di: Antonio Caronia
Da più di un secolo la teoria della relatività di Einstein sembra aver unito indissolubilmente, più di quanto non avesse fatto Kant, lo spazio al tempo: l’idea che quest’ultimo fosse una “quarta dimensione” dello spazio fu, in fondo, una delle poche novità di quella teoria che filtrarono davvero nell’immaginario, se non addirittura nel senso comune.
E negli anni Venti del secolo scorso poca eco sembrarono avere le obiezioni di Henri Bergson, riluttante all’operazione di spazializzazione del tempo, che per lui rimaneva il “senso interno” per eccellenza, nella soggettività della “durata”. Ma oggi che il tempo si è trasformato in cibertempo, in tempo digitale – come lo spazio si è trasformato in ciberspazio – dobbiamo forse concludere che Bergson non aveva poi del tutto torto, e che il tempo resta in qualche misura irriducibile allo spazio, e per certi versi più “fondatore” dell’esperienza (anche di quella virtuale) di quanto non sia lo spazio stesso.
E tuttavia la rivoluzione digitale rimodella incessantemente anche le condizioni di equilibrio fra il sentimento interno del tempo e la sua oggettivizzazione sociale. Se è vero, dunque, che nel passaggio dalla prima alla seconda (o tarda) modernità il tempo sembra essersi “preso una rivincita” sullo spazio, ciò non significa affatto che si stia colmando lo iato fra tempo oggettivo e tempo soggettivo che segnò la nascita dell’epoca moderna: il “tempo reale” della comunicazione in rete non è affatto più sintonizzato col nostro senso della durata di quanto lo fosse il tempo precisamente scandito dagli orologi che fu una delle condizioni imprescindibili dell’età industriale. Caratteristica di questa età fu infatti una sorta di “temporalizzazione dello spazio”, attraverso la valorizzazione del concetto di velocità.
La riduzione della distanza, implicata dalla velocità sempre crescente dei mezzi di trasporto, portava con sé una capacità di apprezzare intervalli spaziali sempre minori, condotta tramite la misurazione degli intervalli di tempo impiegati a percorrerli. L’innovazione concettuale e pratica nei rapporti fra spazio e tempo (documentata da Stephen Kern) fu, tra il 1880 e il 1914-15, quella della simultaneità.
L’archetipo del giornale che avete tra le mani adesso, un grande foglio la cui organizzazione grafica rimanda a un peculiare intreccio spazio-temporale, fu La prosa del transiberiano e della piccola Giovanna di Francia (1913) che descrive il viaggio in ferrovia da Mosca a Charbin compiuto da Blaise Cendrars nel 1904. Sullo stesso foglio, con un solo colpo d’occhio, il lettore vedeva i “colori simultanei” di Sonia Delaunay, la mappa del viaggio e la narrazione poetica dello scrittore svizzero.
La simultaneità fu il nuovo concetto che dominò le tele dei pittori cubisti e futuristi come i campi di battaglia della prima guerra mondiale. Ma in questo nuovo paradigma il tempo aveva una funzione subordinata rispetto allo spazio: era il parametro che serviva a marcare le progressive contrazioni delle distanze, l’operazione principe della piena modernità, insieme strumento e simbolo della prima fase della globalizzazione, l’occupazione imperialista dello spazio da parte del capitalismo pienamente dispiegato.
Colonizzato lo spazio, il capitalismo della seconda fase globalizzata procede adesso all’occupazione del tempo, o tenta di farlo. Ecco perché oggi si invertono nell’immaginario i rapporti fra spazio e tempo. Se il tempo dell’orologio servì ad animare la prospettiva centrale che dal Rinascimento in poi strutturò il nostro senso dello spazio, oggi è il ciberspazio che serve da supporto alla nostra immagine e alla nostra percezione del tempo.
La simultaneità estesa a cui ci ha abituato la fase ascendente della modernità si coniuga oggi con il tempo reale della comunicazione in rete per restituirci un modello del tempo totalmente spazializzato. Il tempo è oggi “una superficie, una pelle, una iper-superficie”, come suggerisce de Kerckhove, in cui i vari attimi sono raggiungibili con un clic, con un’interruzione del tempo lineare e un salto che è sempre un salto in avanti (come ha osservato Antonio Tursi); il che contribuisce a farci esperire il tempo “come continuo futuro, anziché continuo presente”.
Che il nostro senso del tempo fosse stato alterato dall’espansione delle tecnologie digitali, d’altronde, avrebbe dovuto farcelo sospettare da tempo la questione del nuovo statuto dell’immagine nell’era digitale. L’immagine fotografica tradizionale, oltre alla stretta corrispondenza fra il soggetto rappresentato e l’impronta o la traccia della “cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi all’obiettivo”, per usare le parole di Roland Barthes, realizzava anche un peculiare senso del tempo.
La fotografia analogica, chimica, fissando per sempre un particolare istante, lo prolungava sino a noi anche se lo allontanava in maniera definitiva e radicale. Il senso del tempo che ne derivava era una solida presenza del passato all’interno del presente, un cristallizzarsi e un oggettivarsi della memoria, una garanzia di convocazione del passato presso il presente.
L’immagine digitale sconvolge alla radice tutta questa situazione: essa realizza una “radicale dissonanza ontologica” (Livraghi) con l’immagine analogica. Non solo viene meno la garanzia che l’immagine digitale sia una traccia fedele, l’impronta che ha lasciato un soggetto posto davanti all’obiettivo, dal momento che non sappiamo a quali modificazioni essa sia stata sottoposta, e possiamo sempre addirittura sospettare che essa sia totalmente sintetica e non corrisponda a nessun oggetto fisico, come quei paesaggi e quegli “attori virtuali” che da oltre dieci anni popolano i film realizzati con tecniche digitali.
Non solo questo, perché la continua e totale manipolabilità, trasformabilità, dell’immagine in formato digitale la rende particolarmente inadeguata a testimoniare l’irreversibilità del passato. Soprattutto quando una di queste immagini compare in rete, essa è inevitabilmente proiettata verso il futuro, sembra attendere e addirittura richiedere l’intervento che la modificherà, che la trasformerà in qualche cosa d’altro, sempre meno riconoscibile mano a mano che la manipolazione procede.
Nell’era del digitale l’immagine non è più icona, prodotto, ma simulacro, processo. Le immagini digitali sono solo “pattern recognition”, riconoscimento di modelli, come i misteriosi frammenti che circolano in rete (la “sequenza”) nell’omonimo romanzo di William Gibson. È questa processualità (discreta, non continua) che detronizza il presente, e cioè la dimensione del tempo predominante nell’età moderna, e lo trasforma in futuro, che è la chiave dell’esperienza temporale dell’età tardo-moderna.
Questo futuro immanente, va da sé, non ha più niente a che vedere con il futuro della modernità, che era una proiezione del presente del soggetto, un luogo da costruire con pazienza, sagacia e tenacia, nei tempi lunghi del lavoro e della progettualità. Esso assomiglia ora piuttosto a uno spasmo del presente, a un’anticipazione frenetica di processi che non si distendono più dal passato al presente e oltre, ma vivono sin dall’inizio perennemente proiettati in avanti.
“Non abbiamo futuro”, dice un personaggio di Gibson, “perché il nostro presente è troppo mutevole. Abbiamo solo rischi di gestione. La ricomposizione degli scenari a partire dai singoli eventi. L’individuazione di modelli”.
Sarà ironico, e qualcuno potrà pensare anche blasfemo, ma la migliore implementazione nel cibertempo del “tempo-ora”, lo Jetztzeit di cui parlava Benjamin (“La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di ‘tempoora’”), è oggi il ritmo scattante e vacanziero di Second Life [o dei Social Network, direbbe forse oggi l’Autore, N.d.R.], il primo mondo virtuale che sembra in grado di minacciare seriamente la First Life, la vita (per quanto tempo ancora?) sedicente reale. Ma il cibertempo è anche la sorda resistenza del free software verso il software proprietario, e quindi un’autogestione del tempo che cerchi di eludere le strettoie del processo di valorizzazione e dell’eterodirezione a cui mirano Microsoft e i content provider tradizionali della rete [oggi noti come G.A.F.A.M. – Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft, N.d.R.], anche nell’allettante e menzognera versione del Web 2.0.
Se nella fantascienza classica l’iperspazio fu una delle più pervasive metafore dell’espansione del capitale delle merci materiali nello spazio fisico e culturale, potremmo forse aver bisogno oggi di un ipertempo come metafora della contrazione, che è la principale tattica che il capitalismo immateriale dispiega oggi per la colonizzazione del tempo.
E potremmo anche aver bisogno di tattiche di resistenza, nella forma di “slittamenti temporali”, quelle fughe nel futuro e nel passato di cui ci parlava, quando ancora tutto questo si stava disegnando solo embrionalmente, Philip K. Dick nel suo romanzo del 1964, Martian Time-Slip. Per non farci trovare mai là dove si pensa che dovremmo essere per fare la nostra parte di agenti valorizzatori, di colonizzatori del tempo per conto terzi.
Pubblicato il: 10.11.2020
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita