lavoratori superfiui erano condannati a restare senza occupazione. Eppure vi è da osservare che il lavoro così eseguito era di qualità inferiore; privo di mercato in patria, era svolto in fretta e senza cura in vista dell’esportazione. Veniva chiamato, nel gergo del commercio, col nome di ‘Lavoro di Ragno’”.
Byron temeva che i suoi colleghi alla Camera dei Lord lo giudicassero “troppo indulgente nei confronti di questi uomini, e addirittura mezzo luddista”. Ma sfortunatamente, sia per la sua crociata sia per gli operai che restarono disoccupati, le stoffe realizzate con i nuovi telai superavano sia per quantità sia per qualità quelle realizzate a mano. E il Lavoro del Ragno non si fermò a quello. Questi processi automatizzati erano solo avvisaglie delle nuove specie che la figlia di Byron aveva in progetto.
Io non credo che il talento di mio padre come poeta sia mai stato (o avrebbe mai potuto essere) paragonabile al mio come Analista.
Ada Lovelace, luglio 1843
Da tempo Babbage aveva nutrito interesse per gli effetti delle macchine automatizzate sulle forme di manifattura tradizionali, e nel 1832 aveva pubblicato una ricerca, The Economy of Manifactures and Machinery, sul destino delle piccole industrie artigianali nelle Midlands e nel Nord dell’Inghilterra.
La fabbrica di spilli descritta da Adam Smith per illustrare la divisione del lavoro aveva avuto su di lui un grande impatto e, proprio come il suo quasi contemporaneo Marx, intuiva fino a che punto specializzazione, standardizzazione e sistematizzazione avessero trasformato sia le fabbriche sia l’economia nel suo complesso in enormi macchine automatizzate.
Babbage, in seguito, avrebbe guardato alle vecchie fabbriche come a prototipi di “macchine pensanti”, e paragonò le due principali funzioni della Macchina Analitica – archiviazione dati e calcolo – ai componenti di base di un impianto tessile. “La Macchina Analitica consiste di due parti” scriveva Babbage. “1. Il magazzino in cui sono collocate tutte le variabili su cui si andrà a operare, e tutte le quantità che risultano da precedenti operazioni” e “2. Il motore in cui convergono tutte le quantità su cui si andrà a operare”. Come i computer che sarebbero comparsi in seguito e che esistono ancora oggi, la Macchina aveva magazzino e motore, memoria e processore.
Fu il telaio Jacquard a ispirare la realizzazione della macchina. Babbage possedeva un ritratto di Jacquard, tessuto su uno dei suoi telai; il ritratto aveva un dettaglio di circa mille fili per centimetro e la sua realizzazione aveva richiesto l’utilizzo di ventiquattromila schede perforate, ognuna ca pace di alloggiare più di mille fori.
Babbage era ammaliato dalla minuziosa complessità sia della stoffa sia della macchina che l’aveva tessuta. “È un fatto risaputo” scrisse “che il telaio Jacquard è in grado di tessere qualsiasi disegno che l’immaginazione umana possa concepire”. Il ritratto era un quadrato di un metro e mezzo per lato di “stoffa di seta intessuta e incorniciata sotto vetro, ma assomigliava in modo così impressionante a un’incisione, che fu scambiato per tale da due membri della Royal Academy”.
Sebbene, come scrisse Ada, “sia opinione comune che la Macchina Differenziale, giunta a un certo grado di sviluppo, abbia suggerito l’idea della Macchina Analitica; e che la seconda sia in effetti la figlia migliorata della prima, germogliata da essa”, Ada insisteva che quella Analitica fosse una macchina interamente nuova: “Le idee che hanno portato alla Macchina Analitica sono occorse in maniera del tutto indipendente dalla Macchina Differenziale, e sarebbero nate ugualmente se questa non fosse mai stata costruita o nemmeno ideata”.
La Macchina Differenziale “non poteva fare altro che addizionare, e qualsiasi altra operazione, comprese quelle più semplici come sottrazione, moltiplicazione e divisione, potevano essere eseguite solo nella misura in cui fosse possibile, tramite giudiziosi arrangiamenti e artefici matematici, ridurle a una serie di addizioni”. In tal senso, è “la materializzazione di una specifica e molto limitata serie di operazioni che […] possono essere espresse in questo modo (+,+,+,+,+,+,) oppure in questo 6(+). Sei ripetizioni di un’unica operazione, +; a questo ammontano, in effetti, le capacità e lo scopo di quella macchina”. Ma se la Macchina Differenziale poteva semplicemente addizionare, la Macchina Analitica era in grado di eseguire “l’interezza dell’aritmetica”.
“Le donne non sanno l’aritmetica” aveva osservato una volta, scherzosamente. Quando gli avevo chiesto cosa voleva dire, mi aveva risposto: “Per loro, uno più uno più uno più uno non è uguale a quattro”.
“E a che cosa è uguale?”. Mi ero aspettata che dicesse cinque o tre. “Semplicemente a uno più uno più uno più uno”.
Margareth Atwood, Il racconto dell’ancella
“Se mettiamo a confronto le potenzialità e i principi di costruzione della Macchina Differenziale e di quella Analitica” scriveva Ada “intuiamo che la seconda è dotata di poteri incommensurabilmente più vasti rispetto alla prima, e che in effetti tra loro intercorre la stessa relazione che c’è tra l’analisi matematica e l’aritmetica”. Era, come scrisse Babbage, “una macchina di natura generalissima”. Poteva non solo sintetizzare i dati già forniti dall’operatore, come già faceva la Macchina Differenziale, ma avrebbe incarnato quella che Ada Lovelace descriveva come l’essenza stessa della “scienza delle operazioni”.
Pubblicato il: 13.07.2021
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita