di: Stavros Stavrides
Il mondo urbanizzato contemporaneo è dominato da interessi organizzati intorno all’estrazione di profitto. Gli ambienti urbani, le città contemporanee, e soprattutto le metropoli, sono importanti fattori che sostanziano gli interessi dominanti di banche, corporation, imprese statali, complessi industriali e società commerciali. Una variegata geometria di relazioni gerarchiche tra questi interessi organizzati getta la sua ombra sulla quotidianità, dominando le trasformazioni spaziali della città.
Dobbiamo allora dire che le città contemporanee sono state ridotte a semplici strumenti di una complessa articolazione di relazioni di potere finalizzata all’estrazione di profitto da ogni attività che vi si svolge? Dobbiamo concludere che la vita della città è definitivamente ridotta a un riflesso del capitalismo predatorio nella sua fase liberista o post-neoliberista contemporanea?
[…] Se il termine commoning [“l’atto del mettere in comune”, NdT], relativamente nuovo, possa svolgere un ruolo in questa prospettiva, è ciò che andremo a verificare: gli abitanti della città, ci chiediamo, saranno in grado di scoprire dentro – e spesso contro – le attuali forme dell’ordine urbano, opportunità per appropriarsi di spazi, per creare o addirittura inventare spazi condivisi e pratiche abitative basate sulla cooperazione? Le pratiche di commoning saranno in grado di rimettere in discussione i significati, gli interessi e i valori della civiltà urbana? Nella lotta contro governi corrotti, politiche ingiuste e sfruttamento quotidiano, la gente comune sarà capace, non solo a chiedere ciò di cui necessita, ma anche di organizzare attivamente la vita in comune?
[…] Considerati come diversi sia dagli spazi pubblici che quelli privati, gli spazi comuni emergono nella metropoli contemporanea come luoghi aperti all’uso pubblico, nei quali però le regole e le forme di utilizzo non dipendono e non sono controllate da un’autorità pubblica: è attraverso pratiche di commoning, cioè pratiche che definiscono e producono beni e servizi da condividere, che certi spazi nella città diventano effettivamente comuni.
Le pratiche di commoning producono soprattutto nuove importanti relazioni tra le persone: incoraggiano incontri creativi e una serie di negoziazioni in grado di strutturare forme di condivisione che danno forma alla vita in comune. Tali pratiche non si limitano a produrre o distribuire beni, ma essenzialmente creano nuove forme di vita sociale, forme di vita in comune: ecco perché possono essere sia proiettive (accennando a possibili forme di vita in comune a venire), sia espressive (cercando di attirare l’attenzione sui valori condivisi da coloro che partecipano ai processi comuni) sia esemplari (stabilendo relazioni sociali che superino i limiti imposti dai modelli dominanti di socialità). È in questo modo che lo spazio comune può essere considerato come un insieme di relazioni spaziali prodotte da pratiche di commoning.
Ci sono tuttavia due modi distinti in cui queste relazioni possono venire organizzate: o come un sistema chiuso, che circoscrive esplicitamente lo spazio condiviso all’interno di un perimetro definito, e che corrisponde a una specifica comunità di commoners [“coloro che mettono in comune”, NdT], o come una rete aperta di passaggi attraverso cui comunità emergenti e aperte comunicano e si scambiano beni e idee. In questo libro cercheremo esplicitamente di collegare il commoning ai processi di apertura: apertura della comunità di coloro che condividono mondi comuni, apertura delle cerchie di condivisione per includervi i nuovi arrivati, apertura delle relazioni di condivisione a nuove possibilità attraverso un ripensamento delle regole di condivisione e, infine, apertura dei confini che definiscono gli spazi di condivisione. In opposizione a questi livelli, a queste pratiche e regole (o, più precisamente, a queste istituzioni) di condivisione stanno le regole, le pratiche e le istituzioni dell’organizzazione sociale capitalista, che promuove sistematicamente una “desocializzazione del comune” (Hardt e Negri 2009, p. 258).
Questa desocializzazione capitalista non si basa solo sull’appropriazione da parte del capitale (considerato come rapporto sociale e non solo come denaro) di ciò che il commoning produce, ma anche su una strategia generale di recinzione (De Angelis 2004, Midnight Notes Collective 1990). Quest’ultimo termine evoca l’immagine della recinzione di un’area – immagine spaziale, senza dubbio; ma la recinzione capitalistica dei commons non è solo un processo di perimetrazione di aree di produzione o di definizione dell’uso di certi beni e risorse, bensì soprattutto un processo di ostruzione di quelle pratiche di commoning che tendono alla condivisione aperta: cooperazione autogestita aperta ai nuovi arrivati, produzione di sapere non limitata a coloro che hanno un capitale culturale per fruirne o per finanziarlo, feste ed eventi gioiosi che non separano i consumatori dagli artisti, e così via. […] Nello spazio e attraverso di esso, le strategie dominanti di cattura, limitazione, comando e appropriazione capitalistica si trovano di fronte un insieme di tattiche disperse di resistenza che sfidano, distruggono o disfano i limiti delle recinzioni, letterali o metaforiche che siano.
Il commoning è un processo plasmato dall’antagonismo sociale, che spesso porta a risultati storicamente contingenti e ambigui: come abbiamo detto, esso può trovarsi confinato entro i limiti di una specifica comunità che cerca esplicitamente di tenere i vantaggi derivanti da ciò che viene prodotto in comune solo per i propri membri. In questo caso possiamo dire che il commoning è richiuso su di sé, anche se la distinzione tra recinzione e commoning come poli antitetici rimane teoricamente valida e importante.
Questo è il motivo per cui, come vedremo, la recinzione fisica o simbolica dello spazio comune può segnalare la morte di un reale commoning: uno spazio comune definito attraverso atti di recinzione può infatti diventare, vuoi spazio “collettivamente privato” – come, per esempio, le aree verdi di una gated community – vuoi spazio pubblico gestito da autorità che agiscono in nome di una comunità – come, per esempio, lo spazio di un parco comunale o di una piazza cittadina. Entrambe queste forme di spazio comune chiuso tendono a corrompere il comune e a bloccare le potenzialità di liberazione delle pratiche di commoning. Solo uno spazio comune ampliato, o aperto, può al contrario esprimere pienamente il potere del commoning di creare nuove forme di vita-in-comune e una più ampia cultura della condivisione.
Vedremo come la spazialità della soglia, una spazialità di passaggi che collega separando e separa collegando, sarà cruciale per questi spazi prodotti attraverso il commoning. Le soglie si presentano certo come confini che separano un interno da un esterno, come per esempio nel caso della soglia di una porta; ma questo atto di separazione è sempre anche un atto di connessione. In questo modo, le soglie creano le condizioni di ingresso e di uscita, prolungano, manipolano e danno senso a un atto di passaggio: per questo in molte società esse sono contraddistinte da rituali che tentano di controllare le potenzialità intrinseche dell’attraversamento. Dèi e spiriti guardiani abitano sulle soglie perché l’atto del passaggio è già un atto che porta a una potenziale connessione di interno ed esterno. Entrare può essere preso come un’intrusione, uscire può trasmettere lo stigma dell’ostracismo.
Considerare gli spazi comuni come spazi di soglia apre alla possibilità di studiare pratiche di commoning spaziale che trascendono le recinzioni e accolgono sempre nuovi commoners.
Esplorando come si può ampliare il commoning […] ci mettiamo alla ricerca di esempi di pratiche ed esperienze in grado rivelare le sue potenzialità emancipatrici in relazione allo spazio.
L’inventiva collettiva fiorisce nella produzione e nell’uso degli spazi di soglia. Il modo in cui tali spazi vengono utilizzati, attraverso continue negoziazioni, rende possibili proficui confronti tra identità emergenti: le comunità capaci di abitare le soglie sono quindi sempre comunità-in-divenire.
