di: Francesca Santolini
Dall’attuale modello di sviluppo emerge un paradosso: le popolazioni che subiscono maggiormente le conseguenze del riscaldamento globale sono quelle che meno hanno contribuito a creare il fenomeno. Tanto per avere un’idea, mentre un abitante degli Stati Uniti emette più di 16 tonnellate di CO2 ogni anno, in Etiopia le emissioni sono solo 0,1 tonnellate pro capite.
A questa disuguaglianza di emissioni si aggiunge una disuguaglianza degli impatti; non che i Paesi industrializzati ne siano risparmiati, ma sono i paesi più poveri e meno responsabili dell’attuale situazione climatica a subirne gli impatti più distruttivi.
Non parliamo quindi solamente di cambiamento climatico, ma di cambiamento climatico in un mondo ingiusto e disuguale. Nei Paesi in via di sviluppo, il livello di protezione e resilienza nei confronti dei fenomeni climatici estremi è molto inferiore. Negli Stati Uniti il 91% degli agricoltori ha un’assicurazione in caso di fenomeni meteorologici estremi, rispetto al 15% dell’India e dell’1% del Malawi.
Le conseguenze del riscaldamento globale sulla povertà e i diritti umani di base saranno un fattore di devastazione sistemica e creeranno nuove sacche di povertà. Per questo, si evoca il concetto di “apartheid climatica”, mentre le nazioni ricche riusciranno a difendersi dal surriscaldamento, dalla fame e dai conflitti, il resto del pianeta si troverà senza difese.
La giustizia climatica è un principio rivoluzionario perché integra una nozione giuridica innovativa, come il diritto delle generazioni future. Un cambiamento strutturale del modello di sviluppo, al centro del quale deve essere rimesso l’intero genere umano. Di oggi e di domani.
Pubblicato il: 25.11.2020
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