Queste tecnologie sono qui per restare? – Jonathan Crary

Il complesso di internet è divenuto inseparabile dalla portata immensa del capitalismo 24/7 e dalla sua frenesia di accumulazione su scala globale

di: Jonathan Crary

Jonathan Crary – docente di Modern Art and Theory alla Columbia University e autore di saggi quali Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo (2013) e 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (2015) – con questo scritto critico, che prosegue il lavoro iniziato con il suo precedente libro, mette in relazione alcuni dei fondamentali problemi della società odierna, quali le disuguaglianze e il dissesto ambientale, con la forma impressa dal capitalismo digitale al modello di sviluppo planetario. La tesi espressa nella sua ultima opera Terra bruciata. Oltre l’era digitale verso un mondo postcapitalista (Meltemi Editore) è forte e per certi versi “indicibile”: la nostra celebrata “era digitale” non è altro che la disastrosa fase terminale del capitalismo globale, in cui a regnare sono la finanziarizzazione dell’esistenza sociale, l’impoverimento di massa, l’ecocidio e il terrore militare. L’autore smonta il pregiudizio secondo cui, per esempio, i social media possono essere uno strumento di cambiamento radicale e ci svela invece come le reti e le piattaforme delle multinazionali siano intrinsecamente incompatibili con una Terra abitabile e con le relazioni umane necessarie a costruire forme di esistenza egualitarie.
Ringraziamo l’editore per la possibilità concessa.

 

 

Se mai sul nostro pianeta avremo ancora un futuro vivibile e condiviso, si tratterà di un futuro offline, slegato dai devastanti meccanismi e sistemi del capitalismo 24/7. Qualunque cosa sia ciò che rimarrà del mondo, la rete, nel modo in cui la viviamo oggi, sarà diventata una parte marginale e fatiscente delle rovine sulle quali avranno potuto eventualmente edificarsi nuove comunità e nuovi progetti interumani. Se saremo stati fortunati, una breve epoca digitale sarà stata superata da una cultura materiale ibrida basata su vecchie e nuove modalità di vivere e lavorare in modo cooperativo.

In questo momento, nel mezzo di una crisi sociale e ambientale che diviene ogni giorno più intensa, cresce anche la consapevolezza che una vita quotidiana, oscurata a tutti i livelli dal complesso di internet, abbia ormai superato una soglia di irreparabilità e tossicità. Sempre più persone lo sanno o lo percepiscono, facendo tacitamente esperienza delle conseguenze rovinose di un tale modo di vivere. I dispositivi e i servizi digitali utilizzati ovunque dalle persone sono subordinati al potere di compagnie transnazionali, agenzie di intelligence, cartelli criminali e un’élite miliardaria e sociopatica. Per la maggioranza della popolazione del pianeta alla quale è stato imposto, il complesso di internet è il motore implacabile di dipendenze, solitudine, false speranze, crudeltà, psicosi, indebitamento, spreco di vita, corrosione della memoria e disintegrazione sociale. Tutti i suoi propagandati benefici sono resi irrilevanti o secondari dai suoi impatti lesivi e “sociocidi”.

Il complesso di internet è divenuto inseparabile dalla portata immensa, incalcolabile, del capitalismo 24/7 e dalla sua frenesia di accumulazione, estrazione, circolazione, produzione, trasporto e costruzione su scala globale. Comportamenti ostili alle possibilità di un mondo vivibile e giusto sono istigati da pressoché ogni singola caratteristica delle operazioni online. Alimentate da appetiti indotti artificialmente, la velocità e l’ubiquità delle reti digitali massimizzano l’incontestabile primato dell’ottenere, avere, bramare, risentirsi, invidiare; tutte cose che fanno avanzare il deterioramento del mondo, di un mondo all’opera senza sosta, senza più possibilità di riposo o recupero, soffocato dal calore e dai rifiuti che genera.

Il sogno tecnomodernista del pianeta come un colossale laboratorio di innovazione, invenzione e progresso materiale, continua ad attrarre schiere di difensori e apologeti. Gran parte degli innumerevoli progetti e industrie per l’energia “rinnovabile” è pensata per perpetuare il business as usual, per mantenere modelli devastanti di consumo, competizione e disuguaglianze crescenti. Politiche ambientali basate su strumenti di mercato, come il Green New Deal, sono assurdamente inutili, in quanto non fanno assolutamente nulla per disattivare l’insensata espansione dell’attività economica, l’uso superfluo di energia elettrica o le industrie globali dell’estrazione di risorse incitati dal capitalismo 24/7.

