Il J’accuse di Agamben alla Didattica a Distanza

Il 23 maggio 2020 Giorgio Agamben pubblica un breve articolo dal titolo Requiem per gli Studenti, in cui rivolge un j’accuse molto duro verso la cosiddetta DAD, Didattica a Distanza

di: Francesco Monico

Francesco Monico

 

Se si legge con spirito da naturalista, l’articolo di Agamben è utile per capire quale formazione ed educazione ricercare dopo la Pandemia

 

Il 23 maggio 2020 l’accademico Giorgio Agamben pubblica sull’Istituto Italiano di Studi Filosofici un sintetico pensiero dal titolo Requiem per gli Studenti, in cui in pochi e sintetici periodi rivolge un j’accuse verso la cosiddetta DAD, Didattica a Distanza.
Lo fa in modo apodittico sostenendo che la pandemia sarebbe stata usata “…come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali…”.

Ad Agamben non interessa la trasformazione della didattica, ma denuncia una “barbarie tecnologica” che cancella ogni esperienza dei sensi e comporta la perdita dello sguardo, per consegnarlo alla freddezza elettrica dello schermo. Il punto centrale della sua presa di posizione è la conseguente perdita dello studentato.

Secondo Agamben quella dello studente è una forma di vita, in cui se determinante era lo studio e l’ascolto delle lezioni, “…non meno importante erano l’incontro e l’assiduo scambio con gli altri scholarii, che provenivano spesso dai luoghi più remoti…” Questo scambio viene meno con la nuova dimensione telematica della didattica elettrica e qui sta tutta la forza offensiva del suo testo, “i professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista.” A cui aggiunge: “Gli studenti che amano veramente lo studio dovranno rifiutare di iscriversi alle università così trasformate e, come all’origine, costituirsi in nuove universitates, all’interno delle quali soltanto, di fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva la parola del passato e nascere – se nascerà – qualcosa come una nuova cultura.”

Questa dichiarazione, effettivamente violenta come un pugno (ma con un interessantissimo finale aperto), ha creato molte reazioni indignate da parte di filosofi, pensatori e docenti, perché il fatto di essere assimilati a fascisti è ancora l’offesa più inaccettabile nella comunità culturale internazionale. I toni che ne sono scaturiti sono controproducenti.

Alla provocazione radicale di Agamben si affibbiano giudizi radicali ‘a go go’. Ma una cosa è utilizzare uno stile apodittico un’altra è distribuire cose tipo: Heidegger è un deficiente, Agamben è rinscemito, Gentile era un assassino fascista… così il risultato è che il dibattito, il libero scambio tra pensatori, si riduce a una improduttiva zuffa.

Giorgio Agamben è l’autore di Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, il quale si inscrive nelle ricerche di Foucault attorno al biopotere, indagando il rapporto fra diritto e vita e sulle dinamiche dei modelli di sovranità. Egli si inscrive quindi e a buon diritto tra i ‘personaggi concettuali’, ovvero quei pensieri fattisi carne che proseguono un discorso, costi quel che costi.

Se lo si legge in questa direzione, per lo spirito da naturalista che credo debba accompagnare ogni studioso di Cultural Studies (disciplina e metodo dalla quale provengo), non c’è nulla di male in quello che Agamben dichiara, anzi è molto utile al discorso su un territorio che è da farsi, quello della formazione ed educazione dopo la Pandemia del 2020.

Da studioso di Media Studies sono avvezzo al determinismo tecnologico, che rientra a mio modo di vedere nella grande famiglia delle Gestalt, ovvero delle strutture à la Levy-Strauss e, soprattutto e di nuovo à la Foucault, che ben spiega proprio tramite Agamben, come il dispositivo tecnologico di fatto disponga dell’utilizzatore.

Così se anche a noi dell’Accademia Unidee, di cui ho l’onore e l’onere di dirigere il corpo docente, è rivolta questa accusa, poiché anche noi stiamo facendo didattica a distanza, esami a distanza, seminari e convegni (che ora chiamiamo in ‘jargon’: webinar, talk…), ecco che noi cautamente non ci offendiamo, ed estendo questa serena pacificità a tutto il corpo docente, perché ne vediamo invece la forza critica e non solo una mera violenza concettuale (quanto abbiamo imparato da chi serenamente ci accusava anche in maniera grave?).

Bisogna accogliere questo preoccupato j’accuse e non farlo naufragare nel mare del pensiero unico dell’epoca della pandemia (si può immaginare un dispositivo più forte di un virus contemporaneamente umano e sovraumano per omologare il pensiero in un’unica direzione?).

È banale ma utile scomodare l’intoccabile Umberto Eco con la sua dicotomica distinzione fra Apocalittici e Integrati, laddove per gli apocalittici ogni nuova tecnologia è solo foriera di distruzione, appunto la ‘barbarie tecnologica’ di cui parla Agamben, e gli integrati vi vedono solo una benedizione. La verità sta nel mezzo, ovvero in un corretto atteggiamento critico per cui la nuova struttura pedagogica implicata dal Covid19, in cui la DAD sembra incarnarne il centro e l’unica essenza, non è una soluzione pensata ma un “protocollo di crisi” ovvero una enunciazione elementare che si riferisce alle percezioni immediate e costituisce il punto di partenza di una teoria.

Ma è massimamente improduttivo disinnescare Agamben con Eco, al contrario quello da accogliere è il tentativo estremo, ovvero di chi rappresenta il termine ultimo, in senso locale o temporale, di qualche cosa al limite della resistenza, della sopportazione; ovvero di colui che è, e lotta fino all’estremo delle forze, in quanto quello che Agamben cerca di fare, al di là della sfrontata accusa di fascismo rivolta ai professori, è di richiamare all’attenzione e alla responsabilità civile, un insieme di pratiche tecnologiche date troppo per scontate e troppo acriticamente acquisite.

E resta così una teoria che, appunto, è tutta da scrivere, e che non può risolversi solo nella mera distanza, né può distruggere la presenza del filosofo e del laboratorio artistico, fondate entrambe sullo sguardo, la presenza, il contatto.

Così è grazie a Giorgio Agamben che esiste un dibattito tra didattica a distanza tutta teorica e mediata dagli schermi e una didattica in presenza, propria della filosofia ma anche dell’arte, dove il punto chiave sarà il modo in cui la diade docente-discente porrà le ‘attrazioni appassionate’ e l’amore che ne scaturisce per l’altro, la materia e le idee. In una parola sarà l’amore a salvarci, l’amore per lo studio, la filosofia, l’arte e l’altro, amore che necessita carne.