di: Vittorio Giacopini
Verso la fine, ormai che era ai ferri corti un po’ con tutti, preferiva andare diritto al bersaglio, provocare. Magari non era nella sua natura, ma doveva farlo. A neanche sessant’anni, con un paio di capolavori all’attivo, e ancora molto da dire, e da studiare, Christopher Lasch stava diventando la bestia nera di un sacco di gente.
D’altronde, era anche una questione personale, cioè di vita o di morte. Il cancro, che credeva di aver sconfitto, era tornato, e non si voleva curare […].
«Ci sono destini peggiori della morte» aveva scritto in quegli anni quel genio di Kurt Vonnegut, e Lasch era più che d’accordo, ci mancherebbe. Al medico che lo seguiva scriverà un’ultima lettera al vetriolo, quasi un testamento: «Disprezzo a tal punto quest’attaccamento alla vita, alla pura sopravvivenza, che sembra così profondamente incistato nell’anima americana…». […] In La cultura del narcisismo (il suo capolavoro, uno dei libri più geniali della critica sociale del Novecento) aveva messo alle strette esattamente questa tendenza ottusa e autocommiseratoria alla pura self-preservation, cioè al vivere inseguendo bisogni e pulsioni da poco, stimoli fiacchi. Sia chiaro: non era un moralista, ma era sempre appassionato, e poi era lucido. Ai «narcisi» postmoderni non rimproverava chissà quale ipertrofia dell’ego, piuttosto il contrario, perché il nodo per lui non era tanto l’individualismo ma proprio l’insussistenza ridicola di questi «Io» garruli e autocompiaciuti, drammaticamente senza personalità, e senza carattere […]. Nello scollamento tra élite e popolo, Lasch vedeva uno snodo epocale e un micidiale agente di distruzione, e di irrilevanza. La sua non era una critica politica-politica ma di portata più ampia, sconsolatissima. Il guasto, temeva, riguarda sia le scelte governative, sia la vita quotidiana, sia la vita activa, sia la vita della mente, e non c’era scampo […].
L’opposizione tra élite e popolo, o tra classi dirigenti e «masse» (e c’è differenza), dei suoi ultimi lavori riecheggiava un classico grande dibattito del secondo dopoguerra dove il tema della «cultura» – quale cultura e cultura di chi? cultura per chi? – aveva segnato il dibattito americano per oltre un decennio. Elitisti contro paternalisti; difensori della cultura alta contro populisti e condiscendenti ben piazzati del divertimento e del panem et circenses; illuminazione dei «felici pochi» contro le manovre inarrestabili e polipesche di un’industria culturale che funziona al tempo stesso da gran baraccone delle Merci e subdola macchina del consenso che tutto manipola.
Non essendo né un sociologo allo stato puro, né un politologo, sin dall’inizio aveva scelto un terreno intermedio, e oggi potremmo definirlo uno storico della mentalità o semplicemente un critico della politica e della cultura. E da questa prospettiva – o da questo margine – aveva colto lo choc profondo mascherato da quel dibattito che girava a vuoto. In quegli scambi d’accuse, in quelle diatribe, echeggiava un trauma più profondo, pesantissimo, che metteva in questione la stessa democrazia, né più né meno. Se la cultura dei ricchi e quella dei poveri, se la cultura alta e la cultura di massa non coincidono, salta la premessa chiave dell’autocoscienza americana: l’idea – canonizzata da Dewey a inizio Novecento e data sostanzialmente per scontata – che democrazia e educazione vadano inevitabilmente di pari passo, e che maggior democrazia equivalga a maggior e miglior cultura per un numero sempre maggiore di persone sempre migliori, ovvero più informate, più consapevoli […]. Lucidamente, Lasch capiva che non si trattava di difendere questo o quel polo del confronto; il dilemma non riguardava affatto la cultura alta contro la cultura pop. Il nodo era un altro. «La crescita di un mercato di massa che distrugge la privacy, scoraggia l’autosufficienza e produce dipendenza dai consumi per la soddisfazione dei propri bisogni» non può essere più valutata in termini di maggior o minor democrazia, e il punto non sta nella maggior o minor autenticità o pregio o nobiltà dei prodotti culturali che in questa situazione circolano, si impongono all’attenzione, hanno successo. «Più che alla democratizzazione della cultura, siamo di fronte alla sua completa assimilazione alle esigenze del mercato».
È un’analisi fredda, senza moralismi. Lasch scrive da americano, e scrive dell’America, ovviamente: questa completa omogeneizzazione-integrazione dentro uno schema di mercato per lui è anche la fine del melting pot, cioè un punto di non ritorno, un punto e a capo. E pluribus unum: il motto virgiliano che appare nello stemma degli States rischia di realizzarsi nel modo più traumatico e avvilente con l’annullamento di tutte le specificità, le idiosincrasie, le differenze, le ricche peculiarità di un paese creato da genti e culture e tradizioni diverse ora centrifugate dentro un unico modello dominato dal mercato e dai consumi, dentro la merce […]. E insomma, questo è il tema di Lasch, la sua paura: il guaio non è la contrapposizione (di maniera) tra cultura alta e cultura bassa: la questione riguarda proprio i «volti della folla nelle strade». Che tipo di persone siamo? Che tipo di persone – o non-persone – stiamo diventando?
«Dobbiamo dare forza alle emozioni, all’immaginazione, ai sentimenti morali, al primato dell’essere umano individuale, dobbiamo ristabilire l’equilibrio che è stato rotto dall’ipertrofia della scienza negli ultimi due secoli. La radice è l’uomo, qui e non altrove, adesso e non più tardi». Nel 1946, a neanche un anno dalla fine della guerra e dalle atomiche di Roosevelt sul Giappone, Dwight Macdonald lanciava un messaggio in bottiglia alla sinistra. The Root is Man, e «adesso e non più tardi»: aveva fretta. La radice è l’uomo: la frase, bellissima, è del giovane Marx dei Manoscritti, e Macdonald ne fa addirittura un programma, sovversivo. La sua è una lezione libertaria – molto lucida – e un tentativo di rompere con tutta una tradizione, ormai inservibile. Quel saggio sarebbe stato fondamentale per pochi ribelli, con una causa (la «politica dell’autenticità» evocata dal Manifesto di Port Huron gli deve molto), ma è dubbio che le sinistre mondiali ne abbiano intuito la forza, e il paradosso. Ripartire dal soggetto individuale, dalle emozioni. La formula è ineccepibile ma ambigua […]. Quarant’anni dopo l’uscita (semiclandestina) di The Root is Man, quando Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch si incontrano per un dibattito negli studi della bbc, la percezione che il «guasto» sia esattamente all’altezza – e all’interno – del soggetto appare acquisita. La cultura dell’egoismo (elèuthera, 2014) – la trascrizione di quell’incontro – fotografa, con perfetta messa a fuoco, un imbarazzo. Il contesto è quello del thatcherismo e del reaganismo trionfanti (la sconfitta dei minatori britannici è evocata nel dialogo più volte), ma il nodo che Lasch e Castoriadis neanche provano a sciogliere è più imbrogliato.
La fine delle grandi visioni politiche, delle Utopie, la «disgregazione del movimento operaio e del progetto rivoluzionario a esso collegato» è andata di pari passo – o è stata anticipata sul filo di lana – da un più estremo «cambiamento negli individui» (Castoriadis). Si è aperta una stagione diversa, del tutto inedita. È il tempo del «narcisismo», dell’Io minimo (Lasch), il basso orizzonte che segna la colonizzazione del soggetto, l’esaurimento di ogni schema profondo di «autonomia» (Castoriadis). Lo psicoanalista e il sociologo sono d’accordo: «Quello che abbiamo di fronte non è tanto un individualismo vecchio stampo… quell’individualismo sembra cedere il passo a un ripiegamento in se stessi» (Lasch). E il guaio è che «questo vale tanto per l’individuo quanto per la società nel suo insieme» (Castoriadis). L’esito è uno stallo paralizzante: l’io trionfa e insieme dilegua, mentre il mondo esterno, ridotto a puro flusso di merci e consumi, assume «un carattere allucinatorio, fantasmatico, irreale» (Lasch) […]. Ma non ci sono proposte, soluzioni. Lasch e Castoriadis condividono più che altro un disagio, e un imbarazzo. La cultura dell’egoismo è un sintomo interessante anche per questo. Al silenzio progettuale della politica risponde l’inservibilità della «coscienza». Si è aperta una fase segnata dall’assenza simultanea della comunità e dell’individuo e non potrebbe esserci scenario più inquietante. Ai falsi movimenti del presente, viene naturale contrapporre un passato già remoto – una preistoria – ma i ricorrenti, nostalgici, accenni all’antica Grecia non sembrano convincenti, suonano a vuoto. La «visione aristotelica» di una ricca vita sociale, politica e morale («una vita morale è una vita vissuta in pubblico») consente di leggere nel presente con acutezza, ma non indica percorsi da seguire o soluzioni. Limpidamente, Castoriadis lega la dissoluzione del «mondo pubblico» al tramonto di quel che Hegel definiva «riconoscimento e i Greci chiamavano kléos e kûdos». Ma il dileguare assoluto di questo schema non sembra compensabile con ricette politiche e sociali tradizionali. La questione centrale resta inevasa: «Che genere di individuo possiamo inventare? Che genere di teoria politica possiamo cominciare a costruire?».
Lasch e Castoriadis, d’altronde, lo sanno bene. Gli individui «non si inventano» (e la politica la inventano gli individui, d’altra parte, quando possono farlo, se possono). Per entrambi era il momento di fare punto e a capo, girare pagina (ma il loro imbarazzo di ieri è ancora il nostro). Negli anni successivi Lasch si ostinerà a ricostruire scenari di comunità, di vita in comune, innestando sulla tradizione repubblicana del «momento machiavelliano» un populismo liberato da gravami reazionari troppo retrivi (Il paradiso in terra, Neri Pozza, 2016). L’impresa era destinata alla scacco, senza rimedio, e i suoi ultimi lavori sul tradimento delle élite (La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, 1997) restano un viatico essenziale, pur se impotente. Quanto a Castoriadis, bloccato agli «incroci del labirinto», proverà a muoversi ancora nel segno del «qui e adesso» di Macdonald (o di Paul Goodman). Per quanto sembri un percorso senza uscita, tocca ancora provare a partire – o a ripartire – dal soggetto. Forse un seme sotto la neve si è conservato: «Una trasformazione radicale della società, se è possibile, e credo profondamente che lo sia, potrà essere operata soltanto da individui che vogliono la loro autonomia, su scala sociale come a livello individuale. Di conseguenza, lavorare a preservare e ad ampliare le possibilità di autonomia e di azione autonoma, così come lavorare per favorire la formazione di individui che aspirano all’autonomia è già fare opera politica: un’opera i cui effetti sono più importanti e durevoli di certe forme di agitazione sterile e superficiale» (La rivoluzione democratica, elèuthera, 2022).
Pubblicato il: 09.11.2022
Articoli, approfondimenti, notizie ed eventi di Accademia Unidee della Fondazione Pistoletto a cura di Marco Liberatore del Gruppo Ippolita