[…] Il filosofo Alain Badiou ha osservato che è a questo punto di apparente assenza di possibilità che emergono le condizioni per l’insurrezione: “Le politiche di emancipazione consistono sempre nel far sembrare possibile precisamente ciò che, dall’interno della situazione, si afferma essere impossibile”[1]. Le voci più rumorose a sostegno dell’impossibilità sono quelle di chi trae beneficio dalla perpetuazione del modo in cui stanno le cose, di chi prospera a causa del funzionamento ininterrotto di un mondo capitalistico. Questi sono tutti coloro che hanno una posta in gioco professionale, finanziaria o narcisistica nell’egemonia e nell’espansione del complesso di internet.

Come potremmo mai – domanderanno increduli – fare a meno di qualcosa dalla quale dipende ogni aspetto della nostra vita economica e finanziaria? Tradotta, questa domanda è di fatto: come potremmo fare a meno di uno degli elementi centrali della cultura e dell’economia tecnoconsumista che ha portato la vita sulla terra sull’orlo del collasso? Avere un mondo non dominato da internet, diranno, vorrebbe dire cambiare tutto. Sì, è esattamente così.

Qualsiasi sentiero possibile diretto verso un pianeta vivibile sarà molto più doloroso di quanto molti riconoscano o saranno disposti ad ammettere apertamente. Una fase cruciale della lotta degli anni a venire per una società equa consiste nella creazione di assetti sociali e personali che abbandonino il predominio del mercato e del denaro sulle nostre vite associate. Ciò significa respingere il nostro isolamento digitale, rivendicare il tempo in quanto tempo vissuto, riscoprire i bisogni collettivi e resistere ai livelli montanti di imbarbarimento, inclusi la crudeltà e l’odio che traboccano dall’online. Non meno importante è il compito di riconnettersi umilmente con ciò che resta di un mondo pieno di altre specie e forme di vita. Vi sono innumerevoli modi in cui ciò può avvenire e, seppur in modo silenzioso, gruppi e comunità in ogni parte del pianeta stanno già portando avanti alcuni di questi tentativi riparativi.

Sennonché, molti di coloro che comprendono l’urgenza della transizione a una qualche forma di ecosocialismo o di postcapitalismo di non-crescita, presumono, distrattamente, che internet e i suoi attuali servizi e applicazioni in qualche modo permarranno anche in futuro, e che continueranno a funzionare nel modo usuale a fianco degli sforzi per rendere il pianeta abitabile e ottenere un assetto sociale più egualitario.

Si tratta di un’erronea concezione anacronistica per la quale internet potrebbe semplicemente “passare di mano” come se fosse una rete di utility al pari delle telecomunicazioni della metà del Novecento, come Western Union o le stazioni radio o televisive, che, nell’ambito di una situazione economica e politica trasformata, potrebbero essere orientate verso impieghi differenti. Ma l’idea che internet possa funzionare indipendentemente dalle dinamiche catastrofiche del capitalismo globale rappresenta una delle molte stupefacenti illusioni di questa fase storica. Si tratta in realtà di due aspetti strettamente intrecciati, e la dissoluzione del capitalismo, quando avverrà, sarà anche la fine di un mondo guidato dal mercato e modellato dalle odierne tecnologie in rete. Certo, anche in un mondo postcapitalista vi saranno mezzi di comunicazione di massa, come ci sono sempre stati in ogni società, ma assomiglieranno ben poco alle reti finanziarizzate e militarizzate nelle quali ci troviamo impigliati oggigiorno.

I numerosi dispositivi e servizi digitali che utilizziamo attualmente sono resi possibili dall’esacerbazione illimitata della disuguaglianza economica e dal deturpamento accelerato della biosfera terrestre, indotto dall’estrazione di risorse e dal consumo superfluo di energia.

Il capitalismo è sempre stato una congiunzione tra un sistema astratto di valore e la materializzazione fisica e umana di tale sistema; tuttavia, con le odierne reti digitali assistiamo a una più completa integrazione tra i due elementi. Tutti i telefoni, laptop, cavi, supercomputer, modem, server farm e celle radio sono concretizzazioni dei processi quantificabili del capitalismo finanziarizzato. La distinzione tra capitale fisso e capitale circolante diviene permanentemente sfocata. Ciò nonostante, in tanti rimangono attaccati all’immagine fallace di internet come di un assemblaggio tecnologico autonomo, come un mero insieme di strumenti, e la prevalenza di dispositivi portatili amplifica questa illusione[2].

All’inizio degli anni Settanta, il critico sociale Ivan Illich sviluppò un’ampia definizione di strumento, che includeva ogni “mezzo […] nato dall’attività costruttrice, organizzatrice o razionalizzante dell’uomo”. Gli strumenti, scriveva, sono intrinsecamente sociali, ed egli li valutava in rapporto a un’opposizione fondamentale: “A seconda che io lo padroneggi o che viceversa ne sia dominato, lo strumento mi collega o mi lega al corpo sociale”[3]. Illich affermava che le persone traggono felicità e soddisfazione dall’utilizzare strumenti che sono “meno controllabili da altri” e avvertiva che “la crescita dell’attrezzatura al di là di certe soglie critiche non fa che produrre uniformazione regolamentata, dipendenza, sopraffazione e impotenza”.

Alla fine degli anni Novanta, pochi anni prima della sua morte, egli notava la scomparsa della tecnica in quanto mezzo rivolto a un fine, quale strumento attraverso cui un individuo poteva investire il mondo di significato. Illich, al contrario, vedeva il diffondersi di tecnologie nelle quali le persone sono integrate nelle loro stesse regole e operazioni. Le azioni che una volta erano almeno parzialmente autonome divengono ora comportamenti “di adattamento al sistema” (system-adaptive)[4]. In questa realtà storicamente senza precedenti, qualsiasi obiettivo o fine da noi perseguito cessa di essere qualcosa che abbiamo veramente scelto.

Nonostante tutta la sua novità storica, il complesso di internet costituisce un’apoteosi e un consolidamento di assetti già operativi o parzialmente realizzati da molti anni. Lungi dall’essere un apparato monolitico, internet è un patchwork di elementi provenienti da epoche diverse e costruiti per una varietà di fini differenti; alcuni di questi elementi possono essere ricondotti ai sistemi ideati da Edison e Westinghouse negli anni Ottanta dell’Ottocento, poi usurpati da J.P. Morgan, per monetizzare i flussi di elettricità. Oggi siamo testimoni dell’atto finale della nostra follia, di un progetto incendiario di un mondo totalmente connesso, della sconsiderata convinzione che la disponibilità di elettricità 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 per un pianeta di otto miliardi di persone si potesse ottenere senza le conseguenze disastrose che ora si stanno presentando ovunque.

La quasi istantaneità della connettività di internet la rende una realizzazione perfetta della previsione di Marx di un mercato globale (Weltmarkt). Egli aveva visto l’inevitabilità di un’unificazione capitalista del mondo, nella quale i vincoli alla velocità di circolazione e di scambio sarebbero progressivamente venuti meno in virtù dell’“annullamento dello spazio per mezzo del tempo”[5]. Marx aveva compreso che lo sviluppo di un mercato mondiale avrebbe portato necessariamente alla “dissoluzione della comunità” e di qualsiasi relazione sociale indipendente dalla “tendenza universalistica del capitale”. Pertanto, sebbene ai nostri giorni si presenti in modo più pervasivo, l’isolamento associato ai media digitali si pone in continuità con la frammentazione sociale prodotta dalle forze istituzionali ed economiche nel corso di tutto il XX secolo.

Le specifiche forme materiali dei media possono mutare, ma la medesima esperienza sociale di separazione, depotenziamento e disgregazione della comunità, non solo persiste, ma si intensifica. Il complesso di internet è divenuto rapidamente parte integrante dell’austerità neoliberale, nella sua costante erosione della società civile e nella sostituzione delle relazioni sociali con dei loro simulacri online monetizzati. Esso promuove la convinzione di non essere più dipendenti gli uni dagli altri, l’idea per la quale siamo amministratori autonomi delle nostre vite, che possiamo gestire le nostre amicizie nella stessa maniera in cui gestiamo i nostri conti online. Intensifica inoltre quella che la teorica sociale Elena Pulcini ha definito l’“apatia narcisistica” di individui svuotati del desiderio per la comunità, che vivono nella passiva conformità all’ordine sociale esistente[6].

A partire dalla fine degli anni Novanta, ci siamo sempre sentiti ripetere che le tecnologie digitali dominanti erano “qui per restare”. La narrazione principe dell’ingresso del mondo civilizzato entro l’“era digitale” promuove l’illusione di un’epoca storica, le cui determinazioni materiali si collocano al di là di qualsiasi possibile intervento o alterazione. Una delle conseguenze è stata l’evidente naturalizzazione di internet, che molti di noi assumono ormai essere un qualcosa di immutabilmente installato sul pianeta. Le numerose mistificazioni delle tecnologie digitali celano tutte la loro inscindibilità dai fallimentari stratagemmi di un sistema globale in crisi terminale. Si parla assai poco di come la finanziarizzazione di internet poggi intrinsecamente su un’economia mondiale fragile come un castello di carte, già vacillante e ulteriormente minacciata dai molteplici impatti del riscaldamento planetario e del collasso delle infrastrutture.