Confrontandoci con l’importante discussione sulle forme contemporanee della soggettivazione politica […] cercheremo di dimostrare che il comune, inteso come creazione di veri spazi di commoning, comporta processi di soggettivazione che non producono identità collettive chiuse. Ci sembra che, nelle loro diverse teorizzazioni sulla soggettivazione politica, autori come John Holloway, Michael Hardt, Antonio Negri e Jacques Rancière condividano un orizzonte comune: si tratta dell’idea che i soggetti dell’azione politica oggi non possano emergere che sfidando, perturbando o addirittura smantellando le tassonomie sociali dominanti e le corrispondenti identità consolidate.
In questo processo, lo spazio urbano contemporaneo, che necessariamente esprime e riproduce queste tassonomie dominanti, diventa elemento principale di trasformazione attraverso l’azione collettiva. La spazialità della soglia, in particolare, ci sembra in grado di infiltrarsi nell’ordine spaziale dominante in modo analogo alle “non-identità” (Holloway 2002), ai “nuovi arrivati” (Rancière 2010) e alle “singolarità” sociali (Hardt e Negri 2009). In questo libro ci proponiamo di esplorare le interconnessioni tra i processi di trasformazione spaziale e i processi di soggettivazione politica, concentrandosi soprattutto sulle esperienze socio-spaziali che rivelano le potenzialità insite nella vita metropolitana contemporanea.
Traendo spunto da ricerche incentrate sugli spazi abitati (come gli alloggi sociali, o gli usi quotidiani delle strade metropolitane e le piazze occupate), cercheremo di dimostrare che lo spazio comune è una produzione della creatività collettiva innescata, vuoi da necessità quotidiane urgenti, vuoi dall’effervescenza di esperimenti collettivi: come è avvenuto negli insediamenti autogestiti dei movimenti di senzacasa in America Latina, negli accampamenti delle piazze occupate della Primavera Araba, nelle iniziative che rivendicano e trasformano lo spazio pubblico, nella gestione di squat e nella creazione di centri di quartiere, o infine in tutti gli eventi reclaim the city spesso collegati alle lotte anti-gentrificazione.
Questi spazi comuni, immaginati o evocati attraverso gesti espressivi, svolgono un ruolo importante nel plasmare pratiche di commoning dello spazio. Le spazialità del commoning emergono infatti come immagini in grado di scatenare pensiero e inventiva: si tratta di sviluppare sempre nuovi modi per pensare, immaginare ed esprimere le caratteristiche dello spazio comune, inventando forme di condivisione dello e nello spazio.
Cercheremo di affrontare una questione cruciale: cercando l’emancipazione collettiva, la politica dissidente sarà in grado di sfuggire alla trappola dell’immagine dell’enclave liberata,
per scoprire invece il potere insito in una concezione degli spazi comuni come soglie? Crediamo di sì – quantomeno se si prova a ripensare al comune attraverso immagini che non intrappolino il futuro in progetti urbani utopici di armonia sociale.
Il commoning dello spazio non indica semplicemente la condivisione dello spazio considerato come risorsa o bene, ma significa un insieme di pratiche e immaginari inventivi che esplorano le potenzialità emancipatrici della condivisione. Lo spazio comune è sia un prodotto concreto di istituzioni di condivisione sviluppate collettivamente, sia uno dei mezzi cruciali attraverso cui queste istituzioni prendono forma e formano coloro che le plasmano.
Esperienze di commoning spaziale emergono oggi in molti posti nel mondo, vuoi in modo latente vuoi in modo esplosivo.
Non avrei iniziato a sviluppare una prospettiva teorica sullo spazio comune se non avessi avuto l’opportunità di condividere alcune di queste esperienze. Sono fermamente convinto che dobbiamo imparare da queste esperienze per sviluppare con attenzione generalizzazioni e proposte teoriche.
Pubblicato il: 09.05.2023
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita