di: Jane Bennett
La potenza delle cose 1: rifiuti
In un soleggiato martedì mattina sulla grata che sormonta il canale di scolo che porta alla Chesapeake Bay, di fronte al Sam’s Bagels di Cold Spring Lane a Baltimore, c’erano:
un guantone da lavoro in plastica nera da uomo,
un fitto tappeto di polline di quercia
un topo morto intatto
un tappo di bottiglia di plastica bianca
un bastoncino di legno liscio
Guanto, polline, topo, tappo, bastoncino. Al primo incontro questi oggetti mi sono parsi oscillare avanti e indietro tra lo status di rifiuti e lo status di cose: da un lato erano cose da ignorare, fatta eccezione per i loro rimandi all’attività umana (le fatiche operaie, il gesto di chi aveva gettato via i rifiuti, il successo del derattizzatore), dall’altro erano cose che reclamano attenzione di per sé, la cui esistenza prescinde l’associazione con significati, abitudini o progetti umani. In questa seconda forma, le cose rivelavano la propria potenza: lanciavano una chiamata, anche se non capivo bene cosa stessero dicendo. Di certo suscitavano in me degli affetti: provavo repulsione per il topo morto (o era semplicemente addormentato?) ed ero turbata dalla sporcizia, ma provavo anche qualcos’altro: una consapevolezza senza nome dell’impossibile singolarità di quel topo, di quella configurazione del polline, di quel tappo di plastica che per altri versi era solo un banale oggetto prodotto in serie.
Ero colpita da quella che Stephen Jay Gould ha definito «lancinante complessità e intrattabilità»1 dei corpi non umani, ma proprio perché ne ero colpita mi resi conto che la proprietà di questi corpi non si limitava a una passiva «intrattabilità» ma includeva anche la capacità di far accadere le cose, di produrre effetti. Se la matericità del guanto, del topo, del polline, del tappo di bottiglia e del bastoncino ha iniziato a luccicare e a scintillare, è stato in parte a causa del quadro contingente che le cose andavano a comporre con la strada, con il tempo quella mattina e con me. Perché se il sole non avesse illuminato il guanto nero, forse non avrei visto il topo; se il topo non fosse stato lì, forse non avrei notato il tappo della bottiglia, e così via. Però c’erano, così com’erano, e quindi ho intravisto una vitalità energetica dentro ciascuna di queste cose, cose che generalmente concepivo come inerti. In questo concatenamento gli oggetti apparivano come cose, cioè come entità vivide non del tutto riducibili ai contesti in cui i soggetti (umani) li collocano, mai del tutto esauriti dalla loro semiotica. Nel mio incontro con la grata di Cold Spring Lane, ho intravisto una cultura delle cose irriducibile alla cultura degli oggetti.2 Ho raggiunto, per un momento, quello che per Thoreau era l’obiettivo di una vita: essere in grado, come dice Thomas Dumm, di «farci sorprendere da ciò che vediamo».3
Questa finestra su un esterno tanto eccentrico si è aperta grazie a quella composizione che casualmente era venuta a crearsi, ma anche grazie a una certa prontezza anticipatoria del mio interno, a uno stile percettivo aperto a cogliere la potenza delle cose. Perché quando ho incontrato guanto-polline-ratto-tappo-bastoncino avevo in testa Thoreau, che mi esortava a praticare con disciplina «l’arte di guardare sempre ciò che c’è da vedere»; avevo in testa l’affermazione di Spinoza quando diceva «tutte le cose sono animate anche se in gradi diversi»; e avevo in testa Maurice Merleau-Ponty, la cui Fenomenologia della percezione mi aveva insegnato che «questa rivelazione di un senso immanente o nascente nel corpo vivente si estende […] a tutto il mondo sensibile, e il nostro sguardo, ammaestrato dall’esperienza del corpo proprio, ritroverà il miracolo dell’espressione in tutti gli altri oggetti».4
Come già accennato, le cose a terra quel giorno vibravano, rivelandosi un momento come roba morta e quello dopo come presenza viva: prima rifiuti, poi soggetti rivendicanti, prima materia inerte, poi collegamenti vivi. In quel momento mi ha visceralmente colpita come il materialismo americano, che pretende che un numero sempre maggiore di prodotti vengano comperati in cicli sempre più brevi, sia, di fatto, l’antimaterialità.5 Basta anche solo l’immenso volume di merci e la necessità iperconsumistica di gettarle via per far spazio a quelle nuove a eclissare la vitalità della materia. In The Meadowlands – un diario di viaggio ispirato a Thoreau della fine del Ventesimo secolo – Robert Sullivan si avventura sulle colline di spazzatura del New Jersey appena fuori Manhattan e descrive la vitalità che persiste persino nella spazzatura:
Le montagne di spazzatura sono vive […]. Miliardi di organismi microscopici prosperano sottoterra in comunità prive di luce e ossigeno […]. Dopo aver ingerito ogni minuscola porzione degli scarti di New Jersey o New York, queste cellule esalano giganteschi fumi sotterranei di anidride carbonica e metano caldo e umido, colossali venti tropicali nati morti che filtrano nel terreno per alimentare gli incendi delle Meadowlands, o penetrano nell’atmosfera per consumare […] l’ozono […]. Un pomeriggio […] camminavo lungo il perimetro di una collina di spazzatura, un cumulo di rifiuti compattati alto dodici metri che doveva la sua topografia alla spazzatura della città di Newark […]. La notte prima aveva piovuto, quindi non ci misi molto a trovare una piccola infiltrazione di percolato, una melma nera che gocciolava lungo il pendio della collina, un espresso di rifiuti. In poche ore, questo flusso si sarebbe fatto strada nelle […] acque sotterranee delle Meadowlands; sarebbe andato a mescolarsi con altri flussi tossici […] Ma ora, nel momento della sua nascita […] quella piccola infiltrazione era puro inquinamento, uno stufato immacolato di olio e grasso, di cianuro e arsenico, di cadmio, cromo, rame, piombo, nichel, argento, mercurio e zinco. Ho toccato questo fluido – il mio polpastrello diventò color caramello bluastro – ed era caldo e fresco. A pochi metri di distanza, dove il ruscello si raccoglieva in una pozza profumata al benzene, un germano reale nuotava solitario.6
Sullivan ci ricorda che una materialità vitale non potrà mai essere «gettata via», perché continua ad agire, anche se sotto forma di merce scartata o rifiutata. Per Sullivan quel giorno, come per me quella mattina di giugno, la potenza delle cose è emersa da una pila di spazzatura. Non Flower Power, non Black Power e nemmeno Girl Power: Thing-Power, la potenza delle cose. Quella bizzarra capacità delle cose inanimate di prender vita, di agire, di innescare effetti sia plateali che discreti.
La potenza delle cose 2: la vita non-organica di odradek
Un topo morto, del polline di quercia e un pezzo di legno hanno interrotto il mio percorso. Lo stesso valeva per il guanto di plastica e il tappo di bottiglia: la potenza delle cose non nasce solo da corpi organici ma anche da corpi inorganici. A sostegno di questa tesi, Manuel De Landa osserva come anche la materia inorganica possa «auto-organizzarsi»:
L’energia materica inorganica ha una più ampia gamma di alternative per la generazione della struttura rispetto alle semplici transizioni di fase […] In altre parole, anche le forme più umili di materia ed energia hanno un potenziale di auto-organizzazione che va al di là della modalità, relativamente semplice, coinvolta nella creazione dei cristalli. Ci sono, ad esempio, quelle onde chiamate solitoni che si formano in vari tipi di materiali, che vanno dalle acque oceaniche (dove sono chiamate tsunami) ai laser. Inoltre ci sono […] stati stabili (o attrattori), in grado di sostenere un’attività ciclica coerente […]. Infine – e a differenza dei precedenti esempi di auto-organizzazione non lineare, nei quali non può verificarsi una vera innovazione – ci sono […] le diverse combinazioni in cui possono entrare entità derivate dai processi precedenti (cristalli, pulsazioni coerenti, pattern ciclici). Quando messe insieme, queste forme di generazione strutturale spontanea suggeriscono che la materia inorganica è molto più variabile e creativa di quanto avessimo mai immaginato. E questa visione della creatività intrinseca della materia deve essere pienamente incorporata nelle nostre nuove filosofie materialiste.7
Nel quarto capitolo ingaggerò una lotta filosofica con il concetto di vita impersonale o non-organica, ora vorrei concentrarmi su una drammatizzazione letteraria di tale concetto: Odradek, il protagonista del racconto «Il cruccio del padre di famiglia» di Franz Kafka. Odradek è un rocchetto di filo che può correre e ridere: questo pezzetto di legno animato esercita una forma di vitalità impersonale. De Landa parla di una «generazione strutturale spontanea» che ha luogo, ad esempio, quando sistemi chimici che si trovano in una condizione lontana dall’equilibrio scelgono inspiegabilmente una linea di sviluppo invece che un’altra. Come questi sistemi, la configurazione materiale che è Odradek si muove sul confine tra materia inerte e vita attiva. Per questo motivo il narratore di Kafka ha difficoltà a incasellare Odradek in una categoria ontologica. Odradek è un artefatto culturale, uno strumento di qualche tipo? Forse, ma se è così, il suo scopo è oscuro:
Sembra dapprima una specie di rocchetto da refe piatto, a forma di stella e infatti par rivestito di filo; si tratta però soltanto di frammenti, sfilacciati, vecchi, annodati, ma anche ingarbugliati tra di loro e di qualità e colore più diversi. […] Si sarebbe tentati di credere che quest’oggetto abbia avuto un tempo una qualche forma razionale e che ora si sia rotto. Ma non sembra che sia così; […] in nessun punto si vedono aggiunte o rotture che diano appiglio a una simile supposizione; l’insieme appare privo di senso ma a suo modo completo.8
Oppure Odradek non è un oggetto ma un soggetto, una minuscola persona? Se è così, lei/lui/esso/essa sembra possedere una corporeità piuttosto innaturale: dal centro della sua stella sporge un piccolo pezzetto di legno grazie al quale «quest’arnese riesce a stare in piedi come su due gambe».9
D’altro canto, come un organismo attivo Odradek pare muoversi con deliberazione (è «mobilissimo») e parlare in modo comprensibile:
Si trattiene a volte nei solai, per le scale, nei corridoi o nell’atrio. A volte scompare per mesi interi; probabilmente si è trasferito in altre case; ma ritorna poi infallibilmente in casa nostra. A volte, uscendo di casa, a vederlo così appoggiato alla ringhiera della scala, viene voglia di rivolgergli la parola. Naturalmente non gli si possono rivolgere domande difficili, lo si tratta piuttosto – e la sua minuscola consistenza ci spinge da sola a farlo – come un bambino. «Come ti chiami?», gli si chiede. «Odradek», risponde lui. «E dove abiti?» «Non ho fissa dimora», dice allora ridendo.10
Ma poi, come un oggetto inanimato, Odradek produce una cosiddetta risata che «non ha polmoni» e «sembra piuttosto il rumore di foglie cadute. E di solito quello segna la fine della conversazione. Anche queste risposte non sono mai dirette; spesso resta muto per molto tempo, di legno come appare».
Legnoso ma vivo, verbale ma vegetale, vitale ma inerte, Odradek è ontologicamente multiplo. È una materialità vitale e ci aiuta a mettere ben in luce ciò che Gilles Deleuze ha descritto come quel «qualcosa d’animato nelle piante, qualcosa di vegetale negli animali».11 Lo scienziato russo di fine Diciannovesimo secolo Vladimir Ivanovich Vernadsky, che rifiutava qualsiasi distinzione netta tra vita e materia, definì gli organismi come «forme speciali e distribuite del minerale comune, l’acqua […]. Sottolineando la continuità di vita acquatica e rocce, come evidente nel carbone o nelle scogliere calcaree fossili, Vernadsky notava che questi strati apparentemente inerti siano “tracce di biosfere passate”».12 Odradek mette in luce la continuità di vita acquatica e rocce, portando in primo piano il divenire delle cose.
La potenza delle cose 3: attanti legali
Potrei aver incontrato un parente di Odradek mentre prestavo servizio in una giuria, sempre a Baltimora, nel processo a un uomo accusato di tentato omicidio. Era una piccola fiala di vetro con un coperchio di metallo ricoperto da un adesivo: il raccoglitore di campioni di polvere da sparo. Questo oggetto/testimone era stato premuto sulla mano dell’imputato poche ore dopo lo sparo, e ora offriva alla giuria la sua microscopica prova che quella mano aveva sparato con una pistola o si trovava a meno di un metro da una pistola che aveva sparato. Più e più volte gli esperti chiamati a testimoniare mostrarono il raccoglitore di campioni alla giuria, e a ogni apparizione esercitava più forza, fino a diventare cruciale per il verdetto. Questo composto di vetro, cellule epidermiche, colla, parole, leggi, metalli ed emozioni umane era diventato un attante. Attante è un termine di Bruno Latour che indica l’origine dell’azione; un attante può essere umano o non-umano, oppure, molto probabilmente, una combinazione di entrambi. Latour definisce attante «ciò che agisce, o al quale viene imputata un’attività. Non implica una particolare motivazione degli attori umani individuali, né degli esseri umani in generale».13 Un attante non è un oggetto né un soggetto, ma «un interveniente» simile all’«operatore quasi-causale» di Deleuze.14 Un operatore è ciò che, in virtù della sua particolare collocazione in un concatenamento e della contingenza fortuita di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, fa la differenza, fa accadere cose, diventa la forza decisiva catalizzatrice di un evento.
Attante e operatore sono due parole alternative per indicare ciò che in un vocabolario più centrato sul soggetto viene chiamato agente. La capacità agentiva è ora intesa come distribuita in modo differenziale su una variegata casistica ontologica. Ritroviamo questa idea anche nella nozione di deodand, una figura in vigore nel diritto inglese dal 1200 circa fino alla sua abolizione nel 1846. Nei casi in cui accidentalmente un oggetto causava morte o lesioni a un umano, l’attante non umano, ad esempio la lama del coltello penetrata nella carne o la carrozza che gli ha calpestato una gamba – diveniva deodand (letteralmente «ciò che deve essere dato a Dio»). In riconoscimento della sua peculiare efficacia (un potere meno incisivo dell’agentività ma più attivo della recalcitranza), il deodand, una materialità «sospesa tra l’uomo e la cosa»,15 veniva ceduto alla corona affinché venisse usato (o venduto) per risarcire il danno fatto. Secondo William Pietz
Tutte le culture devono istituire una procedura di compensazione, espiazione o punizione per saldare il debito creato da morti umane non intenzionali la cui causa diretta non è rintracciabile in una persona moralmente responsabile, ma in un oggetto materiale non umano. La questione è stata tematizzata nel discorso pubblico dalla legge per i deodand.16
Ci sono ovviamente differenze tra il coltello che trafigge e la persona umana trafitta, tra il tecnico che tampona usando il campionatore e il campionatore, tra la serie di oggetti sulla grata del canale di scolo di Cold Spring Lane e me che narro la loro vitalità. Tuttavia concordo con John Frow sul fatto che queste differenze debbano
essere livellate, lette orizzontalmente come giustapposizione piuttosto che verticalmente come in una gerarchia dell’essere. È propria del nostro mondo la facoltà che abbiamo di distinguere le cose dalle persone. Eppure, il tipo di mondo in cui viviamo rende costantemente possibile lo scambio di proprietà tra questi due gruppi.17
Esplicitare questo concetto vuol dire non solo iniziare a vivere più orizzontalmente la relazione tra persone e altre materialità, ma anche fare un passo avanti verso una sensibilità più ecologica.
1 Stephen Jay Gould, Structure of Evolutionary Theory.
2 Si vedano «Waste Matter» di Tim Edensor e The Ethics of Waste di Gay Hawkins.
3 Si veda A Politics of the Ordinary di Thomas L. Dumm per una precisa analisi dell’«oscuro potere dell’ordinario». Il mio tentativo di parlare per le cose è un progetto vicino al tentativo di individuare nell’ordinario un potenziale sito di resistenza alle pratiche convenzionali e normalizzanti.
4 Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, p. 749.
5 Per una buona analisi delle conseguenze sulla democrazia della cultura dell’usa e getta si veda Sustainable Democracy di John Buell e Tom DeLuca.
6 Robert Sullivan, The Meadowlands, pp. 96-97.
7 Manuel De Landa, A Thousand Years of Nonlinear History, p. 16.
8 Franz Kafka, «Il cruccio del padre di famiglia», p. 237.
9 Ibidem.
10 Ivi, p. 238.
11 Gilles Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, p. 278.
12 Lynn Margulis e Dorion Sagan, What Is Life, p. 50.
13 Bruno Latour, «On Actor-Network Theory».
14 Manuel De Landa, Intensive Science and Virtual Philosophy, p. 123.
15 Daniel Tiffany, «Lyric Substance», p. 74. Tiffany traccia un’analogia tra enigmi e materialità in sé: entrambi sono sospesi tra soggetto e oggetto e si impegnano in «transustanziazioni» dall’organico all’inorganico e dal terreno al divino. Sviluppando il suo materialismo a partire da un’analisi delle forme letterarie, Tiffany mette in discussione la norma, di vecchia data, che considera la scienza come «l’unico arbitro nella determinazione della materia» (p. 75). Il suo scopo è scassinare «la serratura che attualmente impedisce alla critica letteraria di affrontare il problema della sostanza materiale» (p. 77).
16 William Pietz, «Death of the Deodand», pp. 97-108.
17 John Frow, «A Pebble, a Camera, a Man», p. 283.
Pubblicato il: 22.09.2023
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita