Classe piccola, insegnamento grande


Tolleranza ed empatia possono essere fattori chiave di un processo formativo? Una riflessione intorno al saggio "Educando una Democrazia" dell'educatrice americana Debora Meier

di: Ruggero Poi, dal Journal di cittadellarte

Ruggero Poi

“Small School”, un modello scolastico per prendersi cura di sé e degli altri

 

In un suo articolo apparso su Rethinking school Deborah Meier (educatrice americana, fondatrice delle Small Schools Movement e direttrice della scuola alternativa di Central Park East, nell’East Harlem a New York) sottolineava come il cambiamento scolastico di cui avremmo bisogno non può essere intrapreso senza coinvolgere e convincere tutta l’organizzazione a cambiare. Ci vuole un grande sforzo e una grande motivazione per riuscire a scardinare le abitudini stratificate di intere vite professionali.
Se questo era vero prima della pandemia che ha chiuso da mesi le scuole, oggi ripensarla è più che mai possibile.

L’esperienza del movimento noto come ‘Small School’ potrebbe essere d’aiuto. Si tratta di una tra tante altre realtà che da oltre un decennio sperimentano vie alternative a un modello scolastico in affanno da più punti di vista, ma il dibattito legato al numero di alunni per classe, il ripensamento degli accessi alla scuola… rendono Small School quantomai contemporanea. Vediamo perché da quasi vent’anni esiste il movimento delle Small School in una delle più grandi metropoli del mondo, New York. Sottolineare l’ossimoro che si genera nell’avvicinare ‘small’ a ‘metropoli’ è necessario: la critica più facile alle riforme educative è proprio di non essere applicabile alle grandi realtà, di essere fenomeni nati in piccoli contesti, comunque troppo particolari. In tutti i campi le persone tendono a difendere il proprio piccolo interesse: la scuola non fa eccezione. Il cambiamento è difficoltoso perché bisogna superare la resistenza di amministratori e burocrazie costruite su un sistema standardizzato e gestibile senza coinvolgimenti, senza particolari attenzioni alle persone.
Per cambiare la scuola bisogna cambiare il nostro modo di pensare, gli abiti mentali, che sono i più difficili da dismettere proprio perché li diamo per assodati, intoccabili, essenziali. La scuola coinvolge le consuetudini di gran parte della società: gli insegnanti, i genitori, i nonni, gli studenti e i loro amici.

Un paese democratico dovrebbe legiferare perché in ogni scuola si alimenti la possibilità di prendersi cura di sé e degli altri. Oggi questo è un tema ancora più attuale.
Nel saggio intitolato Educando una Democrazia Meier descrive quello che lei considera essere “i tratti indispensabili di una società democratica: un alto grado di tolleranza per gli altri, ovvero una genuina empatia per gli altri, così come un alto grado di tolleranza per l’incertezza, l’ambiguità e la perplessità…“. Queste qualità empatiche e intellettuali dovrebbero essere al centro di una formazione che richieda “la responsabilità per le proprie idee, la tolleranza per le idee degli altri e la capacità di negoziare la differenza“. Per Meier “Le idee— i metodi per organizzare la conoscenza—sono gli strumenti di scambio della vita democratica, sono come il denaro usato al mercato”. Lo sviluppo delle idee, e di chi man mano coltiva queste idee, diventa la moneta corrente all’interno di una società democratica. Per questo Deborah Meier sostiene che la via più diretta per dare forza alla vita degli studenti e degli insegnanti, e alle loro idee, sia cambiare innanzitutto fisicamente la struttura delle scuole.
Osserva come “l’apprendimento per essere efficiente, efficace e duraturo, richiede innanzitutto l’impegno personale degli studenti e questo si basa sulle relazioni che si sviluppano tra le scuole e loro comunità di riferimento, tra gli insegnanti e gli studenti, tra gli studenti e l’oggetto dell’apprendere“.

Per questo ci vogliono Small School. Le scuole devono essere piccole affinché genitori e studenti possano essere testimoni della loro autonomia e responsabilità e per favorire un curriculum davvero legato alla vita e agli interessi che questa genera continuamente nei ragazzi. Per Meier non solo le scuole, ma anche le dimensioni delle classi devono essere riviste per poter decrescere. La riflessione richiede tempo. La collaborazione richiede tempo. Questo tempo non può essere quello della dimensione privata e domestica, ma va ricercato in classe. Per trovare il tempo per una discussione riflessiva e approfondita abbiamo bisogno di creare scuole in cui sia facile stabilire un consenso democratico, in cui sia possibile arrivare a una motivazione collettiva nell’affrontare argomenti che appassionino gli studenti e gli insegnanti. Servono materie di insegnamento che peschino e siano vicine alle esperienze di insegnanti e studenti, al di là delle regole e dei processi procedurali, delle elezioni e delle commissioni di nomina, dei codici disciplinari, della compilazione di moduli e liste di controllo, ecc…

Solo in una piccola scuola può esserci una discussione profonda, tale da produrre il cambiamento e coinvolgere l’intero corpo docente. Le scuole devono essere così piccole in modo che la gestione burocratica non blocchi il confronto importante sui temi dell’istruzione sulle domande di insegnamento e d’apprendimento.
Riportando la sua esperienza scolastica al Central Park East, Meier sottolinea come il non aver singoli comitati permanenti sia un vanto.
Se sorge un problema ci si può incontrare quasi senza preavviso, raccogliersi insieme in una stanza, intorno a un tavolo o un cerchio, e ascoltarsi a vicenda. Quello che emerge diventa subito operativo e va a influenzare immediatamente la vita di alunni, insegnanti e genitori.
Non c’è bisogno di strutture di governo complesse: i comitati dei comitati, i rappresentanti dei rappresentanti, la differenziazione del personale, le classi e le sottoclassi…

Tutto questo non si oppone direttamente alla scuola ‘tradizionale’, ma pone una lettura critica del senso della scuola e dei criteri che hanno costruito questo modello (un modello tra i tanti possibili) di scuola. I criteri guida di quello che si studia e ricerca dovrebbero essere le esigenze di una cittadinanza democratica, non i requisiti del mondo accademico, e come tale si modificano, si evolvono, se quella società è sana.
In questi due mesi in cui la gran parte degli insegnanti si è ritrovata davanti a uno schermo, collegata su Zoom, Skype, Meet ecc… le pareti della classe hanno smesso di esistere. I voti hanno perso di senso. Il modo di comunicare è cambiato. La relazione è cambiata. La comunità di riferimento si è trasformata. Forse lo sforzo necessario per cambiare la scuola ha già iniziato a lavorare. In fisica il lavoro si definisce come la forza che agisce su un oggetto causandone lo spostamento. Se la scuola inizierà a spostarsi, interrogandosi sulle priorità d’apprendimento, si sarà fatto un buon lavoro.

 

Questo articolo è precedentemente apparso su Journal di cittadellarte