Le originarie pretese riguardo alla permanenza e ineluttabilità di internet hanno coinciso con l’avvento delle varie celebrazioni della “fine della storia”, nelle quali il capitalismo globale di libero mercato era dichiarato trionfante, senza rivali e destinato al dominio perpetuo. Sebbene, in termini geopolitici, la bolla di questa narrazione fantasiosa sia rapidamente scoppiata nei primi anni Duemila, internet sembrò convalidare il miraggio di una condizione poststorica. Esso sembrò introdurre una realtà uniforme e comunemente accettata, definita dal consumo, scollegata dal mondo fisico e dai suoi montanti conflitti sociali e disastri ambientali.

L’avvento del social media, con tutte le sue apparenti opportunità di autoespressione, ha suggerito per un breve periodo il compimento di una versione deteriore dell’orizzonte hegeliano di autonomia e riconoscimento per tutti. Adesso, però, divenuto una componente essenziale del capitalismo del XXI secolo, tra le funzioni chiave di internet troviamo il deterioramento della memoria e l’assorbimento delle temporalità vissute; non tanto la fine della storia, quanto piuttosto il suo divenire irreale e incomprensibile. La paralisi del ricordo si realizza tanto a livello individuale quanto a quello collettivo: lo vediamo nella caducità di qualunque artefatto “analogico” una volta che si sia passati alla sua versione digitale: invece di essere preservato, il suo destino è quello di cadere nell’oblio, mai più notato da nessuno. In modo analogo, la nostra stessa sostituibilità si riflette nei nostri dispositivi di autodefinizione, che divengono rapidamente inutili pezzi di spazzatura digitale.

I reali assetti supposti essere “qui per restare” dipendono dall’effimero, dalla scomparsa e dall’oblio di tutto quanto vi è di durevole o duraturo e che possa richiedere impegni condivisi. Alla fine degli anni Ottanta, Guy Debord osservò la pervasività di queste forme di temporalità: “Quando l’importante si fa riconoscere socialmente come ciò che è istantaneo e lo sarà ancora nell’istante successivo, altro e identico, e che sarà sempre sostituito da un’altra importanza istantanea, possiamo anche dire che il metodo usato garantisce una sorta di eternità di questa non importanza, che parla così forte”[7].

 

 

1. A. Badiou, Ethics: An Essay on the Understanding of Evil, Verso, London 2012, p. 121; tr. it. di C. Pozzana, Etica. Saggio sulla coscienza del male, Cronopio, Napoli 2006 [citazione non presente nell’edizione italiana, N.d.T.].

2. Per un’analisi della “dimensione del nostro fallimento nel percepire la dimensione politica della tecnologia”, vedi A. Hornborg, Technology as Fetish: Marx, Latour, and the Cultural Foundations of Capitalism, in “Theory, Culture and Society”, vol. XXXI, 2014, pp. 119-140.

3. I. Illich, Tools for Conviviality, Harper and Row, New York 1973, pp. 20-21; tr. it. di M. Cucchi, La convivialità, RedEdizioni, Como 1993, pp. 40-41.

4. Vedi J. Robert, Energy and the Mystery of Iniquity, in L. Hoinacki, C. Mitcham (a cura di), The Challenges of Ivan Illich, SUNY Press, New York 2002, p. 186.

5. K. Marx, Grundrisse, Vintage, New York 1973, p. 539; tr. it. di. G. Backhaus, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica. Grundrisse, Manifestolibri, Roma 2012, p. 366. Vedi anche A. Negri, Marx Beyond Marx, Autonomedia, New York 1992, pp. 120-121; ed. it. Marx oltre Marx. Quaderni di lavoro sui Grundrisse, Manifestolibri, Milano 2010, pp. 157-160.

6. E. Pulcini, The Individual without Passions, Lexington Books, Lanham 2012, pp. 129-130; ed. or. L’individuo senza passioni. Individuo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 168-173.

7 G. Debord, Comments on the Society of the Spectacle, Verso, London 1990, p. 15; tr. it. di F. Vasarri, Commentari sulla società dello spettacolo, in La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 2019, p. 243.